GOLDEN STATE WARRIORS

di Matteo Soragna

La preoccupazione maggiore della scorsa stagione riguardava la presunta difficoltà a trovare motivazioni e stimoli per un gruppo che aveva vinto e mostrato sprazzi di dominio; da come gli Warriors hanno giocato nei playoff che li hanno portati al terzo anello in quattro anni è sembrato di capire che strada facendo quegli stimoli li hanno trovati. Adesso siamo curiosi di sapere quale sarà per coach Kerr l’ostacolo mentale da affrontare per quella che sembra a tutti gli effetti una delle squadre più impressionanti della storia.

Così come siamo curiosi (ben consci di essere in abbondante compagnia) di vedere come Cousins si adatterà al modo di giocare di Golden State, fatto di tagli (largamente la squadra che in percentuale ne usa di più nel suo sistema) e uscite dai blocchi.

Vero è però che Boogie darà quella dimensione spalle a canestro che questa squadra non ha mai avuto, pur dominando in lungo e in largo. Avrà tutto il tempo del mondo a disposizione per recuperare da uno di quegli infortuni che lasciano un segno ad ogni atleta che lo ha subito. È stato calcolato che questo tipo di operazione in media fa abbassare del 20% le prestazioni nel resto della carriera, questo vuol dire che Cousins potrà potenzialmente garantire comunque una doppia doppia da 20+10.

Durant entrerà nella stagione della free agency, ma dubitiamo che questo potrà distrarlo nella corsa al terzo MVP consecutivo delle Finals. Ha dichiarato che non prenderà alcun voto nelle premiazioni di fine regular season perché tutti lo odiano. Se questo è il prezzo da pagare per il trasferimento nella baia e per essere uno dei migliori di tutti i tempi crediamo che se ne farà una ragione.

Curry e Thompson hanno giurato amore eterno alla franchigia dicendo che vogliono chiudere la loro carriera a San Francisco e chissà che così facendo convinceranno Durant a seguirli.

Il rodatissimo supporting cast con Looney, Bell e Cook si è arricchito di Jerebko, mossa fatta per dare in stagione regolare più respiro a Iguodala e farlo arrivare senza acciacchi ai playoff. Sembra pazzesco dire una cosa del genere, ma anche per una squadra come Golden State, nata per giocare in attacco una pallacanestro praticamente unica, la solidità, l’intelligenza e l’adattabilità difensiva di Iguodala sono state sempre le caratteristiche che hanno fatto fare agli Warriors un salto di qualità.

La convivenza tra Cousins e Draymond Green è uno degli aspetti che probabilmente darà da parlare ad ogni partita dal punto di vista dei tecnici collezionati (Boogie dice che lui ne prenderà meno di Green) e il trash talking ai limiti della sopportazione. A Green ormai non viene più perdonato praticamente nulla negli atteggiamenti in mezzo al campo e ai tipi di contatti che provoca, resta il fatto che rimane praticamente il miglior passatore della squadra e uno dei due migliori difensori, aspetti che gli consentono di dominare le partite anche quando non va in doppia cifra.

In regular season la passata stagione si sono gestiti, hanno lasciato per strada il primo posto a favore di Houston, per poi sprigionare tutto nei playoff. Facciamo fatica a pensare che non possano gestire quest’annata nello stesso modo, considerando che hanno tre giocatori che nell’ultima stagione sono andati abbondantemente oltre i 20 punti di media e il quarto (Thompson) che ha viaggiato a 19.6 punti ma con i soliti compiti difensivi e meno palleggi di tutta la squadra messa insieme.

Curry ha detto che il pensiero del three-peat non è un tarlo ma comunque è nella testa di tutti, perchè oggettivamente questa squadra ha davanti un traguardo che può raggiungere.

Come dargli torto…

 

 

 

LOS ANGELES CLIPPERS

di Matteo Soragna

Il logo di “Lob city” è stato ufficialmente dimesso con la cessione di DeAndre Jordan ai Mavs e il nuovo programma è iniziato. O per lo meno così dovrebbe essere, visto che quello che è nella testa di tutti è il pensiero della free agency della prossima estate. I Clippers avranno abbastanza spazio per poter firmare due maxi contratti (anche se altre squadre saranno più competitive da quel punto di vista) e i nomi da firmare sono quelli che ti cambiano la vita.

La squadra, dopo aver perso tutte le superstar, è un insieme di giocatori di medio/alto livello, con grande esperienza e caratteristiche ben definite, con un problema di non poco conto: la tendenza agli infortuni. L’anno scorso Gallo, Beverley e Bradley combinati hanno saltato più dell’80% delle partite a disposizione e quest’anno saranno giocatori chiave nel sistema di Doc Rivers.

Photo by Jeff Gritchen, Orange County Register/SCNG

Gortat prende il posto di Jordan, porta numeri di un certo livello ma come impatto difensivo L.A. fa un passo indietro. Spera invece di alzare il livello con il ritorno di Mbah a Moute che può tornare a fare lo specialista difensivo senza poi sentirsi un pesce fuor d’acqua perché non può spararla da fuori come se non ci fosse un domani, come ai Rockets, visto che gli avversari tendono a concedergli quel tiro.

Dopo un’estate a rimettersi a posto Teodosic è atteso a una stagione importante, nella quale può continuare a meravigliare il pubblico e i compagni con il suo talento di passatore. Ad imparare dietro lui (nella metà campo offensiva) e Beverley (in quella difensiva), è il momento di Gilgeous-Alexander che dopo una fase finale NCAA pazzesca è messo alla prova al livello superiore, soprattutto dal punto di vista fisico, perché come talento è già baciato da madre natura.

Chi porterà come al solito tanti punti e tanti tiri è Lou Williams, il quale quest’anno potrebbe (Rivers permettendo) lasciare il ruolo di sesto uomo ma solo in attesa della prossima stagione.

Tobias Harris ha fatto una stagione 17/18 clamorosa tirando benissimo (e tantissimo) da tre punti e, con lo status che si è guadagnato, e la tipologia di squadra di questa stagione, si può pensare che possa ripetere gli stessi numeri.

Montrezl Harrell dalla panca farà quello che ha sempre fatto a prescindere dai compagni, visto che le sue caratteristiche non si devono accoppiare tecnicamente con quelle dei cinque in campo, ma deve solo buttare sul parquet quell’intensità che non tutti hanno.

Polemiche estive passate e intervento al polso passato per il Gallo che, con l’addio di tutti i big, nel giro di due anni è il giocatore che potrebbe rappresentare la franchigia. I numeri hanno sempre detto che quando Danilo sta bene è un riferimento per tutte le squadre in cui ha giocato, a trent’anni è quanto meno giusto che possa godersi tutte le 82 partite di regular season.

Un pensiero ai playoff per un gruppo fatto da tanti buoni giocatori ma nessuna superstar, potrebbe essere lecito. Il fatto è che l’anno scorso i Clippers sono rimasti fuori tenendo dietro i Lakers (che qualcosa ci dice arriveranno in griglia) e rimanendo però dietro Denver (che sembra possa riguadagnarsi un posto), San Antonio (che anche se ha perso tutti resta sempre San Antonio) e Minnesota (che non ha equilibri ma ha talento).

I posti sono pochi e le squadre sono tante. Non sarà semplice.

 

 

 

LOS ANGELES LAKERS

di Giorgio Barbareschi

I Los Angeles Lakers si presentano ai nastri di partenza della stagione 2018/19 come una delle più grosse incognite della Lega. L’arrivo di LeBron James, oltre a far lievitare nella stratosfera i prezzi dei biglietti dello Staples Center, ha infiammato gli animi di tutti i tifosi gialloviola come nemmeno quello di Shaq nel lontano 1996 aveva saputo fare. Non è però scontato che la strabordante qualità cestistica del Re sia sufficiente per portare i Lakers non tanto al titolo NBA (dalle parti di San Francisco ci sarebbe una certa squadra vestita di gialloblu che potrebbe essere un cliente scomodo), ma paradossalmente nemmeno tra le prime otto di quella che si preannuncia una Western Conference combattuta come non mai.

Lo sbarco della corazzata LBJ nella Città degli Angeli ha fatto, se possibile, ancora più rumore rispetto al trasferimento del Prescelto ai Miami Heat nell’estate del 2010. In quei giorni James era sì un giocatore fortissimo, ma ancora a secco di titoli (oggi siamo a tre) e con una sola finale NBA alle spalle (siamo ad otto… consecutive).

Di certo è cambiata anche l’atmosfera. All’epoca della Decision, probabilmente l’unico momento gestito mediaticamente male nella sua carriera, LeBron divenne da un giorno all’altro il nemico pubblico numero uno tra gli appassionati di basket di mezzo mondo. Oggi praticamente nessuna voce si alza per condannare la scelta di James di lasciare l’Ohio: il Larry O’Brien Trophy che luccica nella bacheca dei Cleveland Cavs basta e avanza a garantirgli l’immortalità cestistica e la libertà, quand’anche ne avesse avuto bisogno, di ricominciare in gialloviola senza portarsi dietro l’etichetta del traditore della patria.

Come detto però non è scontato che avere a roster il miglior giocatore del pianeta basterà per garantire ai Lakers un viaggio nella postseason. Il supporting cast infatti non è male ma neanche di livello eccelso e con il passaggio ad ovest del Mississippi la strada è certamente più in salita rispetto ai tempi passati con le maglie di Cavs e Heat.

Il mercato estivo del duo Magic-Pelinka ha portato diverse novità, tutte caratterizzate da contratti annuali per lasciare ai gialloviola la massima flessibilità salariale in vista della prossima stagione, nella quale approderanno sul mercato dei free agent giocatori del calibro di Kawhi Leonard, Kevin Durant, Kyrie Irving, Jimmy Butler e Klay Thompson. Ad affiancare il giovane Lonzo Ball, positivo nell’anno da rookie più di quanto gli venga spesso riconosciuto, è arrivato Rajon Rondo. Il play ex-Celtics è un giocatore con caratteristiche simili al figlio del vulcanico LaVar (grande visione di gioco e zero tiro da fuori), che può vantare una grande esperienza in squadre vincenti ma anche un carattere non semplicissimo da gestire.

Aspetto che peraltro lo rende affine ad almeno altri tre dei nuovi arrivi in casa Lakers. JaVale McGee, Michael Beasley e Lance Stephenson sono tre personaggi talmente di culto che andrebbero seguiti con una webcam per tutta la stagione: tre giocatori a cui il talento fisico e tecnico non fa certo difetto ma che, per usare un eufemismo, non sempre sono riusciti ad incanalare tale talento sui binari più utili per le squadre in cui hanno militato.

Sarà da vedere come questi giocatori riusciranno ad innestarsi su un telaio come quello dello scorso anno, fatto di giovani come appunto Lonzo ma anche Caldwell-Pope, Ingram, Kuzma e Hart, tutti decisamente positivi in una passata stagione conclusa comunque a quota 35 vittorie. Anche coach Walton sarà sotto esame, se è vero (ed è vero) che LeBron non è mai stato un cliente facile per i suoi allenatori e che giocare a Los Angeles con quella maglia rende tutto più complesso in termini di aspettative e di pressione.

L’impressione in definitiva è che, playoff o meno, questo sarà comunque un anno di transizione per i Lakers, che attenderanno la prossima offseason con l’obiettivo di costruire nella free agency una squadra in grado di puntare davvero al bersaglio grosso.

 

 

 

PHOENIX SUNS

di Matteo Soragna

Avete presente quando si parla di un mix di veterani e giovani? I Suns sono l’emblema di questa situazione con la prima scelta assoluta Ayton, Devin Booker fresco di estensione al massimo salariale e Mikal Bridges che dopo il titolo NCAA con Villanova da giocatore “tuttofare”, potrebbe trovare un ruolo da protagonista come 3&D. Tra i veterani, il compito di indicargli la strada è affidato a Trevor Ariza che aspetterà come al solito gli scarichi dei compagni, e in difesa sbaglierà poco o nulla. Chandler dovrà far crescere nella maniera più rapida possibile il rookie compagno di reparto, e Ryan Anderson è in cerca di riscatto dopo la stagione ai Rockets molto sotto le aspettative, nonostante fosse in un sistema che poteva esaltare le sue caratteristiche di super tiratore.

Molto passerà dalla crescita di Booker, non tanto come realizzatore perché sappiamo già che è di un livello superiore (non ne fai 70 se non sei di un livello superiore), ma nel creare un vantaggio e farlo sfruttare dai compagni. Capacità di lettura sui PnR sarà la chiave del suo salto di qualità, visto che la proporzione tra assist e palle perse nella scorsa stagione non è stata propriamente esaltante. L’incognita per un inizio degno delle aspettative è l’operazione alla mano destra.

Ayton dopo una Summer League diciamo “normale”, considerando le aspettative, durante il training camp ha impressionato i compagni e lo staff per la sua capacità di apprendimento. Al college giocava in un sistema che lo portava anche lontano dall’area mentre quest’anno avrà molti più possessi spalle a canestro e, considerando i compagni che possono aprire molto il campo, può essere una crescita molto produttiva. Il grandissimo punto interrogativo sarà nella metà campo difensiva dove ha mostrato parecchi limiti ad Arizona e il salto tra i pro, con questa pallacanestro in continua evoluzione, potrebbe metterlo in seria difficoltà.

Josh Jackson nel suo anno da rookie ha fatto vedere lampi di rilievo, ha chiuso la stagione a quasi 13 pts di media (ma nella seconda metà ha tenuto medie da secondo terminale) e quasi 5 rimbalzi (un po’ pochi per i mezzi atletici impressionanti). Dovrà mettere su un tiro da fuori quantomeno credibile per poter salire definitivamente di livello.

T.J. Warren in tutti e quattro gli anni da pro ha mantenuto una crescita impressionante nella produzione di punti, arrivando ai quasi 20 della passata stagione, tirando sempre pressochè col 50% dal campo. La palla comunque non la passerà tanto nemmeno quest’anno.

L’anno scorso i Suns sono stati la peggior squadra per offensive rating e defensive rating, su cento possessi segnavano poco più di 100 pts e ne subivano più di 110. Il lavoro per Kokoškov, il primo europeo a sedere su una panchina NBA da capo allenatore, sarà tosto ma anche molto stimolante perché il materiale per crescere c’è. Vengono da una stagione di tanking che li ha fatti essere la peggior squadra della lega con un record di 21-61, e oggettivamente fare peggio sarebbe impossibile.

La stagione è partita con il licenziamento del GM Ryan McDonough, a quanto pare per i non brillantissimi rapporti con il non semplice proprietario Robert Sarver, e il motivo sembra essere il fatto che McDonough non sia riuscito a portare in Arizona una starting pointguard e dovranno gestire uno dei ruoli più importanti con Okobo, Melton e Canaan, oppure spostare Booker in quella posizione.

In effetti in una squadra piena di ali, i playmaker potrebbero essere un grosso punto di domanda.

 

 

 

SACRAMENTO KINGS

di Andrea Cassini

Che sia l’anno del tana libera tutti a Sacramento? I Kings hanno passato tutta la scorsa stagione a smaltire le scorie della trade che portò Demarcus Cousins a New Orleans mentre realizzavano che, contrariamente alle aspettative di Vlade Divac, Buddy Hield non era la versione bahamense di Steph Curry. Le selezioni al draft hanno finalmente cominciato a seguire una logica (anche perché fare peggio di Papagiannis era difficile) ma i giovani Kings agli ordini di Dave Joerger si trovavano ostaggio di un manipolo di veterani: Vince Carter, ma che gli vuoi dire a uno che a quarant’anni salta ancora così, il compassato e infelicissimo George Hill e Zach Randolph che sparava jumper dal post alto come fosse il 2005. Salutati i primi due, col solo Z-Bo a fare da buon padre di famiglia, è tempo di sciogliere i cani. I Kings perderanno, perché una scelta in alta lottery è il massimo che si potrà guadagnare da questa stagione, ma almeno lo faranno con stile.

Scegliere una guardia in uscita da Kentucky equivale a mettere dei soldi in banca, soprattutto se ha i razzi sotto ai piedi: De’Aaron Fox sarà libero di gestire l’attacco, di sbagliare e di sviluppare attraverso gli errori quella comprensione tattica che per ora gli manca. Justin Jackson è atleta ben più esperto dopo i tre anni a North Carolina, lo stesso dicasi per Bogdan Bogdanovic che non è certo nuovo a palcoscenici di alto livello, ma entrambi hanno bisogno di prendere confidenza coi parquet NBA in un contesto che li valorizzi e li responsabilizzi. Uno dei due potrebbe spiccare il volo come punto di riferimento dei Kings sul perimetro, e Jackson verrà subito messo alla prova in attesa che il serbo recuperi dall’aggravarsi di un infortunio al ginocchio.

Nel frontcourt lo scenario è caotico: Willie Cauley-Stein ha mostrato qualche interessante miglioramento sul finale della scorsa stagione, abbastanza da montarsi la testa e annunciare che sonderà la free agency per ricevere il giusto compenso. Dave Joerger potrebbe salutarlo senza troppi patemi se nel frattempo qualcuno dei prospetti che ha in incubazione si trasformasse in un solido lungo da rotazione. Skal Labissiere è un oggetto misterioso, Harry Giles è sostanzialmente rimasto fermo ai tempi della high school per colpa di due gravi infortuni, Kosta Koufos e Zach Randolph reclamano minuti sul parquet.

Il rookie da Duke Marvin Bagley III dovrà sgomitare un po’, ma siamo sicuri che troverà spazio. Stiamo parlando di un rimbalzista d’eccezione, un atleta dinamico con un arsenale offensivo di tutto rispetto: uno che ha 20+10 stampato sulla fronte, insomma. Sulla sua futuribilità, viste le lacune difensive che coach Mike Krzyzewski nascondeva grazie al tuttofare Wendell Carter Jr, ci sono dubbi. Il rischio è che Bagley diventi un giocatore da Kings, appunto, molta apparenza e poca sostanza, ma è altrettanto vero che la notte del draft Divac e Ranadive si trovarono con le mani legate, una volta incassato il “no, grazie” dall’entourage di Luka Doncic. Anni di cattiva gestione abbassano l’appeal di qualsiasi piazza, senza contare che i Kings mancano la qualificazione ai playoff dal 2006 – il digiuno più lungo tra le attuali franchigie NBA.

 

 

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