CHICAGO BULLS
di Andrea Cassini
La Chicago del basket non è una città abituata a perdere, e finisce preda del malumore quando si trova a sguazzare per troppo tempo nei bassifondi della Eastern Conference. Coach Fred Hoiberg non ha avuto vita facile nei suoi primi anni da capo allenatore in NBA, costretto a fare i conti con un ambiente che sposava con poco entusiasmo il suo rebuilding e una dirigenza che lo teneva sospeso tra vecchie glorie (i Rondo e i Wade transitati per Windy City recentemente) e giovani in rampa di lancio.
Nella scorsa stagione i Bulls hanno rotto gli indugi, ma quando l’annata si apre con Bobby Portis e Nikola Mirotic che fanno a cazzotti nel training camp, diciamo che si sono viste prospettive migliori. Intendiamoci, i Bulls non sono ancora materiale da playoff. In una Eastern Conference non più LeBron-centrica e povera di talento può succedere di tutto, ma a Chicago manca una leadership solida, un giocatore che si imponga e incarni sul parquet le idee tattiche di Hoiberg. La buona notizia è che la prossima stagione, che si prospetta come un laboratorio a cielo aperto, servirà a ratificare le gerarchie. Il materiale umano – e c’è pure qualche caso umano – di certo non manca, così come i candidati ad assumere il ruolo di stella. Le aspettative più pesanti gravitano intorno a Lauri Markkanen, che però salterà un paio di mesi per un infortunio al gomito.
Il finlandese ha superato a pieni voti la campagna da rookie, spiccando in un frontcourt affollato senza pagare lo scotto dell’esordio: la sua abilità al tiro è semplicemente eccezionale, ma non deve distrarci dalle altre qualità mostrate sul parquet, che lo rendono un big man davvero completo e futuribile – quantomeno sul versante offensivo. Hoiberg studierà con attenzione anche le mosse di Kris Dunn, che ha assolto con alterni risultati le grandi responsabilità che spettano al playmaker, e c’è da risolvere una sciarada tra Denzel Valentine e Zach Lavine: il primo viaggia tra alti e bassi ma ha alzato la voce pretendendo più minuti in campo, il secondo deve recuperare l’esplosività pre-infortunio ma intanto ha già staccato un contratto non troppo oneroso (78 milioni) ma piuttosto lungo (quattro anni).
In estate, due mosse intriganti. Jabari Parker fa come Fonzie in Happy Days e dalla grigia Milwaukee, dove l’hanno atteso dopo due crociati rotti per poi scaricarlo, si sposta tra le luci di Chicago: un investimento con pochi rischi e tanto da guadagnare. La scelta di Wendell Carter Jr da Duke, con la pick numero sette dello scorso draft, è estremamente saggia: Carter è un prospetto NBA-ready, un lungo moderno che gioca di squadra, buono da affiancare a Markkanen nel frontcourt del futuro – con buona pace di Robin Lopez e della sua sempiterna battaglia con le mascotte.
CLEVELAND CAVALIERS
di Giorgio Barbareschi
L’ultima volta in cui LeBron James ha deciso di portare i suoi talenti ad un nuovo indirizzo, ai Cavaliers c’è stato un tracollo sportivo paragonabile finanziariamente alla crisi dei mutui sub-prime del 2006. Un devastante -42 nella casella delle vittorie che portò Cleveland a passare da stabile contender a barzelletta della Lega in pochi ma lunghissimi mesi. Solo la riapparizione dello stesso LeBron permise alla franchigia dell’Ohio di tornare nel basket che conta e di arrivare al tanto agognato titolo del 2016, ma adesso è già ora di ripartire da capo.
Dopo le ulteriori due finali raggiunte da James e compagni, il godzillone con il 23 ha capito che era inutile tentare di spremere ulteriori risultati da un gruppo con poche prospettive e ha raccolto armi e bagagli in direzione Los Angeles, sponda Lakers. Ai Cavs restano i ricordi di quattro stagioni indimenticabili e un roster che definire problematico, sia tecnicamente che (soprattutto) finanziariamente, sarebbe un eufemismo.
Lo sforzo di costruire attorno a LBJ una squadra funzionale al suo talento e alla sua debordante personalità ha infatti portato la dirigenza di Cleveland a compiere negli ultimi anni scelte molto pesanti, che rischiano di condizionare il futuro a medio-lungo termine della franchigia in modo considerevole.
Futuro che il GM Koby Altman ha legato a doppio filo con quello di Kevin Love, a cui ha offerto un rinnovo contrattuale per 4 anni a 120 milioni di dollari complessivi. Love sarà il volto della franchigia dentro e fuori dal campo, con la speranza che torni ad essere quella macchina da punti e rimbalzi che ai tempi dei Timberwolves assomigliava tanto ad uno dei migliori giocatori dell’intera Lega.
Il problema vero è che sul resto del roster non ci sono le stesse speranze di miglioramento. Il duo Clarkson-Hill, arrivato a Cleveland all’interno dei vorticosi scambi avvenuti a ridosso dell’ultima trade, graverà complessivamente sul monte salari dei Cavs per circa 31 milioni in questa stagione e quasi altrettanti nella prossima. Ad essi vanno aggiunti i 36 e 30 milioni da bonificare da qui al 2020 sui conti correnti rispettivamente di Tristan Thompson (sic) e JR Smith (strasic), oltre ai 15 dovuti alla salma di Kyle Korver.
Ce n’è abbastanza da far impazzire anche il più paziente tra i contabili: il risultato è che la situazione salariale dei Cavaliers rende praticamente impossibile l’acquisizione di qualsiasi giocatore di rilievo da qui a due anni e il roster nelle mani di coach Tyronn Lue non promette niente di buono, per lo meno se rapportato ai risultati a cui da queste parti si erano felicemente abituati in era James.
Unica consolazione, aver mantenuto la famosa “scelta dei Nets” che ha permesso a Cleveland di selezionare allo scorso draft Collin Sexton. Non forse il prospetto che sperava la dirigenza dell’Ohio, ma la lottery non è stata particolarmente fortunata e alla numero otto i potenziali franchise rookies erano già tutti andati. Intendiamoci, Sexton è un ottimo prospetto: ha carattere, fisico e non ha paura di buttarsi in area alla ricerca di punti al ferro. Manca però di lucidità nella gestione del pallone (tende a perderne troppi) ed è un tiratore sospetto dalla distanza (solo il 33% da tre punti nel suo anno di college ad Alabama). Hill potrà essere un’ottima “chioccia” per lo sviluppo del suo talento, a patto ovviamente che rimanga sano (cosa che negli anni non sempre gli è riuscita alla perfezione).
In guardia si spartiranno i minuti J.R. Smith, che quando si ricorda di guardare il punteggio è ancora un discreto giocatore, e Jordan Clarkson, il cui passaggio sotto l’ombra di LeBron non ha fatto certamente bene ma che in questa stagione potrebbe ritrovarsi.
Rodney Hood è in contract year e avrà tutto l’interesse a darsi da fare per mantenere lo spot titolare in ala piccola, ma si prospettano minuti interessanti anche per il turco Cedi Osman, atteso ad un “salto di quantità” in termini di punti messi a referto.
Se di Love abbiamo già detto sopra, i suoi compagni in frontline saranno Thompson e Nance, entrambi con caratteristiche molto simili (energia, atletismo e rimbalzi) e buona attitudine difensiva, ma poco in grado di essere in utili in attacco al di là di qualche scarico nei pressi del ferro.
Coach Tyronn Lue dovrà quindi dimostrare di essere ben più di un semplice portaborse della sua ormai ex superstar, tentando di amalgamare un roster “difficile” verso il raggiungimento di una postseason che è comunque alla portata, non foss’altro per una Eastern Conference non particolarmente zeppa di avversarie imbattibili.
DETROIT PISTONS
di Marco Munno
Dopo 4 anni di poche luci e tante ombre, per Motor City si chiude il ciclo con Stan Van Gundy da plenipotenziario President of basketball operations e head coach. I Pistons ripartono con un gruppo non troppo diverso da quello lasciato in eredità dall’ex allenatore di Heat e Magic, ritoccato nel mezzo della scorsa stagione per tentare un disperato assalto, poi fallito, alla zona playoffs. Per provare a fare emergere le qualità del gruppo, è stato ingaggiato il “Coach of the year” in carica; da Dwane Casey ci si augura lo sviluppo di un attacco spumeggiante simile a quello messo in mostra dai Raptors nel corso della scorsa stagione.
Le maggiori responsabilità a proposito dovrebbero passare dalle mani di Blake Griffin: acquisizione di livello della fine dello scorso mese di gennaio, blindato da altri tre anni (più uno con player option) di contratto, fuori dal contesto di Los Angeles in cui si è affermato nella lega sarà l’indiziato numero 1 nel trascinare i Pistons. Secondo lungo per percentuale di canestri assistiti durante la scorsa stagione, dovrà sviluppare un’intesa innanzitutto con l’altro All Star della squadra, quell’Andre Drummond tanto dominante a rimbalzo (primo assoluto nella Lega con 16 a partita durante la scorsa annata) con stazza e atletismo quanto legato ad una bassa pericolosità al tiro (29.4% complessivo nelle conclusioni non prese sotto canestro), senza contare il pessimo 52.9% ai tiri liberi.
Dietro la coppia di lunghi fiore all’occhiello del roster, una serie di esterni in cerca di una stagione che possa consacrarli. A partire dal playmaker Reggie Jackson, uno che presenta l’incostanza di rendimento come marchio di fabbrica: in un sistema di Van Gundy molto legato al suo pick’n’roll centrale con Drummond, ha disputato le due prime stagioni da 18.2 punti e 7.7 assists e le seconde due da 14.5 punti e 5.2 assists, lasciando il dubbio sulla bontà della scelta dei Thunder di non trattenerlo nel febbraio del 2015. Come guardia partirà titolare Reggie Bullock, visti i progressi mostrati nel corso dell’anno passato dopo le 4 stagioni di inizio carriera con pochissimo spazio in campo.
A chiudere il quintetto sarà Stanley Johnson, non proprio divenuto quell’anti-LeBron che sosteneva di essere durante il playoff giocato da rookie ma a cui, anzi, si chiede un miglioramento riguardo alla deficitaria percentuale al tiro. Dalla panchina, cambio prezioso sarà Ish Smith, uno dei giocatori più rapidi dell’intera NBA, mentre è interessante l’addizione di Glenn Robinson III, in grado di portare tiro da 3 punti (39.3% nelle sue stagioni ai Pacers) oltre ai famigerati voli sopra il ferro.
Se gli europei Zaza Pachulia e José Calderón sembrano destinati a ruoli marginali e Langston Galloway a dare un apporto limitato, è a Jon Leuer e Luke Kennard che verrà richiesto di fornire contributo per allungare la rotazione: due grosse incognite, a partire dalle condizioni fisiche del primo per arrivare alle difficoltà di adattamento nel gioco a livello NBA da parte della dodicesima scelta assoluta del draft dello scorso anno. Dall’amalgama che questi diversi pezzi riusciranno a trovare e da eventuali break out seasons dipenderà l’ingresso nella lotta per entrare a far parte delle ultime posizioni della griglia dei playoffs.
INDIANA PACERS
di Marco Munno
Alzi la mano chi, all’inizio della scorsa stagione, dava credito al progetto di ricostruzione dei Pacers: Paul George, uomo franchigia, dichiarò di non voler firmare il rinnovo quando al termine dell’anno successivo sarebbe diventato un free agent, di fatto forzando la cessione; a ruota fu seguito da Jeff Teague e quasi l’intero reparto di esterni, con Monta Ellis e CJ Miles, cambiò aria così come il presidentissimo Larry Bird. Invece, la truppa di coach McMillan si è rivelata una sorpresa: un rendimento costante durante la stagione e un’ottima prestazione nei playoff, eliminati solo in gara 7 dai futuri campioni della Eastern Conference dei Cleveland Cavaliers.
Di conseguenza, il nucleo base dei 7 giocatori più impiegati è stato trattenuto, così da fungere come punto di partenza verso un ritorno ai piani alti ad Est.
Non si può che iniziare da Victor Oladipo: giocatore più migliorato della scorsa stagione, è passato dall’aver fallito il salto in una franchigia più ambiziosa dei modesti Magic ad essere un All Star simbolo di una squadra che punta a consolidarsi nella post season, trascinata a suon di canestri pesanti.
Braccio armato al suo fianco è quello di Bojan Bogdanovic: dopo le esperienze non del tutto soddisfacenti a Brooklyn e Washington, a Indianapolis il croato si è ritagliato un ruolo come scorer di supporto alla stella della squadra, con specializzazione nel tiro da fuori.
Un percorso simile il gm Pritchard se lo augura per Doug McDermott: firma che ha aperto la free agency 2018, con un compenso un pò sproporzionato rispetto a quanto dimostrato sinora, “McBuckets” è ritenuto addizione valida dalla panchina.
Dove però la più sostanziosa aggiunta è quella di Tyreke Evans: dopo stagioni in cui è stato martoriato dagli infortuni, nella passata è risultato essere l’unica vera luce nel buio dell’annata dei Grizzlies, dove ha registrato 19.4 punti, 5.2 assists e 5.1 rimbalzi ad allacciata di scarpe; sostituirà Lance Stephenson quale leader della second unit e alternativa di prim’ordine al quintetto base.
In questo contesto, il rookie Aaron Holiday, fratello di Jrue e Justin, può disporre di tanto tempo per adattarsi al gioco della lega senza che sia preteso un suo contributo da subito, così come per la prima scelta dello scorso draft per i Pacers T.J. Leaf.
Sotto canestro agirà ancora il mix composto da Myles Turner, Domantas Sabonis e Thaddeus Young: i primi due, più giovani, cercano una definitiva consacrazione dopo i flash di talento intravisti, mentre il secondo fungerà da equilibratore di esperienza fra i due, ancora non esageratamente affiatati (-9.9 di net rating se schierati insieme). Ulteriore aiuto potrà arrivare da Kyle O’Quinn, firmato in estate, che può portare un supplemento di energia al reparto.
Infine, confermata alla regia la coppia Darren Collison/Cory Joseph, nei consueti ruoli di titolare e ottimo cambio la cui chimica è risultata positiva nella passata annata.
Insomma, quello di coach McMillan pare un collettivo sulla carta pronto ad uno step successivo: le 2 Finali (più una Semifinale contro i futuri campioni) di Conference di inizio decennio non sembrano vicinissime, ma potrebbero essere neanche troppo lontane.
MILWAUKEE BUCKS
di Marco Munno
Dopo il trasferimento del dominatore di quest’ultima decade della costa Est, si è aperta la corsa al post LeBron quale miglior giocatore della Conference: Joel Embiid? Kawhi Leonard? Kyrie Irving? Ben Simmons? Giannis Antetokounmpo? Scorrendo questo elenco però, ciò che balza all’occhio è il fatto che tutti i papabili siano perno di una delle squadre candidate alla finale di giugno, tranne forse proprio il ragazzo più quotato come successore di James (proveniente da un’annata a 26.9 punti, 10 rimbalzi e 4.8 assists a serata).
Consci di ciò, intorno al Greek Freak, i Bucks si sono mossi così da costruire un contesto che possa risultare competitivo e non restare inchiodati al non lusinghiero 0 relativo alle serie di playoffs vinte negli ultimi 17 anni: in panchina innanzitutto è arrivato allora coach Mike Budenholzer, uno dei migliori sulla piazza, a cui il proposito di tanking degli Hawks, che proprio lui era stato in grado di mettere sulla mappa delle franchigie da tenere d’occhio, andava chiaramente stretto.
Intorno a Giannis, l’idea è stata quella di munirsi di tiratori così da poter sgombrare l’area per le sue penetrazioni a grandi falcate: sono stati firmati allora, fra i lunghi, un Brook Lopez che da un paio d’anni ha aggiunto questa dimensione al suo gioco (31 tentativi da 3 punti nelle prime 8 stagioni, 712 nelle ultime due) per il quintetto e l’usato sicuro Ersan İlyasova dalla panchina, componendo una coppia dal 35.2% complessivo dietro l’arco nella scorsa annata.
Confermatissime invece nel backcourt la seconda e la terza opzione offensiva della squadra: Khris Middleton è forse il cestista più sottovalutato della Lega, e se gli infortuni non lo tormenteranno il suo apporto senza fronzoli in attacco e tenace in difesa sarà la solita manna dal cielo per i Bucks; Eric Bledsoe, abbandonando la faida con Terry Rozier, può assicurare gare in cui far esplodere il suo talento. In panchina, inoltre, Tony Snell e il rookie “Big Ragù”, l’italo-americano Donte Di Vincenzo, avranno lo stesso compito di allargare il campo da specialisti al tiro dall’arco, senza considerare la variabile Shabazz Muhammad.
Starà allo staff tecnico trovare un equilibrio fra la versione più dotata offensivamente e quella che, sfruttando le lunghissime leve del lungo Thon Maker e dell’esterno Malcom Brogdon, rookie dell’anno di una classe non particolarmente d’élite come quella del 2016, assicura molta fisicità e 5 elementi (dando per inamovibile il terzetto Antetokounmpo-Middleton-Bledsoe) in grado di poter marcare avversari di almeno due differenti posizioni con un’elevata intercambiabilità generale. Dagli equilibri di questo mix, comincerà la rincorsa ai piani più alti della Conference, portando un Giannis, miglioratosi anno dopo anno nei diversi aspetti del gioco, a compiere l’ultimo passo per raggiungere le vette più alte della Lega.