13 Febbraio 2016, ore 1.00 am (il fuso è GMT, un’ora indietro rispetto all’Italia) – al termine di una lunga settimana, mi godo un bel regalo di compleanno: la diretta del Rising Stars Challenge 2016, primo capitolo dell’All Star Game, che vedrà fronteggiarsi le selezioni USA e World, composte da rookies e sophomores della Lega a stelle e strisce.

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“Prevedibile” – potreste pensare – “Non sei quello fissato con i giocatori internazionali e di scuola FIBA in NBA? Talmente tanto da arrivare a procurarti canotte come quella di Scola a Houston, Jasikevicius ai Pacers, Navarro ai Grizzlies e compagnia?”

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Sì, sono io. E sebbene sia consapevole del fatto che acquistare la jersey di Marko Jaric Latsis a Minnesota è una cosa “piuttosto estrema”, non è questo il motivo principale per il quale decido, nonostante la stanchezza, di guardare questa specifica partita in diretta piuttosto che tentare di reperirla l’indomani mattina.

Se è per questo, non è nemmeno la sfida tra i due pilastri della mia squadra di fantabasket Kristaps Porzingis e Carlo Antonio (Nomi) [Cose] Città anche se il fantasy basketball è un indizio relativo alla ragione vera, ed ora vi spiego il perché:

quando 14 anni fa mi dilettavo con un paio di amici a fare il draft NBA per il fantabasket e poi facevamo i calcoli giornata per giornata con American Superbasket (bei tempi!), ero sempre quello che voleva prendere giocatori non americani e, con la scusa di poter risolvere la diatriba di fanta-spogliatoio su chi avrebbe dovuto indossare la bramata canotta numero 20 (l’argentino di Bahia Blanca finito in Texas o il serbo e futuro marito di Adriana Lima finito a L.A. sponda Clippers), insistevo da morire affinché si potesse aggiungere al roster un allenatore.

 

Immagino abbiate capito dove sto andando a parare… Reduce dalla seconda Eurolega portata a casa (ad oggi se ne contano il doppio), l’uomo che avrei voluto sul mio pino immaginario a tutti i costi era uno ed uno solo: Coach Ettore Messina.

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‘History being made’ è il motivo per il quale, quel venerdì notte, ho voluto optare per la diretta: l’uomo che vedete circondato dal capannello di giocatori in divisa dorata a rappresentare il ‘Resto del Mondo’, si apprestava a dare all’Italia cestistica un’ulteriore ragione d’orgoglio.

Sarà proprio l’ammirazione, sarà il fatto oggettivo che sull’argomento e sul personaggio si potrebbero spender fiumi d’inchiostro… Fatto sta che, pur avendo deciso da parecchio tempo che avrei scritto qualcosa a riguardo, non riuscivo mai a trovare uno spunto “all’altezza” o un taglio che mi piacesse.

E’ stato l’essermi ricordato di questo particolare d’infanzia (quando uno scenario come quello in questione era considerato ancora a dir poco fantascientifico, quasi un lustro in anticipo rispetto alla prima scelta assoluta al draft per Andrea Bargnani) ed il fatto che su quella prestigiosa panchina, quella da allenatore della squadra ‘World’ nel weekend in cui tutti gli occhi sportivi d’America si rivolgono ad un parquet, Ettore ci si sia seduto davvero, ad avermi convinto.

Sarebbe facile ed anche piuttosto scontato impostare il pezzo focalizzandosi sulla sua carriera e sui suoi successi: 10 scudetti (3 con la Virtus Bologna, 1 con la Benetton Treviso e ben 6 con il CSKA), 9 coppe nazionali (7 in Italia e 2 in Russia), 4 Euroleghe (2 con le Vu Nere ed altrettante a Mosca) ed un argento agli Europei con l’Italia nel 1997 per nominarne alcuni.

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Qui il Coach, nel 1993, dà indicazioni a Lupo Rossini su come trovare Cappuccetto Rosso

A livello individuale invece, più degli innumerevoli riconoscimenti come allenatore dell’anno (in patria ed altrove) e dell’ovvia inclusione nel novero dei 50 Euroleague Greatest Contributors – che sono noti a tutti – meritano una menzione le “bandierine” piantate oltre-oceano: dall’essere stato il primo europeo ad aver condotto una compagine NBA (eh sì, David Blatt è nato negli Stati Uniti) all’esser stato votato dai GM di tutte le franchigie come terzo miglior assistant coach della Lega, fino all’esser stato il primo coach europeo a prendere parte con un ruolo principale all’All Star Game.

Il taglio del pezzo sarà diverso, si diceva: più che ripercorrerne pedissequamente le stagioni e le gesta, ci si soffermerà su cinque termini inglesi (alcuni dei quali difficili da rendere in italiano), valori e concetti chiave e ricorrenti nella carriera e nella vita di Ettore:

accountability – noun
the fact or condition of being accountable; responsibility

Questo termine, che tanto bene racchiude in se stesso un concetto non esprimibile con altrettanta immediatezza in italiano, è caro ad Ettore, che lo ha nominato spesso nel raccontarsi negli Stati Uniti ed anche nello spendere parole su suo padre Filippo, avvocato non interessato allo sport al quale deve, tra le varie cose, l’attuale padronanza della lingua inglese iniziata a studiare per suo esplicito volere dal sedicesimo anno d’età (“ti servirà nella vita”).

Per ‘accountability’ si intende il prendersi chiaramente le proprie responsabilità, nel bene e nel male: avere la serenità e la leadership di attribuirsi le ragioni di un errore, di qualcosa che sia andato storto, dinanzi a se stessi ed alla propria squadra.

Ovviamente ciò vale anche nei casi in cui ci sia da prendersi il credito o merito di qualche successo, ma come starete facilmente immaginando quella è la parte facile: fare da esempio a prescindere dall’esito della situazione da affrontare ed instaurare un clima in cui i ruoli siano chiari ed altrettanto lo siano le reciproche responsabilità, è fondamentale in ogni team sportivo e non.

Ed è solo dimostrandosi ‘accountable’ che ci si costruisce quella credibilità e reputazione che permettono di essere rispettati ed ascoltati nell’ambiente: secondo voi è un caso che, quando uno come Gregg Popovich ha dovuto per la prima volta introdurlo ad una platea (in occasione di un fantastico clinic per allenatori tenuto a Berlino prima degli NBA Global Games che han visto gli Speroni fronteggiare l’Alba Berlino), le parole scelte siano state: “Vi presento colui il quale, fosse stato già in panchina con noi all’epoca, non ci avrebbe fatto perdere il titolo 2013 contro i Miami Heat?”.

fonte: corriere di Bologna
fonte: corriere di Bologna

 

expectations – noun
a belief that someone will or should achieve something

Ci si abitua talmente tanto all’uso di tale termine ed al suo contesto in lingua inglese, che risulta inizialmente difficile renderlo bene in italiano: si potrebbe dire ‘aspettative’, ma c’è decisamente dell’altro…

La tematica di quanto in alto posizionare l’asticella (e di come “settare le expectations”) è davvero interessante e può essere affrontata rispetto a se stessi (in termini di quanto si sia esigenti) ed ovviamente a livello di squadra (quali siano gli obiettivi prefissatisi).

Per ciò che concerne il primo dei due aspetti, davvero imperdibile è la spiegazione del Coach in prima persona, “rubata” da un discorso tenuto durante un clinic:

“Questa è la fase più difficile del vostro lavoro, perché c’è una fase del vostro lavoro in cui dovete rompere i coglioni, ma veramente… Io so perfettamente che per definizione io sono un rompicoglioni, lo so. Voi pensate che sia divertente. No. Io la notte non dormo e penso ‘Il mio giocatore tal dei tali pensa che gli stavo rompendo le balle ieri’. Io non volevo rompergli le balle, volevo solo che lui facesse le cose come la competizione richiede che siano fatte. La più grande difficoltà che io ho avuto con i miei giocatori nella mia carriera, a parte che sono un rompicoglioni veramente, è che io gli traduco la difficoltà della competizione. Io gli chiedo di fare le cose in una certa maniera non perché piaccia a me, ma perché mi hanno insegnato che quando poi devi farlo ad alto livello la devi fare così, perché se non la fai così poi trovi un avversario che non te lo fa fare. Il giocatore personalizza tante volte, pensa che tu gli stia chiedendo certe cose perché vuoi che le faccia per te. No, io traduco. Traduco. Se vuoi giocare a un certo livello, le cose devono essere fatte in mezzo secondo in meno, le cose devono essere fatte con uno grande e grosso come te che ti fa così ogni volta che prendi la palla, le cose devono essere fatte con 10.000 persone che ti insultano, le cose devono essere fatte con un arbitro che magari non vede. Allora ti devi abituare qui, non puoi scoprirlo nella partita o peggio non puoi chiederermi 10 o 15 partite per capire com’è la vita. E tutto il problema nasce lì. Tutto il problema nasce lì, perché c’è una diversa interpretazione di quello che è il lavoro. Io adesso non gli ho detto ‘Devi rifarlo’, abbiamo detto 10 volte di fila, son 10 volte di fila e stiam qua finché non lo facciamo, perché questo è niente rispetto alla pressione che ti metterà il momento del gioco nel momento in cui vai in campo. Questo è ridicolo, è una simil-pressione. E’ un problema di auto-esigenza. Io credo che posso essere allenatore se lotto per stimolare l’auto-esigenza. Nel momento in cui tre dei miei dieci giocatori sono auto-esigenti con se stessi e con i compagni, io ho vinto.”

Qui ne si trova la versione video:

Relativamente al secondo, invece, per l’Italia che verrà, il concetto è chiaro:

“Sarebbe bello poter garantire per Rio 2016, ma posso solo farlo per lacrime, sudore e lavoro”,

come spiegato nella conferenza stampa di presentazione e di celebrazione del suo ritorno sulla panchina “azzurra”.

L’expectation non è l’accesso al torneo olimpico: per un Uomo di Sport degno della doppia maiuscola quale lui è, dire o pensare che l’unico obiettivo sia staccare il fatidico pass sarebbe inconcepibile – riduttivo e sbagliato.

L’expectation è il fatto che la squadra dia tutto sul parquet, dal primo all’ultimo giocatore a roster e dal primo minuto di raduno e preparazione allo scadere degli ultimi 24 secondi dell’intero torneo di qualificazione – once again: lavoro e sudore… Se sarà stato abbastanza per esser migliori delle altri pretendenti il gruppo sarà il primo a gioirne assieme a tutti noi, altrimenti si accetterà di buon grado (e senza rimpianti, consapevoli di aver fatto il massimo) il verdetto del campo e si inizierà a lavorare per migliorare e per far sì che la prossima volta il “nostro massimo” sia in valore assoluto maggiore di quello altrui.

Da notare che ciò non vuol dire che le potenziali sconfitte non siano dolorose, tutt’altro: chi, contrariamente al sottoscritto, ha avuto la possiblità di essere in sala stampa per le Final Four di Eurolega 2014 a Milano ricorda ancora quanto il Coach fosse scosso dopo la sconfitta ad opera del Maccabi. Raggelato, espressione cinerea, raggelata, difficoltà nel rispondere alle domande (“crudele” fu battezzato il giornalista che immediatamente domandò se si trattasse della sconfitta più dolorosa della sua intera carriera): “[…] Comunque, andiamo avanti. Ci sono anche altre cose nella vita”. Così come accaduto nel 2002 quando la sua Virtus fu sconfitta in finale in casa dal Panathinaikos, per uno che tende a ripensare al passato spesso, episodi simili sfiorano il limite del lancinante… ma, proprio in virtù di quanto spiegato, pur soffrendo, c’è sempre posto per la sportività, come testimoniato dal memorabile abbraccio con David Blatt al Forum dopo il tragico epilogo della semifinale di Eurolega 2014.

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inclination to compete

Come emerso poco sopra, i nostri dovranno essere a dir poco competitivi: sudore e lavoro le parole chiave.

Il tempo per prepararsi ad un appuntamento così importante, let’s face it, non sarà lungo, anzi… Ragione ulteriore per sfruttare al massimo il raduno che precederà l’evento.

In ottica preparazione stessa, interessante ricordare e sapere anche come Coach Messina si pone rispetto agli allenamenti, che nella sua visione devono essere competitivi:

“Ritengo, a differenza di un buon numero di colleghi, che la presenza di un numero elevato di giocatori sia vantaggiosa, perché permette a tutti di allenarsi in condizioni molto simili a quelle della partita. […] Il problema dell’insorgere di eventuali infortuni, causati dalla durezza di tali allenamenti, è più che altro teorico, perché è statisticamente provato che la maggior parte degli infortuni si verificano quando ad una blanda intensità del lavoro si associa una ridotta concentrazione da parte degli atleti.”

Pur sapendo che non sarà una passeggiata, i nostri non vedono l’ora – coincidenza?

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multiculturalism noun
existence, acceptance, or promotion of multiple cultural traditions
within a single jurisdiction, usually considered in terms of the culture associated with a
group

Nonostante l’impressionante mole di successi che lo ha catapultato ben presto nel gotha dei maestri europei (e non!) della pallacanestro, occasione dopo occasione, stagione dopo stagione, coach Messina ha sempre conservato una certa dose di umiltà.

Sin dai tempi delle giovanili di Venezia, c’è sempre stata una spiccata predisposizione al non volersi limitare alle proprie certezze e convinzioni ed all’esser recettivo nei confronti del “resto del mondo” (quello che ha di recente poi allenato), con la volontà di considerare e valutare attentamente ed eventualmente far propri gli aspetti migliori di altre tradizioni cestistiche.

Mosca, Madrid, Los Angeles e la California, la Russia di nuovo, il Texas (un’altra delle tante facce degli Stati Uniti): tantissime le esperienze internazionali del Coach, che da ognuna di esse ha saputo assorbire qualcosa, aggiungendo ulteriori sfaccettature al proprio ‘programma’.
Questo costante scambio di pareri sul Gioco è stato uno dei fili conduttori di una carriera intera: dall’occasione di far da traduttore a Dean Smith che ha poi dato il ‘la’ ai viaggi a Chapel Hill (i quali han fornito la possibilità di incontrare i Larry Brown e gli Hubie Brown, i Chuck Daly ed i Roy Williams) alle visite ricevute da Mike Brown che han poi reso possibile il primo capitolo dell’avventura a Stelle e Strisce… Se per lo studio dell’inglese il credito va al genitore Filippo, è stato Ettore a capire come porsi nei confronti dei colleghi e soprattutto ad essere un antesignano per quello che concerne ciò che ai giorni d’oggi va tanto di moda (talvolta a sproposito) sotto il nome di networking.
E’ molto importante che questa mentalità la abbiano anche i suoi giocatori, con i quali Ettore non perde occasione di sottolineare come una simile attitudine aggiunga valore al gruppo.
Di questa predisposizione al ‘multiculturalism’ gli Spurs sono l’esempio più sublime (‘a beautiful game’): un mix internazionale senza precedenti che della fusione delle varie prospettive ed influenze (dalla brasiliana all’italiana, dall’australiana alla francese, and so on and so forth) ha fatto il proprio punto di forza, capace di contrastare quelli altrui, predominio e strapotere atletico su tutti.

Ettore è arrivato dopo però’” (la stagione dopo, precisamente) starà pensando qualcuno di voi. Vero, ma come testimonia la sua carriera, il Coach ci aveva visto a dir poco lungo – leggasi a tal proposito questa sua dichiarazione del 2007 (!):

“Il più grande aggiustamento che i giocatori Americani devono fare quando vengono in Europa è il porre gli obiettivi della squadra al di sopra dei propri. In NBA i giocatori sono solitamente valutati sulla base delle loro performances individuali, con una marcata enfasi sulle statistiche individuali. Se sei riuscito a migliorare le tue stats a fine stagione, solitamente ricevi un contratto migliore a prescindere dal risultato della tua squadra. In Europa se la tua squadra vince, sei percepito come un giocatore migliore. Ciò significa che le statistiche individuali sono importanti solo se combinate con il risultato di squadra.”, concetto che chiude un po’ il cerchio con quelli affrontati nei precedenti paragrafi.

Non è di certo un caso che sulla panchina di quegli Spurs sia stato chiamato proprio lui, così come non è un caso che suo figlio Filippo, pur avendo passato relativamente da poco la doppia cifra in termini di età (11 anni), sappia già parlare Inglese, Spagnolo e un po’ di Russo oltre all’Italiano. Sarà un vantaggio, gli servirà.

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togetherness noun
the state of being close to another person or other people


Last but not least, ovviamente, c’è l’importanza di essere squadra, sia umanamente e come gruppo che in come poi si esegue e ci si comporta in campo.

Pensando alla prossima avventura di coach Messina, se per ciò che concerne il primo aspetto e lo spogliatoio la materia prima abbonda e partiamo già belli che avvantaggiati

#bau
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essendo il nucleo dei cagnacci una banda di amiconi prima ancora che di cestisti, anche relativamente al secondo e quindi sul parquet dovremo essere e saremo irreprensibili: a prescindere dal numero di stelle che indossino la stessa canotta, pur ovviamente mirando a valorizzare le nostre talentuose individualità, si dovrà giocare di squadra.

Spiegazione migliore non c’è rispetto a quella di Coach Messina stesso, in occasione di una conferenza nel 2002:

Come voglio che giochi la mia squadra? Io ad inizio anno dico sempre ai miei giocatori: ‘Io non ho problemi di fare lo schema A, lo schema B, lo schema 1, lo schema 2…’. Non mi interessa niente, per chi è pratico di pallacanestro, non mi interessa di giocare con i blocchi, senza blocchi, col pick ‘n roll o senza pick ‘n roll. Cerco di volta in volta di vedere cosa è più adatto ai giocatori che ho e cerco di cucire un po’ addosso questo vestito. Ci sono squadre che possono correre molto, squadre che possono appoggiare di più il gioco sui lunghi, squadre che devono appoggiarsi di più sui piccoli, non è questo il punto. Il problema è un altro; a me interessano due cose: primo che in difesa si aiutino, e secondo che si passino la palla in attacco, perché passarsi la palla è una metafora di tante cose relazionali. Io ti passo la palla tanto per cominciare se penso che tu ne faccia buon uso. Quindi a) se rispetto la tua capacità come giocatore, b) se rispetto la tua capacità di voler poi fare un buon uso di questo pallone, c) se rispetto o comunque mi fido del fatto che tu prima o poi me la ripassi indietro perché se io so che tu sei molto bravo a passar la palla pero’ non me la ripassi mai io penso che tu sia un testa di cazzo, non che tu sia un compagno ideale. Quindi il passarsi la palla ha un significato che va molto al di là del significato prettamente tecnico. […] Le squadre che giocano affiatate, con un gioco di squadra, uno gli arriva la palla, la prende e sa già dove metterla. Non solo perché ha visto ma perché sa che mentre lui fa una cosa un compagno ne fa un’altra e quindi non c’è bisogno di guardarsi perché ci si conosce bene, molto al di là dell’aspetto tecnico, quanto ci si conosce da un punto di vista personale. Questo per me è la cosa più importante. Gioco di squadra vuol dire che all’interno di una squadra sappiamo fin dove io mi posso spingere e poi quando è meglio che qualcun altro vada avanti perché è più bravo di me. Perché se vogliam vincere la partita e io sono un giocatore così così, i tiri più importanti non li posso fare io, li deve fare lui che è molto miglior tiratore di me, che poi è una metafora assolutamente della vita: la mia libertà inizia e finisce dove inizia e finisce la tua, è la stessa cosa. Io non posso pensare, non essendo più bravo di te, di fare cose che dovresti fare tu. Tu devi sapere che per farmi contento devi lasciarmi fare pero’ le cose che io sono in grado di fare. E’ tutto qui, sembra che sia poco pero’ è tantissimo, perché i casini – scusate – vengono sempre quando – nello sport – chi è meno bravo pretende di fare di più di quello che dovrebbe fare e chi è più bravo non rispetta la necessità anche degli altri di fare determinate cose”.

Un Campione con la ‘C’ maiuscola come Manu Ginobili noto, tra le altre cose, per le sue capacità paranormali di assistman nella NBA che lo portano sempre alla ribalta nelle varie Top 10 della notte,

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non si farà problemi ad ammettere: “[…] con lui sono diventato un giocatore vero. Prima ero un giocatore bello da vedere, che metteva a referto molti punti, ma finiva lì. Con coach Messina ho imparato i valori del gioco, l’importanza dei compagni […]”.

Ciò detto, il Coach non è d’accordo con la nozione piuttosto diffusa che vorrebbe una squadra di pallacanestro assomigliare molto ad un’orchestra: per quest’ultima, lo spartito ed il copione è stato scritto da qualcun altro, ed ogni componente sa esattamente quando suonare e quando far silenzio.

“La pallacanestro è più come una jam session, in cui persone talentuose devono interagire e dimostrare la disciplina di lasciarsi spazio l’un l’altro senza che qualcuno abbia scritto la sceneggiatura, senza un maestro che detti e chiami i tempi. ‘Faccio un passetto indietro perché ti sei fatto avanti tu. Ora conduci tu, ed il momento dopo siamo tutti assieme’.
Ci son momenti in cui si suona tutti insieme, assoli in cui suoni da solo, momenti in cui lasci spazio a qualcun altro

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Ettore alle Olimpiadi non ci è mai stato, ma è uno dei suoi “sogni”, una cosa che gli piacerebbe…

L’esperienza ad essi più vicina e più simile sono probabilmente stati i Goodwill Games di San Pietroburgo nel 1994, dai quali l’Italia è tornata con una medaglia d’argento al collo, uscendo sconfitti per mano del Puerto Rico ma avendo battuto gli Stati Uniti d’America.

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Senza saperlo, 22 anni fa, coach Messina si trovava dinanzi a due realtà che lo avrebbero riguardato da vicino in futuro: quella Russia che sarebbe momentaneamente divenuta la sua casa per concretizzare la possibilità di tornare a vincere la massima competizione continentale per clubs e quel Tim Duncan, all’epoca solo diciottenne ed alle primissime armi con la Nazionale, che sarebbe divenuto poi il faro della seconda franchigia NBA ad annoverarlo tra i componenti del proprio staff (San Antonio, dopo Los Angeles).

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Chissà, se qualcuno gli avesse domandato allora quale sarebbe stato l’apice della propria carriera, cosa avrebbe pensato (non detto o divulgato) come potenziale risposta.

Ettore alle Olimpiadi non ci è mai stato, ma è uno dei suoi “sogni”, una cosa che gli piacerebbe…

E se ancora non ve ne foste accorti, oltre ad essere uno che l’asticella la piazza sempre bella alta, di “bandierine” destinate a far la storia ne pianta tante…

nazionale

…ed è questo il motivo per cui, su quella panchina, non avrei voluto nessun altro.

Grazie Coach, ed in bocca al lupo!

 

di Valerio D’Angelo

 

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Valerio D'Angelo

Ingegnere romano malato di palla a spicchi. Lavoro a WhatsApp (ex-Google, ex-Snap, ex-Facebook) e vivo a Dublino, in una nazione senza basket, dal 2011. Per rimediare ho scritto il libro "Basket: I Feel This Game", prefazione del Baso. Ho giocato a calcetto con Pippen e Poz, ho segnato su assist di Manu Ginobili, ho parlato in italiano con Kobe in diretta in una radio americana e mi e' stato chiesto un autografo a Madrid pensando fossi Sergio Rodriguez.

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