DALLAS MAVERICKS
di Giorgio Barbareschi
Se state cercando una squadra carica di hype, siete arrivati nel posto giusto. Se infatti gli ultimi due anni dei Mavs sono stati anonimi al limite del soporifero, da quest’anno si cambia decisamente marcia. I motivi? Ve li spieghiamo subito.
Tanto per cominciare questa che sta per cominciare sarà quasi sicuramente l’ultima stagione della carriera di Dirk Nowitzki. Già questo dovrebbe essere sufficiente a spingere ogni appassionato di basket a seguire con religiosa attenzione gli ultimi passi di questo meraviglioso giocatore, prima di vederlo tornare alla sua natia Wurzburg a riempirsi di birra raccontando al bar di quando dominava la NBA senza aver mai saltato più di venti centimetri. Con una stagione senza infortuni Dirk potrebbe superare Chamberlain (!) e addirittura Sua Ariosità Michael Jordan (!!!) per assestarsi al quarto posto assoluto nella classifica dei migliori realizzatori nella storia della NBA. Nowitzki ha letteralmente segnato un’epoca: non soltanto è stato il miglior giocatore europeo ad aver mai calcato i parquet americani ma anche il miglior lungo tiratore mai visto su un campo da basket, inventore di quel suo “tiro della cicogna” che negli anni si è dimostrato instoppabile tanto quanto il leggendario gancio cielo di Kareem Abdul Jabbar.
Ma non c’è soltanto questo. A Dallas c’è un nuovo giovane europeo, biondo anche lui ma di passaporto stavolta non tedesco, arrivato proprio per raccogliere l’eredità che sta per lasciare il mitico Dirk. Luka Dončić è stato additato da molti esperti come il probabile Rookie of the Year e ci sembra di poter sottoscrivere tale pronostico. Lo sloveno può vantare un bagaglio tecnico e una maturità cestistica di primissimo livello, doti che gli hanno permesso di essere non soltanto competitivo ma addirittura assoluto protagonista contro avversari (campionato ACB, Eurolega, Eurobasket) nettamente più probanti rispetto a quelli che i vari Ayton, Bagley o Young hanno potuto incontrare nel corso del campionato NCAA.
Identificare un ruolo preciso per Dončić non è così immediato, perché probabilmente occuperà a seconda dei casi tutte le posizioni dalla 1 alla 4. Ha doti di playmaking già di alto livello grazie alle quali condurrà molto spesso l’attacco di Dallas anche più del sophomore Dennis Smith Jr, atleta pazzesco ma più un realizzatore che un creatore di gioco per i compagni. Grazie ai centimetri e ai chili (2.03 per 100 kg) del suo robusto telaio opererà molto spesso da point-forward, permettendo ai Mavs di sperimentare diversi quintetti a seconda dell’avversario che avranno di fronte.
Oltre a Dončić e Smith, del quintetto titolare faranno sicuramente parte Harrison Barnes, decisamente cresciuto di rendimento dal suo arrivo a Dallas ma pur sempre un giocatore con dei limiti ben definiti, e DeAndre Jordan, proprio “colui che fece per viltade il gran rifiuto” non più tardi di due anni fa e che invece adesso punterà molto probabilmente a rimanere in Texas il più a lungo possibile.
Per quanto possa suonare strano scriverlo, Nowitzki partirà dalla panchina per la prima volta in carriera per far spazio a Wesley Matthews in un quintetto con quattro esterni che tanto va di moda nel basket contemporaneo. Dwight Powell, lungo atletico ma un po’ limitato tecnicamente e fisicamente leggerino, e Maki Kleber, decisamente più “statico” del suo pariruolo ma in possesso di mano molto più educata, potranno fornire diverse alternative in frontline da utilizzare a seconda delle situazioni.
A guidare la nave ci sarà per la decima stagione consecutiva coach Rick Carlisle, nel tempo libero sosia di Jim Carrey ma in orario di lavoro ancora una delle menti più brillanti dell’intero panorama NBA. Il nuovo progetto dei Mavericks non prevede di essere competitivi per il titolo da subito, ma di cominciare a percorrere i passi necessari per tornare a far parte dell’élite NBA. Nella prossima offseason i Mavs avranno una sensazione salariale estremamente flessibile che gli permetterà di dare l’assalto a uno/due tra i migliori free agent, ma per invogliare i grossi nomi del mercato a sposare la causa del vulcanico Mark Cuban dovranno dimostrare di poter proporre un progetto vincente che possa stimolare la fantasia delle stelle NBA. Le basi ci sono sicuramente e garantire a Dirk un ultimo ballo ai playoff sarebbe di certo il regalo più bello per un giocatore che per oltre vent’anni ha legato il suo destino a quello della franchigia texana.
Insomma, se dovete ancora decidere per quale squadra giocarvi il vostro League Pass stagionale, avete capito su chi dovete puntare?
HOUSTON ROCKETS
di Andrea Cassini
Parlando dei Rockets non si può non pensare alle sliding doors della scorsa stagione – e non perché sentiamo un’improvvisa mancanza della Gwyneth Paltrow versione 1998. Se Chris Paul non si fosse fermato sul più bello per l’ennesimo stiramento di una carriera sfortunata, forse non staremmo parlando di un progetto di basket spumeggiante che non ha passato la prova dei playoff, storico capo d’accusa per coach Mike D’Antoni, bensì di una filosofia di gioco geniale che è riuscita nell’impresa di superare i Warriors. Detto questo, il passato di cinque mesi fa ha poca importanza a fronte dell’estate schizofrenica vissuta da Houston. L’obiettivo principale era riconfermare Clint Capela, l’uomo chiave nelle rotazioni di D’Antoni, e lo svizzero ha finito per guadagnarsi un contratto da 90 milioni per cinque anni.
Si è dovuto rinunciare a Trevor Ariza, che fa le valigie per Phoenix, perdendo un preziosissimo 3&D che può solo in parte venire rimpiazzato da PJ Tucker – più a suo agio negli spot di 4 e 5 in quintetti piccoli, come mostrato proprio contro gli Warriors. Anche Luc Mbah a Moute è in partenza, mentre Gerald Green ed Eric Gordon rimangono nel roster (al netto di eventuali trade che vedono Daryl Morey all’assalto di Jimmy Butler): entrambi i giocatori sono stati rivitalizzati dalla cura D’Antoni, e l’ex baffo spera di ripetere il trucco con Marquese Chriss, reduce da una poco esaltante campagna da sophomore in Arizona e con una dose di potenziale ancora nascosta da qualche parte. Di primo acchito, l’arrivo dell’ex Suns sembra studiato per pensionare Nenê come centro di riserva e soprattutto per scaricare il contratto pesante di Ryan Anderson, ma Daryl Morey deve avere qualcosa in mente perché nella trattativa ha rinunciato anche al promettente rookie De’Anthony Melton: Chriss, in effetti, possiede caratteristiche da stretch big che potrebbero sbloccare nuove combinazioni per i quintetti dei Rockets. Il nome più importante dell’estate texana è però Carmelo Anthony.
Da star strapagata a contratto indesiderabile, la carriera di Melo ha preso una brutta piega negli ultimi due anni e sarà interessante capire come Houston potrà sfruttarne il talento, magari come terzo vertice nel sistema di isolamento e scarichi che tante vittorie ha guadagnato nel 2018, nascondendone i limiti atletici e difensivi. I migliori Rockets sono quelli tonici, atleticamente brillanti, quattro mestieranti agguerriti in attesa che il maestro di cerimonie James Harden chiami il loro nome. L’impressione è che l’assenza di un Trevor Ariza, in questo contesto, pesi più della presenza di un Carmelo Anthony.
MEMPHIS GRIZZLIES
di Davide Romeo
La stagione appena trascorsa è stata semplicemente disastrosa per la franchigia del Tennessee. C’era sicuramente la volontà di ricostruire e formare un gruppo nuovo, data la partenza di capitani di lungo corso come Randolph, Tony Allen e Courtney Lee, ma anche il desiderio di restare competitivi. Questi piani sono stati sconvolti dal grave infortunio di Mike Conley, che ha saltato quasi tutta la stagione, e dalla rottura tra Marc Gasol e l’allenatore David Fizdale. Quest’ultimo, abbandonato anche dalla dirigenza, è stato esonerato dopo appena diciannove partite, lasciando il timone a JB Bickerstaff, che aveva già ricoperto il ruolo di coach ad interim a Houston.
Con infortuni pesanti, pochi (e mediocri) uomini a roster e il solo Gasol, nella sua peggior stagione in NBA, a prendersi la squadra sulle spalle, era inevitabile che i Grizzlies fossero esclusi dalla corsa alla postseason ben prima dell’All Star Weekend.
Il poco spazio salariale non ha permesso follie durante il mercato estivo, bensì solo poche manovre mirate ad aggiungere elementi affidabili e che possano concedere a Bickerstaff, fresco di rinnovo, di poter finalmente imporre la propria filosofia alla squadra.
La chiave della stagione di Memphis ce l’ha sicuramente Mike Conley, che rientra a prendere il suo pluridecennale ruolo di playmaker titolare dei Grizzlies: un grande difensore che pare sempre ad un passo dal diventare un All-Star, ma che negli ultimi anni ha destato qualche perplessità per la propensione agli infortuni. Andrew Harrison, che lo ha sostituito al meglio delle possibilità durante la stagione appena trascorsa, tornerà a fargli da backup, e con l’arrivo del journeyman Shelvin Mack, un play veterano, potrà giocare con meno responsabilità. Ma occhio al rookie Jevon Carter, uno specialista difensivo che incarna perfettamente la filosofia del “Grit and Grind” che ha fatto la fortuna dei Grizzlies e potrebbe raccogliere il testimone lasciato da Tony Allen due stagioni fa.
Marc Gasol è un centro con le mani da guardia che riesce a essere un fattore importante in entrambi i lati del campo, e non ha ancora mostrato segni evidenti di declino fisico nonostante i 33 anni. A fargli da riserva ci sarà ancora il giovane Ivan Rabb, uno che se mettesse su peso e difesa potrebbe dire la sua come onesto role player.
Il grande ingaggio della offseason è il rookie Jaren Jackson Jr., una power forward di 19 anni dotata di un ottimo tiro dall’arco, grande atletismo e abilità nelle letture e nel gioco a due. Dovrà contendersi il posto da titolare con Jamycheal Green, anche lui in grado di aprire il campo ma spesso afflitto da problemi a ginocchia e caviglie. Dillon Brooks è stato la grande sorpresa dello scorso anno, conquistandosi il posto da titolare grazie ai numerosi infortuni e mantenendolo dopo aver dimostrato costanza di rendimento e tantissimo impegno, anche e soprattutto nel fare il lavoro sporco. Dovrebbe partire ancora titolare, con uno tra Kyle Anderson, Garrett Temple e MarShon Brooks a contendersi l’ultimo slot. I primi due sono nuovi arrivi, comprimari dotati di esperienza e versatilità in grado di fornire profondità alla panchina e più opzioni offensive a Bickerstaff. L’ultimo è una vecchia conoscenza del basket europeo che ha tirato su cifre impressionanti sul finire della scorsa stagione, ma dovrà confermarsi per dimostrare di non essere stato un classico “good scorer in a bad team”. Da verificare l’apporto di Wayne Selden, giovane guardia con grandi doti realizzative e potenziale interessante, ma piuttosto fragile fisicamente.
Completano le rotazioni il tiratore d’esperienza Omri Casspi, il rookie Watanabe (per lui una buona preseason) e lo strapagato Chandler Parsons, che gli infortuni hanno ormai reso solo l’ombra di sé stesso.
Difficile pronosticare una stagione di successo per i Grizzlies, che pur avendo migliorato notevolmente la second unit restano una delle squadre peggiori per potenziale offensivo e pace, due requisiti essenziali per accedere ai playoff in un Ovest agguerritissimo. Molto dipenderà da quanto riusciranno a stare sani i giocatori più importanti, in particolare l’asse play-pivot (locuzione tanto odiata dagli “esperti” delle advanced stats) Conley-Gasol, e da cosa sarà in grado di costruire Bickerstaff ora che ha disposizione un organico di giocatori esperti e dotati di IQ cestistico e non ci sono più scusanti per giustificare le cattive prestazioni.
L’obiettivo sarà sicuramente risultare più competitivi dello scorso anno, anche perché Gasol è in scadenza al termine della prossima stagione e ha già dimostrato di non essere proprio a suo agio quando la squadra perde tante partite.
NEW ORLEANS PELICANS
di Matteo Soragna
La serie playoff dominata contro Portland e quella contro Golden State più combattuta di quanto non dica quel 4-1, hanno fatto vedere il livello a cui può ambire New Orleans.
Davis, che ha appena cambiato agenzia per prepararsi al meglio alla free agency (c’è sotto lo zampino di LeBron?), dopo essere arrivato terzo nella corsa all’MVP, si affaccia ad una stagione che può veramente portarlo a livelli inimmaginabili. Sembra che sia nella Lega da una vita e ha solo 25 anni! No ceiling, come amano dire di là dall’oceano, per un giocatore che rappresenta l’evoluzione della specie in tutto e per tutto. Lo step decisivo potrebbe essere il fondamentale nel quale non è maestoso, per un giocatore con quelle caratteristiche e quel talento: poco più di due assist a partita, essendo coinvolto nei PnR, spalle a canestro e gioco fronte a canestro, sono forse pochini.
Jrue Holiday finalmente sano è un giocatore totale come pochi e nella scorsa stagione lo ha fatto vedere con una grandissima continuità. Un two-way che si è guadagnato l’ingresso nel primo quintetto difensivo della lega (insieme al monociglio) e nei playoff ha viaggiato a 23.7 pts con 6 assist abbondanti.
Il pacchetto lunghi è oggettivamente di livello con Mirotic che l’anno scorso è diventato in tempi brevissimi il perfetto complemento per Davis e un giocatore a suo agio nel sistema di Gentry. E ha firmato l’estensione fino al 2021.
In estate è arrivato Randle, giocatore alla ricerca di un ruolo da protagonista dove fare esaltare le sue caratteristiche tecniche ben precise: poco tiro e sostanzialmente solo mano sinistra, che sono limiti evidenti, ma anche a capacità di andare in campo aperto, soprattutto dal palleggio, e quando è connesso è un difensore sopra la media. L’anno scorso ai Lakers è stato top scorer e miglior rimbalzista (16+8), numeri che probabilmente non si ripeteranno in una squadra di maggior livello ma che fanno capire quello che può dare.
Okafor, con la scimmia della terza scelta assoluta del 2015 non ancora tolta, dopo una non esaltante annata ai Nets, ha definito l’estate passata quella della “trasformazione”. Non sarà facile entrare in punta di piedi in un reparto così affollato e far vedere quello che tutti si aspettano da lui da tre anni.
E’Twaun Moore ha lavorato in post season per riuscire a spostarsi in ala piccola senza perdere di efficienza e mantenere lo status di giocatore solido che si è guadagnato. Solomon Hill, dopo aver saltato 70 partite per infortunio, dovrà trovare continuità in una squadra che difensivamente può dare fastidio, e potrebbe rivestire un ruolo chiave visto che i Pelicans in quel ruolo non sono profondi.
Elfrid Payton, in arrivo da Phoenix, prende il posto che era di Rondo e l’idea è quella che possa continuare a tenere ad alto ritmo la squadra ma allo stesso tempo riguadagnarsi una solidità difensiva visto che per quattro anni ha comunque sempre viaggiato in doppia cifra abbondante.
I Pelicans sono stati la terza squadra per numero di assist a quota 26.8 a partita e la seconda per % dal campo tirando con il 48.3, dietro a Golden State che è stata l’unica a rimanere sopra il 50%.
L’anno scorso hanno avuto il “pace” più alto della lega in regular season a quasi 102 possessi (alzati a oltre 104 nei playoff, in totale controtendenza rispetto alle altre squadre), ma il dato considera anche il periodo in cui Cousins faceva parte della squadra, che senza di lui ha raggiunto quota 105… Correranno, eccome se correranno.
SAN ANTONIO SPURS
di Giorgio Barbareschi
L’era dei Big Three degli Spurs è definitivamente finita. C’è un po’ di tristezza nello scrivere questa frase, ma d’altra parte niente può durare per sempre. Dopo l’addio al basket di Duncan due anni fa, quello di Ginobili di quest’estate e la partenza di Tony Parker con destinazione Charlotte, l’unico reduce della dinastia che ha prodotto cinque titoli dal 1999 ad oggi rimane Gregg Popovich. Per quanto? Non si sa, forse soltanto ancora per questa stagione. Oppure no. Possibile che voglia seguire entro breve il suo terzetto di leggende per accomodarsi in veranda a consumare l’interminabile collezione di bottiglie di vino custodite nella sua cantina, ma anche che continui per un altro decennio a sviluppare giovani e portare San Antonio ai playoff contro ogni previsione dei presunti esperti.
Come sempre, sapere qualcosa in anteprima quando si parla degli Spurs è virtualmente impossibile, come lo è stato conoscere i dettagli della “questione Leonard” nel corso degli ultimi mesi. Fino all’anno scorso Kawhi era considerato il volto e il futuro della franchigia, oggi una specie di paria che è stato spedito ai Toronto Raptors senza troppi convenevoli. In cambio è arrivato DeMar DeRozan, che ha gradito il giusto il voltafaccia da parte della franchigia canadese ma che potrebbe trovare in Texas un contesto tecnico nel quale sviluppare ulteriormente il suo gioco. Certo che per una volta che LeBron si era tolto dai piedi…
Con DeRozan a occupare la posizione di guardia tiratrice gli Spurs avrebbero voluto completare il backcourt con il giovane e promettente Dejounte Murray, secondo quintetto difensivo nella passata stagione e ad un jumper affidabile di distanza dal poter diventare un play di ottimo livello. Purtroppo il povero Dejounte ha visto la sua stagione concludersi ancora prima di cominciare a causa di una rottura del legamento crociato anteriore che lo terrà lontano dal parquet per almeno 6-8 mesi, sperando che l’infortunio non pregiudichi il prosieguo di una carriera che pareva già avviata verso un brillante futuro.
Partito Kyle Anderson, nonostante l’età in rapido avanzamento il sicuro titolare nella posizione di ala piccola sarà Rudy Gay, con Davis Bertans che vedrà però probabilmente crescere il suo minutaggio grazie all’ottimo tiro da fuori di cui dispone.
Lo spot di ala grande sarà di nuovo territorio semi-esclusivo dell’altra stella della squadra, quel LaMarcus Aldridge che lo scorso anno si è decisamente rimboccato le maniche e ha trascinato i compagni fino a un dignitoso primo turno di playoff, lasciandosi decisamente alle spalle gli screzi con coach Pop che avevano fatto temere un clamoroso allontanamento non più tardi di dodici mesi fa.
In mezzo all’area sarà invece la coppia Pau Gasol-Jakob Pöltl a spartirsi i minuti. Se del primo ormai conosciamo vita, morte e miracoli (ma le primavere per lui sono ormai 38 e anche qui siamo in dirittura d’arrivo), il secondo sarà da seguire con particolare attenzione. Arrivato agli Spurs come bonus track nella trade Leonard-DeRozan, il lungo austriaco è un giocatore interessante, che ha mostrato sprazzi di talento tecnico e fisico nei suoi due anni in Ontario e che a San Antonio avrà la possibilità di imparare molto. Se saprà dimostrare di poter mantenere quelle aspettative che avevano portato proprio i Raptors a spendere per lui la nona chiamata assoluta al draft del 2016, gli speroni potrebbero anche aver già trovato il loro centro del futuro.
Aggiungiamo a tutto questo un ulteriore mix di giovani e veterani (Bryn Forbes, Derrick White, Lonnie Walker, Patty Mills e il nostro Marco Belinelli, graditissimo cavallo di ritorno alla corte di Coach Pop) e abbiamo una squadra buona ma non buonissima, che in una Western Conference come sempre paragonabile a un girone infernale potrebbe rischiare di rimanere fuori dai playoff per la prima volta in 21 (VENTUNO) stagioni. Ma d’altra parte, come detto, niente può durare per sempre.