Quando recentemente sono stato a Berlino a vedere i San Antonio Spurs non ho potuto fare a meno di notare come, al seguito della truppa degli Speroni, oltre a leggende del calibro di Sean Elliott e George Gervin, ci fosse anche un altro protagonista NBA non di primissimo pelo.

Questo signore in carne dal ciuffo argenteo e dalle gote “vissute”, appena concluso un lauto pranzo in compagnia del coaching staff dei campioni in carica, se la rideva sotto i baffi perché, non trovandosi ad indossare vestiario legato ai nero-argento, non veniva riconosciuto dai supporters a caccia di autografi e foto ricordo, al contrario dei propri colleghi.

E’ stato nello scorgerlo lì, con le guance ancora paonazze e provate dal pasto appena consumato, e nel veder passare poco dopo il Beli, che mi sono reso conto di come la storia NBA di quest’ultimo (conclusasi come sapete con il tanto agognato e meritato lieto fine ed il titolo, e relativo anello, di campione) sia stata profondamente segnata da due allenatori legati tra loro da un sottile (ma non troppo!) filo: il primo head coach che il nostro da San Giovanni in Persiceto abbia avuto negli USA (ovvero il signore di cui sopra) ed il suo ultimo ed attuale allenatore.

belc Esatto, i due protagonisti della storia che mi accingo a raccontarvi sono proprio loro: Don Nelson e Gregg Popovich.

Primo turno di playoffs, 1991: i Golden State Warriors di Don Nelson si trovano ad affrontare i San Antonio Spurs di Larry Brown.

Prima di una delle gare della serie, l’ex-giocatore dei Lakers ma soprattutto dei Celtics si trova a bordo-campo per rifinire gli ultimi dettagli dell’incontro che sta per avere luogo quando il suo sguardo viene catturato da cosa sta accadendo nella metà campo opposta del parquet, dove un giovane assistente sta svolgendo un lavoro particolareggiato con i propri ragazzi, e lo sta facendo particolarmente bene.

Talmente bene ai suoi occhi che, pur senza avergli di fatto mai parlato direttamente, quando nel ‘92 gli servirà un nuovo assistente nella Bay Area, Don Nelson lo vorrà con sé. Come avrete capito, quell’assistente di belle speranze era Pop.

Inizia così un rapporto speciale tra i due che prosegue quando Gregg Popovich, dopo due stagioni a San Francisco, viene assunto come general manager degli Speroni, e continua nel corso degli anni fino ai giorni d’oggi.

A dirla tutta, le curiosità in tal senso non finiscono qui: nel 1994, nella sua veste di GM, Pop fa di tutto per provare a portare l’amico Don sulla panchina nero-argento, ma nulla può dinanzi all’ostentato diniego di Dan Fitzgerald, proprietario dei Warriors, e deve ripiegare su Bob Hill.

Quello che succede a breve poi é storia: Nelson verrà licenziato dalla dirigenza di Golden State, che dopo avergli dato il benservito non riuscirà a partecipare ai playoff per una decade. Gregg invece, nel 1996, esonerò Bob Hill e si prese la panchina degli Spurs, iniziando quella straordinaria cavalcata ancora in corso. Le più classiche delle sliding doors.

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Mentre vi state chiedendo cosa sarebbe successo se le cose fossero andate diversamente, inizio a venire al punto: quello in questione é, come detto, un rapporto davvero speciale; talmente speciale, che ha permesso a Don Nelson di riuscire nell’ardua e rarissima impresa farsi beffe di Popovich, abituato ad essere lui a farsi beffe degli altri (l’episodio risale al tempo in cui i due erano entrambi ai Warriors).

Dovete sapere che Pop era fissato con un suo coach ai tempi del college (all’aviazione, ovvero l’Air Force), il quale si dilettava a dipingere: ne era davvero innamorato. Per il compleanno di Gregg, Don Nelson decise di contattare questo  per vedere se potesse mettere le mani su qualche sua opera da poter regalare al suo amico. Il destinatario della telefonata, sebbene avesse dovuto forzatamente smettere di dipingere a causa dell’artrite, aveva ancora qualche proprio dipinto rimasto nell’attico. Dopo aver seccamente rifiutato di accettare soldi, provvedette a spedire a Don un bel quadro raffigurante un nativo americano.

Una volta ricevuto il pacco, Nelson poté quindi proseguire col suo piano: in occasione del compleanno di Pop, l’intero coaching staff sarebbe andato a pranzo al molo dei pescatori di San Francisco, precisamente da Alioto’s.

Eat.Alioto Prima di sedersi a tavola, pero’, Don avvertì il resto della comitiva della sua necessità di fermarsi poco più in là ad un piccolo negozio d’arte nel quale si era fatto incorniciare delle cose.

Piccolo particolare: il proprietario della bottega in questione era un amico di vecchia data di coach Nelson, si era visto consegnare il dipinto del nativo americano e ci aveva schiaffato sopra un finto prezzo da capogiro come da istruzioni, essendo stato opportunamente istruito relativamente al piano che gli era stato spiegato ed illustrato dal suo artefice nei minimi dettagli, al fine di trovarsi eventualmente pronto qualora la vittima dello scherzo avesse chiesto qualcosa.

Figuratevi la scena: il coaching staff entrò, e si vide esortare da Don a guardarsi intorno mentre lui sbrigava la sua commissione, dal momento che ne sarebbe valsa la pena visto che c’erano “numerosi bei dipinti” esposti. Ottenuta l’attenzione di Pop, con un colpo da maestro poi lo indirizzò lungo uno stretto corridoio della galleria, alla fine del quale era esposto un maestoso dipinto che rappresentava un nativo americano. Gregg rimase lì a guardarlo, ad osservarne i particolari, chiedendosi se potesse mai essere davvero ciò che gli sembrava. Scorta la firma (nome e cognome combaciavano incredibilmente), pensando ad alta voce, si lasciò andare a qualcosa come: “Sembra proprio la mano del nostro coach. Le credenziali riportano. Che razza di coincidenza! Certo é impossibile, non puo’ essere…”.

Bastò un “Perché non vai a controllare?” di Don Nelson a far sì che Gregg ci cadesse con tutte le scarpe: in men che non si dica era già al cospetto del padrone del locale, a chiedergli informazioni riguardo all’autore. Il proprietario allora recitò la sua parte in maniera impeccabile, dicendo che si trattava di un certo allenatore del Colorado che dipingeva a tempo perso ed aveva un talento fuori dal comune che aveva portato una delle sue opere a finire sulla Bay Area.

Non potendo credere alle sue orecchie, Pop corse allora da Don Nelson, felice come un bambino, esclamando: “E’ lui! E’ lui! Incredibile! E’ proprio lui. E’ davvero lui!”.

Trattenendo a stento le risate allora Don Nelson gli disse: “Ti piace proprio vero?”, ed ottenuto il prevedibile: “Lo adoro” come risposta, si rivolse al proprietario per chiederne il prezzo.

Per la modica cifra di 50.000$, non sentendo ragioni quando Gregg cercò di opporsi data la cifra a dir poco smodata, Don Nelson non batté ciglio, e trattenendo le risate, intimò al proprietario di incartare il quadro in questione che avrebbe a spese proprie regalato a quell’uomo per il suo compleanno.

Fu solo quando si sedettero al tavolo ed ebbero ordinato da mangiare, che Don, non potendo ulteriormente aspettare, vuotò il sacco con il diretto interessato.

Tutto il pranzo fu un continuo “Te l’ho fatta! Te l’ho fatta, motherfucker!” da parte di Don Nelson ed un “Ma guarda che razza di coglione…” da parte di coach Pop. Si andò avanti così per due ore buone…

Come avrete capito, siamo in presenza di due amici da ben 25 anni che nel mondo di quello sport che tanto amiamo hanno a dir poco detto la loro.

Quando a Berlino ho avuto la fortuna di vederli così, fianco a fianco,

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non ho potuto fare a meno di immaginare la voce di Pop che si rivolgesse all’amico dicendo: “Non ci avevi capito un cazzo come al solito… Hai visto come l’ho fatto diventare l’italiano? Fosse stato per te, chissà dove sarebbe finito…”.

Esattamente come nel caso del pranzo di cui sopra: due amici di vecchissima data che ne hanno viste tante e che non perdono occasione per sfottersi.

Ah, per la cronaca, se mai doveste essere invitati a casa di Pop a sorseggiare un bicchiere di rosso nel suo salotto, ci sarebbe un certo nativo americano a guardarvi fissi.

Turnovers.

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Valerio D'Angelo

Ingegnere romano malato di palla a spicchi. Lavoro a WhatsApp (ex-Google, ex-Snap, ex-Facebook) e vivo a Dublino, in una nazione senza basket, dal 2011. Per rimediare ho scritto il libro "Basket: I Feel This Game", prefazione del Baso. Ho giocato a calcetto con Pippen e Poz, ho segnato su assist di Manu Ginobili, ho parlato in italiano con Kobe in diretta in una radio americana e mi e' stato chiesto un autografo a Madrid pensando fossi Sergio Rodriguez.

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