Felipe Reyes, Cordova, 16 marzo 1980

Raul Lopez, Vic, 15 aprile 1980

Bernardo “Berni” Rodriguez, Malaga, 7 giugno 1980

Juan Carlos Navarro, Sant Feliu de Llobregat, 13 giugno 1980

Pau Gasol, Barcelona, 6 luglio 1980

German Gabriel, Caracas, 16 novembre 1980

Josè Manuel Calderon, Villanueva de la Serena, 28 settembre 1981

Carlos Eduardo Cabezas, Malaga, 23 ottobre 1982

 

Ai cittadini di Sant Feliu de Llobregat non è mai fregato granché della pallacanestro. Al massimo un po’ di pallavolo, lascito del torneo olimpico del ’92 che vide qualche partita della prima fase disputarsi nel palazzetto comunale. Nel sobborgo (alla faccia del sobborgo: 43 mila abitanti) ad una decina di chilometri da Barcellona piace una cosa sopra tutte le altre: coltivare rose. Lo fanno da dio, tanto che, quando il governo della Spagna repubblicana nel 1936 decise di togliere dai nomi delle località ogni riferimento religioso, la città acquisì il nome di Rosas de Llobregat. Durò poco, appena tre anni, prima che il generale Franco “rimettesse le cose al suo posto”.

Ma questa è un’altra storia (cit.).

Il 1988 è un anno speciale per la città: l’Esposiciò Nacional de Rose (serve traduzione?), la più grande fiera spagnola e una delle maggiori d’Europa nel settore, compie 60 anni. Per le vie del centro, in quell’estate catalana, la famiglia Navarro è intenta a scegliere le rose migliori offerte dal festival cittadino. “Juanito, ti piacciono queste?”.

Occhi a destra. Occhi a sinistra. Ma Juanito si è dileguato.

Ad un bimbo di 8 anni delle rose frega il giusto.

Non è andato lontano. Si è procurato una pallina di carta e sta disegnando arcobaleni su un portafiori vuoto. Una cosa così, per intenderci:

Juan Carlos Navarro lo sta mettendo a punto da tempo nel giardino di un vicino, tale Juan Antonio Avellano, che è innamorato del basket e che ha visto qualcosa nelle mani fatate di quel piccoletto. Lo allena, insieme ai suoi fratelli maggiori cui tira in testa con queste parabole imprendibili anche per loro. Il bimbo ha classe e se ne accorge anche un osservatore del Barcellona, spinto in periferia dalle meravigliose referenze su quel giovincello cresciuto tra le rose. È l’estate delle Olimpiadi catalane e mentre al Montjuic il Dream Team mata la Spagna di Epi e Villacampa, al Palau papà Ricardo veste di blaugrana suo figlio Juan Carlos. È un’iradiddio quel piccoletto che viene dalla periferia: spacca le partite con i suoi canestri impossibili, ma è un’arma esplosiva che può far bene o male, non è ancora affinata a dovere. Per questo i suoi compagni di squadra iniziano a chiamarlo “La Bomba”.

Mentre il nome di Navarro inizia a fare il giro di Barcellona, della Catalogna e poi della Spagna intera, a Cornella, comune a due passi da Sant Feliu, c’è un airone con un telaio da pivot che un coach visionario chiama “Pantera Rosa” per la somiglianza con Toni Kukoc. Lo fa giocare da playmaker e non se la cava affatto male. Il ragazzone ha cromosomi buoni, papà Agustì e mamma Marisa si sono conosciuti sui campi da basket delle serie minori spagnole e sono alti rispettivamente 1,96 e 1,86. Ma crescendo il ragazzo va ben oltre: insieme ai peli pubici inizia ad aggiungere anche centimetri sia in altezza che di apertura alare. I due metri abbondanti uniti alla visione di gioco di un esterno lo rendono appetitoso non solo per la squadretta in cui milita o nei campetti nei paraggi della Sagrada Familia nei quali è cresciuto. Ma anche per la cantera blaugrana: nel 1996, mentre la Spagna guarda dal salotto le Olimpiadi americane del Dream Team II, Pau Gasol ha 16 anni e approda al Barcellona.

Juan Carlos è la stella indiscussa, fa già capolino in prima squadra, nella quale esordisce il 23 novembre 1997 da par suo: 10 punti in 11’ al Coviran Granada. Pau, invece, fa fatica a trovare la via per confermare le aspettative, pur facendo intravedere un potenziale in divenire. È un ragazzo molto disciplinato e studioso, sua madre lo vorrebbe musicista. Lui si applica, ma i risultati sono quello che sono:

In due si è una coppia, da tre in su una famiglia. Tra Pau e “Juanqui” (il nomignolo con il quale lo chiamavano in Nazionale) nasce una sincera amicizia, che si cementa nel tragitto che, nell’estate del 1998, li porta all’Albert Schweitzer Tournament di Mannheim, il mundialito under 18. La Spagna tira dritto fino in semifinale, dove ci sono da affrontare gli Usa, imbattuti da tre edizioni. “La prima azione alzano un alley-hoop per Carlos Boozer, non un bel presagio”, ricorda il nigeriano di Badalona Souley Dramè, che arrivava dalla Joventut insieme al “Mago di Vic”, Raul Lopez. Punto dopo punto, però, la Roja prende il largo: il colpaccio è servito. In finale, l’Australia mette i brividi, ma ci pensa il malagueno Carlos Cabezas (che gioca con ragazzi due anni più vecchi di lui…) con una penetrazione mancina a fil di sirena a regalare vittoria e trofeo. Pochi mesi dopo, all’Europeo di Varna, gli iberici concedono il bis, ma l’obiettivo è più ambizioso e la squadra, cementata dalle vittorie, non si pone limiti, volgendo lo sguardo a Lisbona ‘99.

“Se vinciamo il Mondiale ci facciamo tutti biondi”.

Ogni promessa è un debito.

biondi

Gli Usa non saranno irresistibili, le star della squadra sono Kenyon Dooling, Nick Collison e Bobby Simmons. È il quintetto iberico ad esserlo: capitan Raul Lopez, Carlos Cabezas, Juan Carlos Navarro, German Gabriel, Felipe Reyes.

E Pau?

“Io entravo della panchina a dare un po’ di energia, i titolari erano German e Felipe”, ricorda il catalano nello splendido documentario “Generacion 99: Gasol y Navarro”. “Era magrolino all’epoca, faceva fatica a reggere i contatti e per questo non trovava tanti minuti. Pensateci oggi che è il miglior giocatore spagnolo di tutti i tempi”, conferma Felipe Reyes.

In assenza pure dell’infortunato Calderon, ci pensa il solito Navarro a trascinare la squadra con 25 punti nella finalissima (guardatevela, almeno qualche spezzone: c’è già tutto Navarro, fatto e finito). “Lui e Raul Lopez erano le stelle della squadra da sempre”, certifica Pau. Il timbro, però, anche stavolta come a Mannheim, lo mette il più piccolo di tutti, Carlitos Cabezas: bomba del +6 nei secondi finali e terzo oro in 12 mesi. Se l’Argentina ha la Generacion Dorada, la Spagna può rispondere con i suoi Juniors de Oro.

juniors-de-oro

Ma se i sudamericani sono una nazionale da costruire praticamente da zero e quindi i talentuosi virgulti ne prendono ben presto la guida, la transizione spagnola è ben più lenta. Navarro è un predestinato e Lolo Sainz lo vuole in rosso già a Sydney 2000, dove però arriva solo un mesto 9° posto e con La Bomba a recitare da comprimario tra i vecchi leoni. Gasol ci mette un po’ di più, ma inizia presto a farsi largo anche lui nelle rotazioni del Barca. Insieme i due ne diventano padroni nel 2000/2001: centrano la doppietta Liga-Coppa del Re, con Pau a stampare 18,5 punti e 6,0 rimbalzi a partita in Eurolega (nella quale è primo quintetto) e Juan Carlos a volare a 19,9 punti di media in Acb. Barcellona è ai loro piedi, la Spagna anche, visto che nel 2001 la coppia, insieme a Raul Lopez e Reyes, appena sbarcata in Nazionale si prende il bronzo e Gasol la nomination nel quintetto ideale della manifestazione.

Anche l’America è pronta a inchinarsi. Ma non ad entrambi. Navarro ha deciso di restare per tentare l’assalto all’Eurolega, mentre Gasol vuole coronare il suo sogno: quello di giocare con i suoi idoli Duncan e O’Neal. Al draft 2001, per Pau c’è la chiamata numero 3 (è l’indimenticabile anno di Kwame Brown alla 1), che gli Atlanta Hawks girano a Memphis per Shareef Abdur-Rahim.

La coppia è destinata a spezzarsi.

“Cosa mi mancherà di più della Spagna? Juan Carlos”, risponde durante la conferenza stampa in cui annuncia la sua volontà di varcare l’Oceano.

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Sono i raduni della Nazionale a rappresentare il loro buen retiro. Quei raduni in cui, col passare degli anni, si ritrovano ogni estate gran parte degli eroi di Lisbona ’99 e rivivono le sensazioni di quei 12 mesi irripetibili vissuti da sbarbatelli. Ai Mondiali di Giappone 2006 sono ben 6 su 12 i reduci dall’impresa di sette anni prima: Gasol, Navarro, Calderon, Cabezas, Reyes e Rodriguez. Pepu Hernandez ha costruito il team intorno all’ossatura formata da quel gruppo che sa già come si vince. E che infatti fila veloce verso le semifinali, dove lo scontro è epocale: Spagna contro Argentina, Juniors de Oro contro Generacion Dorada. Sangue latino, stessa età, amicizie nate dentro e cresciute fuori dal campo, le medaglie al collo che arrivano una dietro l’altra. Sembra un percorso parallelo quello del New Deal argentino dei Ginobili, Scola e Nocioni e quello spagnolo di Gasol e Navarro, anche se quello albiceleste è già impreziosito dall’incredibile oro di Atene 2004.

È una partita epica.

L’Argentina parte forte, ma Ginobili e Nocioni (10/33 dal campo in coppia) non sono nella loro miglior serata. La Spagna risale trascinata da un Gasol che fa ammattire Scola e mette la freccia nel terzo quarto. Il tabellone dice 73-67 Spagna a 1’36” dalla sirena. Quando accade l’imponderabile.

Spanish basketball player Pau Gasol (C),

Pau esce infortunato alla gamba e l’Argentina si ringalluzzisce. Una tripla irreale di Pepe Sanchez dimezza lo svantaggio, l’altro figlio di Bahia Blanca accorcia ancora da 2 poi Scola mangia in testa a Rudy e dalla lunetta impatta sul 74-74 a 22” dalla sirena. Il resto boh, descrivetelo voi:

La Spagna è in finale ad un Mondiale per la prima (ed ad oggi ancora unica) volta nella sua storia. Ma nessuno ha voglia di festeggiare. “Quando rientrai in spogliatoio, vidi Pau portato a braccia da Marc, Juan Carlos con l’asciugamano in testa, Carlos [Jimenez] con la faccia girata verso una parete e Jorge [Garbajosa] dall’altra. E avevamo appena conquistato la finale”, così ricorda quei momenti coach Pepu Hernandez. “Allora cercai di dare una scossa, urlando: tutti in piedi, mettete qua la mano, la prossima partita la vinciamo per Pau!”.

Dopo la doccia, la squadra torna in albergo per la cena e Pepu raggiunge Pau in camera. “Volevo tre minuti per parlare con lui – ricorda l’allenatore spagnolo – quando, all’improvviso, entrano tutti gli altri. Si raggruppano a tre a tre e iniziano a giocare alla pocha [un gioco di carte spagnolo, ndr]. Abbiamo iniziato lì a vincere la finale”.

tamb

E infatti gli iberici la trasformano in una formalità. Marc non fa rimpiangere il fratello, annulla Schortsanitis e la Grecia, che era stata capace di eliminare gli Usa in semifinale, e spinge la Spagna sul tetto del mondo. Senza il loro totem, nominato comunque Mvp del torneo (unico a vincerlo senza giocare la finale), ce l’hanno fatta lo stesso. È proprio lui, nonostante il capitano sia Carlos Jimenez, a staccare la coppa al cielo. “In realtà non si era capito bene se fosse la coppa per l’Mvp o il trofeo vero e proprio – ricorda l’ex Estudiantes e Malaga – ma fu un bel momento per lui, alzare la coppa anche se non aveva giocato la finale. Per cui non ci fu assolutamente nessun problema, anzi. Fui davvero felice di farlo”.

Carlos Jimenez è la talpa
Carlos Jimenez è la talpa

L’Europeo casalingo dell’anno dopo sembra apparecchiato apposta per il bis (e per il primo oro europeo), ma JR Holden ha altri programmi. Per Pau, però, almeno una gioia c’è: quella di sapere che tra poco si riunirà con il suo Juanqui, ingaggiato da Memphis nell’estate 2007 dopo aver ricevuto i diritti da Washington. I Wizards lo avevano selezionato alla numero 40 nel draft 2002. “Non gioco per essere il numero 40”, aveva detto cinque anni prima. Ma la presenza di Pau, che nel frattempo è diventato una star e che con la sua influenza ha sfasciato la testa a coach Marc Iavaroni esaltando le doti del suo amichetto barcellonese, lo convince nonostante il salary cap non permetta ai Grizzlies di offrirgli un gran contratto: 538 mila dollari, ottavo giocatore meno pagato di tutta la Lega per la stagione 2007/2008. “Glielo dicevo sempre: devi provare a misurarti con i migliori del mondo”, rammenta Gasol. E alla fine La Bomba cede alle lusinghe e, con l’amatissima moglie Vanessa e i due figlioletti, sbarca in Tennessee. Navarro-Gasol, come ai vecchi tempi della cantera blaugrana.

Darko Milicic è la talpa
Darko Milicic è la talpa

“Pau mi aiutò tantissimo nei primi mesi a Memphis”, dice Juan Carlos. Ma “El Rey”, pur mostrando sprazzi della sua classe cristallina come questo, non si ambienta mai del tutto. Ha problemi con la lingua e non sente quel modo di concepire la pallacanestro mai veramente suo. A febbraio poi la tegola: Pau viene scambiato con i Lakers in cambio di Kwame Brown (simpatico il destino, eh?), il sobrissimo Javaris Crittenton e Aaron McKie. In gialloviola troverà la sua definitiva consacrazione, ma a che prezzo? Quello di perdere di nuovo il suo amico fraterno. “Non so se sarebbe cambiato qualcosa per lui se fossi rimasto”, replica Pau. Ma nell’estate 2008 il telefono squilla e il prefisso è quello di casa.

Prima di rientrare, però, c’è una mission impossible da provare a portare a termine: far vedere che in Nba, se fosse rimasto, la Bomba sarebbe esplosa comunque. L’occasione sono le Olimpiadi di Pechino, con la Spagna che mette nel mirino il “Redeem Team”, la formazione allestita da coach K per vendicare le disfatte di Atene 2004 e Tokyo 2006. “Redeem”, redenzione. Redenzione anche dalle batoste che gli spagnoli avevano saputo infliggere anni prima.

Team Usa mette le cose in chiaro seppellendo gli iberici sotto 37 punti nel match valido per il primo turno. Ma la Roja viaggia senza ulteriori intoppi verso la finale che tutti si aspettano, superando pure l’infortunio che, nei quarti, ferma Josè Calderon e lancia un diciassettenne che ha fatto faville a livello cadetti: tale Ricky Rubio. “Questa selezione è speciale perché crede sempre nell’impossibile”, sentenzia l’attuale play dei Timberwolves, che in quella Olimpiade passa da delegato a portare gli hamburger a Reyes e Mumbrù (d’altronde era l’under di turno) ad anello fondamentale della formazione di Aito.

In finale la musica è ben diversa da quella del match di una settimana prima. Pau, Rudy e Juan Carlos ribattono colpo su colpo a Lebron, Wade, Melo, CP3. Il poster di Fernandez in testa a Dwight Howard a 5’ dalla sirena per il -9 spagnolo ne è l’emblema e, sembra, lo squillo di tromba verso la carica finale.

Poi però Kobe…

Per inquadrare la grandezza di questa generazione irripetibile basterebbe il confronto con la Spagna prima di essa. Prima del 2000 (prima apparizione di Navarro con le Furie Rosse), la nazionale maschile di basket iberica aveva vinto un totale di 6 medaglie nelle grandi competizioni internazionali: 4 argenti e un bronzo europei più l’argento alle Olimpiadi del 1984. Dal 2000 in avanti le medaglie sono 11: 2 argenti ed un bronzo olimpici, un oro mondiale, 3 ori, 2 argenti e 2 bronzi europei.

E’ bene ricordare le sagge parole di Yao Ming: “il nostro valore è massimo quando il nostro avversario gioca al suo di massimo. È da qui che viene il rispetto”. Anche nel 2012 Pau e Juan Carlos ci vanno vicini, seppur non abbastanza. Il loro status di star di livello planetario, però, è ormai riconosciuto anche dai fenomeni americani, che, uno ad uno, prima di ricevere la meritata medaglia d’oro londinese sfilano davanti alla panchina giallorossa per omaggiare uno stremato Gasol per l’ennesima, strepitosa partita disputata. “Quando Gasol, Navarro, Calderon e Reyes arrivarono in questa squadra, la qualità era alta ma la voglia di competere bassa. Il loro ingresso portò l’ambizione e l’autoesigenza in una forma contagiosa”. Parole di qualche giorno fa di Sergio Scariolo, uno che agli Juniors de Oro ha dato ma deve anche moltissimo.

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Francesc Cabeza ha avuto una onesta carriera tra Acb e leghe minori spagnole. Era compagno di Pau e Juan Carlos nelle giovanili del Barca. “Sull’aereo di ritorno che da Lisbona portava noi catalani a Barcellona, ad un certo punto Raul Lopez si girò e disse: ma cosa abbiamo fatto, ragazzi? Siamo stati in silenzio per mezz’ora a pensare a quello che avevamo fatto. Avevamo fatto la storia”.

No Francesc, non l’avevate fatta. Stavate solo iniziando a scriverla.

djordjevic

 

La stupenda immagine di copertina, al solito, è stata realizzata da David Agapito

Molte delle dichiarazioni contenute in questo pezzo sono tratte da questi due, meravigliosi documentari:

  • “Generacion 99: Gasol y Navarro” di Josè Antonio Luque, 2014
  • “Una historia de amistad y baloncesto” di Oriol Bosch, 2014. Lo potete vedere integralmente (in spagnolo) QUI 

 

Articolo a cura di Marco Pagliariccio

 

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

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