E’ il 2011, a Chicago è arrivato da un paio d’anni un piccoletto esplosivo come se ne sono visti pochi nella storia della palla a spicchi, che, nato sui campi della città, gioca per i Bulls riaccendendo il fuoco che bruciava per quella squadra negli anni ’90 ai due lati del Pianeta. E’ marzo e Derrick Rose sta per affrontare in una partita decisiva per il 1° posto nella Eastern Conference i Boston Celtics di Rondo, Garnett, Allen e Pierce, vicecampioni NBA l’anno prima contro i Lakers.
Tra gli spalti, compare un trentino cresciuto a kilometri di distanza ma con il sogno di entrare un giorno allo United Center e poter finalmente lasciare andare le emozioni sul pezzo degli Alan Parson Project che notoriamente apre le danze dei Bulls e sentire quelle note scorrergli nelle vene dopo che per anni erano state coperte dalla voce di Guido Bagatta e dalle pubblicità mai troppo brevi della, grazie a dio scomparsa, TeleMontecarlo. Ci vuole un po’ a scollarlo dalla statua del messia, sistemata nel piazzale antistante al “palazzetto”, ma non così tanto da fargli perdere l’occasione di entrare tra i primi 500 nella mecca del basket chicagoano aggiudicandosi un oggetto del tutto superfluo ma splendidamente marchiato a fuoco con il toro simbolo non tanto di una squadra ma di un’intera epoca, quegli anni ’90 in cui la canotta rossa n°23 dei Bulls della Champion la compravi alle “Sorelle Ramonda” non nei footlooker o da Mitchell & Ness.
“Ehy man you are gettin’in pretty early”, “yes but you know, I’m coming from Italy“, il dialogo che va inscena con una tifosa all’entrata giunta dal North Carolina per lo stesso motivo. “Oh my god Italy for real? Love that, Italy where?” “North part, from a little town in between the mountains close to…Venice” (3 ore di passi invalicabili a separarmi abitualmente dalla Laguna).
Le spiego che sì in buona sostanza il motivo del viaggio tra una Philly Cheestake a Philadelphia, un primo contatto con il playground “The Goat” a New York e un contatto ravvicinato con quelli del “you know is like, oh my god” (intercalare a dir poco abusato dagli americani soprattutto nelle fasce giovanili che affollano gli ostelli e i locali di basso rango nei quali mi affaccio con continuità e discreta disinvoltura), si insomma che in buona sostanza sono lì per vedere Rose battere Rondo a colpi di crossover, prendersi la testa della Eastern Conference per la prima volta dall’era MJ e vincersi un titolo di MVP che avrebbe del clamoroso quanto quello vinto da quell’altro piccoletto di cui conservo il santino nel portafoglio tutt’oggi per la gioia di parenti, morose e carabinieri al controllo patente: Allen Iverson.
“Oh my gosh I think you are one of the most committed fans I have ever know!” (crede che io sia uno dei più folgorati che si apprestano ad entrare allo United Center) e mi rivela che è il mio giorno fortunato: non solo vedrò Rose e le due squadre al completo, ma all’intervallo scopriranno pure la statua di Scottie Pippen. Dicono che il suo cognome sia la parola più facile da pensare e pronunciare in presenza dell’avvenente moglie, prontamente presente allo United.
Che dire, sta per accadere una di quelle convergenze astrali che sarò in grado di realizzare solo anni dopo.
La situazione ha ovviamente del surreale: sono lì nel piazzate dello United, solo, eppure circondato dalle prime migliaia di persone in arrivo a palazzo, intento a discutere di basket con una signora dell’età di mia madre, nata e cresciuta nel North Carolina (si quello di Michael Jordan, che mamma conosce grazie a Space Jam), che di kilometri per vedere Rose ne ha fatti quasi quanto me e che mi benedice per avermi incontrato (il “bless you” americano è davvero figlio di un retaggio derivato dai padri pellegrini in avanscoperta verso Ovest e tradotto in italiano e portato nel nostro contesto culturale, suonerebbe più o meno come il saluto che solo un prete ammiccante o una catechista particolarmente petulante, potrebbe porti a fine confessione).
Sto per vedere Derrick Rose dal vivo. Non sto nella pelle, sto per vedere Derrick Rose dal vivo e provo una strana senzazione di Dejavu, come se io davanti a quel palazzo ci fossi stato centinaia di volte, e quella statua posta lì a pochi metri, l’avessi vista dal vivo in diverse occasioni, come se facesse parte del mio vissuto più profondo.
Dopo un paio d’ore passate a fantasticare, entro nell’arena e mi do da fare per raccattare quanti più gadget possibili con un toro rosso stampato sopra, roba che ancora oggi mi chiedo cosa mi fosse passato per la testa: 3 Benny da bull in miniatura con divise diverse erano proprio necessari?
Prendo posizione qualche metro sopra al parterre – oh, a Chicago non è che ci ritorni tanto facilmente, tanto vale separarsi da qualche pezzo in verde in più vista l’occasione – e attendo l’entrata dei tori nel palazzo. Quando le luci si spengono e partono le note di “Sirius” degli Alan Parson Project, non sono già più in me stesso: la pelle d’oca lascia spazio ad un piumaggio che mi avvicina probabilmente ad Howard il Papero e il nome di quel numero 1 pronunciato dallo speaker non solo non lo sento per il caos infernale dei fan, ma non lo vedo nemmeno entrare, coperto da fumogeni e bandieroni che non ho mai visto prima in un palazzo NBA (avete mai notato la coltre di fumo, visibile anche in TV, che si alza prima della palla a due allo United Center? Fateci caso…le immagini iniziali con riprese da bordo-campo non sono mai limpidissime).
Ha poi inizio la partita:
fisica e frenetica, probabilmente (ma tra piumaggio e litrozzi di birra in corpo, più economica per altro che al Madison, non potrei giurarci) tra le + clamorose mai viste dal vivo. Rose stende Rondo a ripetizione, cerco di beccarlo con una telecamerina – di smartphone neanche l’ombra, nokia smarz for life – a più riprese ma è semplicemente troppo rapido, ispirato, esplosivo. Quando segna l’arena si incendia, il pubblico si batte dei gran high-five e niente di quello che vedo sembra andare a velocità normale.
In quel momento preciso è MJ travestito da Derrick Rose, ed è un uomo in missione per una città intera. Le strade sono tappezzate di sue gigantografie, Adidas spende il budget annuale per creargli un’immagine epica, come se ce ne fosse davvero bisogno, i bar di Chicago propongono succhi aromatizzati con il “Rose Flavour”, in metro non si parla che di lui e sì, il mondo è ai suoi piedi e con buona pace di quello che nel frattempo è andato a Miami mettendosi sulla strada proprio del n°1 (credo gli debba un anello almeno, ma questo è un giudizio viziato dal tifo), ne sono testimone. La partita la vincono i Bulls, Rose ne mette una trentina uno più bello dell’altro, Garnett ridefinisce il concetto di trash talking, Ray Allen quello di tiro, Pierce quello di spacciatore, i Bulls vincono la Conference e Rose è MVP, dopo Iverson, prima di Curry, è il più giovane di sempre, uno dei più piccoli ever (22 anni). E’ storia, è la storia di Chicago, trasuda South Side, strada, rivalsa.
Kanye e Common, la crema della scena rap Chicagoana, lo citano nei loro pezzi da classifica, l’Adidas costruisce le calzature attorno al concetti di forza, leggerezza e potenza che mai prima di allora si erano palesati così bene e così compiutamente in un cestista, fatta eccezione forse solo per Starbury che però non valeva la metà di Rose in stacco da terra.
D-Rose col suo numero 1 che ricorda molto la storia del prescelto, con i continui ammiccamenti alla storia recente dei tori, con i 5 virtuali voluti dalla Lega a sua maestà MJ del quale è destinato a prendere il trono, D-Rose con la faccia da bravo ragazzo ma con una forte street credibility data dal sopracciglio alla “Tormento” e alla pelle butterata che pare si sia appena rialzato da una strisciata sull’asfalto dopo una caduta in contro-piede, D-Rose dicevo, è l’uomo giusto al momento giusto per riacchiappare tutti i fan di AI, per tornare alla hip hop era edulcorandola e ripulendola un pochino nell’immagine. D-Rose è The Man.
Quello che succede dopo lo sappiamo tutti fin troppo bene: i 2 infortuni di cui il primo avvenuto come pena del contrappasso, quasi per punizione divina in seguito all’annata clamorosa da MVP (il più giovane della storia a riuscirci), i rumors sulla sua presunta mancanza di leadership, di forza di volontà nel voler tornare quello di prima, di rapporto non idilliaco con una dirigenza che con lui ha già perso troppo tempo.
Quella sera di marzo a Chicago però, quella della statua di Pippen e di tutte le pippen che ne sono seguite per un fan dei bulls dopo l’entrata allo United, tutto questo era lontano, impensabile, improbabile, impossibile.
Anything is possible, diceva però Kevin Garnett, altro figlio (adottivo però, Farragut Academy) di Chicago. Arriva la notte del 23 (un caso?) giugno 2016: i Bulls decidono, a suo dire in modo inaspettato, di spedirlo a New York City in cambio di bruscolini e due pacche sulle spalle, con buona pace di Josè Calderon e Robin Lopez.
New York lo si sa, ha un debole per le point guards, normalmente streetplayers dalla lingua tagliente, zero tiro da fuori e penetrazioni fulminee che possono concludersi in due modi: avvitamento a centro area tra 3 giocatori avversari con palla appoggiata in spin alla tabella, o con uno scarico fuori sul perimetro per l’ala tiratrice di turno, mai scelta come prima opzione offensiva, bensì come piano B in seguito ad una rinuncia a tirare “at the buzzer” della point guard in questione. Ne sono gli esempi lampanti Pee Wee Kirkland, leggenda dei playground newyorkesi, Stephon Marbury, giù a Coney Island (che il tiro da 3 l’ha messo su una volta finito nel New Jersey, tanto per poter avvicinarsi idealmente a casa e sentirsi meno abbandonato nello Stato Giardino), Kenny Anderson e il venerabile Mark Jackson, play puro sangue dal fisico taurino amante del penetra e scarica soprattuto in giovane età. Non parliamo poi del Greatest of All time, almeno su un playground, Earl Manigault: penetrazioni e schiacciate dall’alto del suo metro e 80 scarso, di tiro neanche parlarne.
E Rose allora? Fisicamente e balisticamente ha tutti i numeri per giocarsela con i grandi del passato nel ruolo e per entrare quindi di diritto tra i beniamini dei newyorkers, è però curioso che allo stato attuale della sua carriera, Derrick non possa più essere il giocatore che NYC si aspetta in quella posizione e con quel fisico. Velocità ed esplosività non sono più quelle di un tempo, per non parlare della “cazzimma” che sembra scesa notevolmente un po’ per paura di nuovi infortuni, un po’, si vocifera da Chicago, per presunti atteggiamenti un po’ più rilassati del nostro, meno propenso a buttarsi in area all’arma bianca. Toccherà allora fare il processo inverso ed inventarsi più tiratore, proprio a New York, la patria di The Cage, dove se tiri da tre significa che stai tirando praticamente dalla tua area visto quanto è piccolo il playground di West 4th Street.
Che poi Rose ci avrebbe anche provato nell’ultimo anno a migliorare sui tiri da fuori, peccato che uno stile così istintivo ed un’attitudine di strada come la sua, male si sposino con un’etica lavorativa al tiro da perfezionista richiesta invece per diventare tiratori almeno credibili.
23 giugno quindi. Rose lascia Chicago, Chicago non lascia Rose che risponde indossando il n°25, quello di Simon Career Academy, Chicago, Illinois, South Side: è il numero di Ben Wilson, ex promessa chicagoana morto ammazzato nel 1984 da uno scontro tra bande. Puoi portare l’uomo fuori dal ghetto ma non porterai mai il ghetto fuori dall’uomo dicono nei Project americani.
E’ un po’ come per un appassionato e Bulls-fan della prima ora che ha visto giocare Rose allo United Center nel 2011: puoi portare via Rose da lì ma non potrai mai portarglielo via dalla sua Chicago, quella che in fondo al cuore, si sta ancora giocando quella partita punto a punto con Boston, e quella serie con Miami, e quella maledetta partita di playoff contro i Sixers che ha cambiato per sempre la sua carriera.
Quello che ha fatto incontrare uno sbarbo italiano e una massaia benedicente del North Carolina in un parcheggio di una delle zone più losche dell’Illinois. Quello delle congiunzioni astrali e delle leggi di Murphy, che contrariamente a ciò che molti pensano dando loro accezioni negative, riassumono molto di questo tipo di storie teorizzando che “se qualcosa può succedere, accadrà”.
Vero Derrick?
See you in New York City, again.
di Luca Mich
Luca.
Complimenti davvero, scrivi come un giornalista sportivo di grande livello !!!!!!
Il tuo reportage mi ha fatto tornare alla mente (e ribollire il sangue come allora) quando nel 92 nello stadio vecchio di Chigago ho assistito alla partita dei Chicago Bulls contro il Milwakee, allora era il mitico Michal Jordan che infiammava la folla, quella serà però ebbe un infortunio e non giocò per molto.