articolo di Daniele Vecchi

 

 

Una sera d’estate del 1966, 25 esponenti della gang dei Vice Lords giravano per le strade del West Side di Chicago, per reclutare nuovi membri per le proprie attività criminali.

Non era propaganda, quella che i Vice Lords facevano, rastrellavano il quartiere in stile militare casa per casa, circuivano e minacciavano le famiglie più povere del West Side per avere manovalanza per le proprie attività. Erano veri e propri rapimenti.

I Vice Lords si fermarono davanti alla casa di Mary Thomas.

Aveva nove figli, sette dei quali maschi, da Lord Henry, 15 anni, a Isiah, 5. I Thomas vivevano al primo piano di un edificio di mattoni rossi a due piani in Congress Street, di fronte alla Eisenhower Expressway.

Suonarono il campanello. Mary Thomas aprì la porta, e vide tutta la banda, alcuni di loro portavano pistole alla cintura.

“Vogliamo i tuoi ragazzi”, le disse sbrigativo il capobanda. ”Non possono abitare qui e non essere affiliati a nessuna banda.”

Mary lo guardò negli occhi, e rispose:

“C’è solo una banda qui, ed è la banda dei Thomas, e io sono il capo”.

“Se non porti fuori i ragazzi ora, li prenderemo domani in strada” ribadì il capobanda per nulla impressionato.

Mary chiuse la porta, attraversò il soggiorno dove sedeva il resto della famiglia.

Isiah, spaventato, la guardò entrare in camera da letto e tornare con un fucile a canne mozze. Riaprì la porta d’ingresso.

Puntò il fucile contro la figura incappucciata davanti a lei.

“Vattene dal mio portico, o ti faccio esplodere sulla Parkway” disse risoluta.

Il capobanda fece un passo indietro e lentamente lui e la sua banda scomparvero nella notte.

Sembra una specie di lieto fine, per la famiglia Thomas, ma ciò a cui ha assistito Isiah Thomas, che non si è mai unito a una banda ed è sempre stato protetto (da sua madre) dalle devastazioni della vita di strada, droga, alcol, furti e omicidi, è stato durissimo, e il prezzo pagato dalla sua famiglia è stato altissimo.

Due dei suoi fratelli infatti sono diventati eroinomani, uno diventò uno sfruttatore della prostituzione, altri due trascorsero parecchio tempo in carcere, mentre uno, il più grande, divenne il capo dei Vice Lords.

 

(tratto dall’articolo del New York Times “19, Thomas makes his decision” uscito il 27 aprile 1981)

 

 

Aprile 1968.

Martin Luther King è stato appena assassinato, e in ogni città americana vi è un ghetto che si ribella. Le rivolte sono innumerevoli, spontanee e molto spesso finiscono nel sangue della repressione.

Il West Side di Chicago ovviamente è tra i ghetti più rivoltosi delle grandi città americane.

In quell’occasione dovette intervenire la Guardia Nazionale nel clou della rivolta, tra Congress Pkwy e Homan Avenue.

Al 3340 West Congress Parkway un carro armato della National Guard puntò il proprio cannone verso una casa di mattoni, dietro la quale si stavano nascondendo alcuni rivoltosi in fuga.

Fortunatamente non venne sparato nessun colpo da quel carro armato verso quella casa, incidentalmente abitata dalla famiglia di Isiah Thomas, che all’epoca aveva 7 anni.

Dopo tutto quello che Isiah Thomas ha passato, in infanzia e adolescenza, la personalità, la voglia di emergere, la leadership e la durezza mentale, di certo non gli fecero difetto.

Forse per questo ha scelto la strada più difficile, per avere successo nel basket con il suo immenso talento.

Non è facile infatti, al giorno d’oggi, essere il nemico pubblico numero uno della più influente icona del basket mondiale.

Non è facile per niente.

Per esserlo devi avere attributi veri, grande personalità e fiducia in te stesso, ed essere supportato da una grossa fetta della opinione pubblica e dei media mainstream. E questa ultima cosa quasi mai accade.

Non dev’essere stato facile essere Isiah Thomas nei primi anni novanta. E non dev’essere facile esserlo ogni volta che His Airness parlava e parla dei tempi passati e della rivalità con Detroit, come è accaduto nella fortunata serie The Last Dance.

La sua ultima apparizione al Podcast di Draymond Green lo scorso marzo, è stata ancora una volta lapidaria. Thomas ha dichiarato, su Michael Jordan:

 

“Il nostro rapporto non è si può salvare. Quell’uomo è andato in televisione davanti a tutto il mondo, e mi ha chiamato “stronzo”, nonostante io sia sempre stato bravo con lui. Non parlerò con lui finché non si scuserà pubblicamente.

Non basta una cena privata dopo che mi hai messo in imbarazzo davanti a tutto il mondo. Se non pensavi quello che hai detto allora dillo pubblicamente, altrimenti stai su quella posizione, per me non è un problema”.

 

Questa diatriba, come sappiamo, ha radici lontane, risalenti alla fine degli Anni 80, alla mastodontica rivalità tra Chicago Bulls e Detroit Pistons.

Non dev’essere stato facile essere il leader tecnico, attitudinale e mentale del più grande bug che sia mai andato in scena nella storia della NBA.

I Bad Boys di Detroit contro l’intero brand globale della NBA e l’intero brand di His Airness.

Dev’essere stato straordinariamente arduo.

E ovviamente non c’è e non ci fu partita, a livello di esposizione mediatica mainstream e a livello di “buona stampa”. Isiah Thomas e i Pistons ne sono sempre per forza usciti sconfitti, perdenti, brutti e cattivi, come da copione, ovviamente mettendoci del loro. Ne sono usciti sconfitti, ma con due Anelli di Campioni NBA alle dita, e questo fu il grande smacco per l’NBA e per il brand di His Airness.

Quella NBA, la Lega pulita, la Lega mondiale, la Lega delle sane rivalità, la Lega che protegge le proprie Superstar, la Lega del pugno di ferro su doping, risse e falli duri, la Lega del dress code e la Lega dalla facciata immacolata, ha vissuto due intere stagioni da incubo, nel 1989 e nel 1990, grazie e per colpa dei Bad Boys di Motown.

foto Dick Raphael/NBAE via Getty Images

Quei Pistons erano l’epitome della squadra brutta, sporca e cattiva, seppur straordinariamente talentuosa e coesa, una perfetta macchina da basket che ha incrinato (ma non piegato) le sicurezze di David Stern sul futuro globale della sua creatura da marketing e introiti chiamata National Basketball Association.

Qualcuno direbbe che questo è il bello dello sport, che alla fine vince sempre chi merita, a prescindere dalle protezioni arbitrali e dai favoritismi veri o presunti.

Rimane il fatto che i Detroit Pistons, Campioni NBA in back to back a fine anni ottanta, sono sempre risultati totalmente indigesti alla Olympic Tower della 5th Avenue a New York, per la loro attitudine, per il loro modo di giocare e per la strafottenza intrinseca del loro approccio al gioco.

E il deus ex machina di quei Bad Boys di Motown era lui, Isiah Thomas, duro e iper talentuoso playmaker da West Side Chicago, capace di infiammare il Pontiac Silverdome e il Palace of Auburn Hills, un intero popolo e una intera cultura, quella del Michigan, che a quel tempo cominciava a vedere le prime crepe dello strapotere automobilistico statunitense, preludio alla catastrofe economica che pochi anni dopo avrebbe colpito l’intero stato.

Come detto, West Side Chicago, non esattamente Malibù o Coral Gables, soprattutto negli anni settanta.

Bad neighbor, infanzia difficile, ultimo di nove fratelli, il giovane Isiah è cresciuto con una durezza mentale e un istinto di sopravvivenza fuori dal comune, caratteristiche che mescolate all’innato talento cestistico fecero di lui fin da subito un dominatore del gioco.

All’età di tre anni Isiah era già la attrazione della partite che si svolgevano alla Catholic Youth Organization, dove intratteneva il pubblico con palleggi e tiri a canestro, in quarta elementare era una guardia tiratrice che giocava con i ragazzi della high school, mentre alla St.Joseph HS (dopo essere stato scartato dalla più blasonata Weber HS perché troppo basso) dell’intramontabile coach Gene Pingatore, portò i Chargers alle Finali dello Stato, confermandosi come uno dei prospetti più interessanti per la NCAA.

Già da adolescente, comunque, Isiah aveva fatto la sua scelta. Scelse infatti di andare alla St.Joseph High School, molto lontana da West Side Chicago. Per andare a scuola ogni giorno si svegliava alle 5.30 per fare un’ora e mezza di treno e sopraelevata fino a downtown Chicago, per frequentare una scuola a larghissima maggioranza di bianchi.

Motivazione.

La sua unica e più importante priorità era infatti uscire dal ghetto.

Suo fratello Gregory lo prendeva in giro, gli diceva “You done forgot to talk like a nigger”, e tutto ciò per Isiah era una grande vittoria, nonostante avesse spesso problemi comportamentali a scuola.

La voglia, la motivazione e la determinazione di uscire da quel ghetto che stava risucchiando nell’oblio i suoi fratelli, era troppo forte, più forte dell’inevitabile “ghetto inside” che giocoforza caratterizzava il suo comportamento a St.Joseph.

Dopo qualche problema di ambientamento nel suo primo anno, negli anni successivi Isiah diventò uno dei più interessanti e ricercati prospetti degli scout NCAA, ricevendo moltissime offerte di borse di studio.

La madre di Thomas costrinse Isiah a scegliere la Indiana University di Bobby Knight, contando sulla ferrea disciplina imposta dal coach degli Hoosiers.

Per Isiah il primo anno fu molto duro, ricco di screzi con il durissimo Bobby Knight, che non lesinava scenate, umiliazioni e punizioni a Isiah.

Con i suoi talentuosi compagni Ray Tolbert (visto anche in Italia, a Mestre e a Desio) e Randy Wittman, Isiah trascinò gli Hoosiers alla vittoria NCAA nelle Final Four 1981 allo Spectrum di Philadelphia, battendo LSU in semifinale e North Carolina in finale.

Isiah venne incoronato come Most Outstanding Player delle Final Four, coronando così al meglio la sua breve carriera cestistico universitaria, visto che pochi mesi dopo si sarebbe dichiarato eleggibile per il Draft NBA.

Pur avendo interrotto gli studi dopo soli due anni per dedicarsi alla carriera NBA, Thomas si laureò comunque a Indiana University nel 1987, tenendo fede alle promesse fatte nel 1981, promesse a sfondo sociale che raccontavano tantissimo dell’Isiah diciannovenne e già molto maturo:

 

“So di essere un modello per molte persone nel ghetto. Non molti di noi hanno la possibilità di uscirne e di andare al college. Avevo detto che volevo diventare un avvocato, e un giorno tornare lì e aiutare la gente. Ne hanno bisogno. Ho visto ragazzini rubare un paio di pantaloni ed essere condannati a cinque anni di prigione. Tutto questo accadeva e continua ad accadere perché non c’era un’adeguata assistenza legale per loro”.

  

Era il 1981, arrivò il Draft NBA al Madison Square Garden, e Isiah venne chiamato alla Numero 2 dai Pistons, dopo Mark Aguirre chiamato alla Numero 1 dai Dallas Mavericks (anche lui chicagoano doc e grande amico di Thomas), che 8 anni dopo arriverà ai Pistons giusto in tempo per vincere i Titoli NBA 89 e 90.

Da segnalare la foltissima schiera di giocatori (più di venti!) scelti quasi tutti al primo e secondo giro che hanno poi giocato in Italia, oltre al già citato Ray Tolbert, vi sono anche Orlando Woolridge, Al Wood, Jay Vincent, Elston Turner, Darnell Valentine, Jeff Lamp, Rolando Blackman, Albert King, Steve Lingenfelter, Clyde Bradshaw, Mike McGee, Brian Jackson, Gene Banks, Sam Williams, Charles Davies, Vernon Smith, Elvis Rolle, Bobby Cattage, Frank Brickowski e qualche altro.

Nel 1987 come detto Thomas si laureò in Criminal Justice, e già dalle sue prime stagioni a Detroit fondò la sua Isiah Thomas Foundation, rinominata Mary’s Court Foundation nel 2010 in nome della madre Mary defunta quell’anno.

Tutto questo a testimonianza della grande sensibilità, vissuta sulla propria pelle, a riguardo delle questioni sociali dei ghetti statunitensi.

Leadership.

Questo era il suo vero sigillo sul gioco.

Carisma, durezza mentale, e capacità di esporsi in prima persona per la squadra, anche nelle situazioni più difficili e controverse, come fece intervenendo pubblicamente per difendere Dennis Rodman quando dichiarò che Larry Bird era un giocatore sopravvalutato perché era bianco. In quell’occasione Rodman sbagliò, ma in pubblico Thomas prese le sue difese, perché era parte della SUA squadra, anche se aveva dichiarato una cosa che poteva sembrare offensiva.

Isiah Thomas ci ha sempre messo la faccia, anche per tutti gli altri, come quando ai playoff del 1991, sconfitti nettamente dai Bulls, se ne andarono dal campo senza stringere la mano a Jordan e compagni. Si prese lui tutta la responsabilità di quel gesto poco sportivo, per proteggere la sua squadra.

Rick Majerus, allora assistant coach di Marquette che provò a reclutare Thomas, dichiarò:

 

“Quando parli di povertà assoluta, fallimento umano, sofferenza, descrivi il quartiere in cui viveva Isiah. Andavi lì e c’era questo ragazzo con un grande sorriso. Era incredibilmente ottimista per essere qualcuno che aveva attraversato tutte le disgrazie che si sono verificate nella sua famiglia”.

 

I Pistons 1980-81 ebbero un record di 21-61, la seconda peggior squadra della stagione. A Detroit, che tra le sue fila annoverava ben sette giocatori che successivamente vennero in Italia (Larry Drew, Bob McAdoo, Lee Johnson, Larry Wright, Ron Lee, Wayne Robinson e Terry Tyler), mancava un vero e proprio progetto vincente, e l’arrivo di Thomas, contestualmente all’arrivo di Bill Laimbeer e Vinnie Johnson, furono le pietre miliari della nascita dei Bad Boys.

Nella stagione 1981-82, con Thomas al comando i Pistons conclusero la stagione con un record di 39-43, migliorando sensibilmente le proprie prestazioni, trovando subito in Isiah un faro illuminante. Immediatamente leader del gruppo, Thomas concluse la stagione con una media di 17 punti, 7.8 assist e 2.1 palle recuperate a partita.

C’è subito da sottolineare come le sue cifre non furono mai, nemmeno al suo apice di carriera, roboanti e fantasmagoriche. Altri ottimi playmaker nella storia NBA ebbero cifre più altisonanti di lui, ma la sua leadership, il suo carisma in campo e fuori dal campo, la capacità di gestire uno spogliatoio composto da giocatori problematici dentro e fuori dal campo, sono stati fuori dal comune.

Ovvio che la sua velocità abbacinante, la sua capacità di essere un clutch shooter e un clutch passer in qualsiasi situazione, soprattutto sotto pressione, hanno “aiutato” la sua leadership, ma come già sottolineato, la durezza mentale costruita nel West Side Chicago, ha aiutato la sua determinazione nel raggiungere ogni risultato, ottenendo il massimo da qualsiasi situazione.

Fin dal suo anno da rookie si guadagnò la chiamata per l’All Star Game, chiamata che si ripetè per 12 anni consecutivi.

foto Andrew D. Bernstein/NBAE via Getty Images

Dopo la sua stagione da sophomore, dove la sua media di 22.9 punti fu la più alta della sua carriera, i Pistons cominciarono ad avere stagioni positive, che gli valsero l’accesso ai Playoff a partire dalla stagione 1983/84, eliminati al primo turno dai New York Knicks, con la leggendaria Gara 5 di Bernard King al Pontiac Silverdome, che valse la vittoria 3-2 dei newyorkesi.

Non erano ancora nati i Bad Boys, ma Thomas era la faccia e il braccio armato di Detroit, miglior assistman seriale e miglior realizzatore per i Pistons dall’82 all’87, miglior ladro di palloni e perennemente con le chiavi della squadra in mano.

Arrivarono Rick Mahorn, John Salley e Dennis Rodman, e il puzzle per i Bad Boys fu completato.

Sotto la guida di Chuck Daly dal 1984, i Pistons erano ormai una contender della Eastern Conference, e con il loro gioco duro e spigoloso misero letteralmente a ferro e fuoco Boston per due stagioni e Chicago per altre tre stagioni, dal 1987 al 1990, dando vita alle (probabilmente) più combattute, dure e cruente Eastern Finals della storia.

All-NBA First Team dal 1983-84 al 1985-86, MVP dell’All Star Game nel 1984 e nel 1986, quindi pronto per giocare con chiunque, non solo con i suoi Bad Boys, Thomas in quegli anni ha letteralmente nutrito i Pistons. Tutti, da Bill Laimbeer a Kelly Tripucka, da John Long a Vinnie Johnson, hanno avuto un esponenziale miglioramento, che è culminato con la breakout season di quella dinastia di Pistons, la stagione 1986-87, quando raggiunsero la Eastern Conference Finals contro i Boston Celtics, dopo aver eliminato i Washington Bullets e gli Atlanta Hawks nei due turni precedenti.

E lì si percepì la vera essenza dei Bad Boys.

Fu una serie durissima, vinta a Gara 7 117-114 dai Celtics, dopo sette interminabili gare che hanno visto quasi in ogni partita più di una rissa tra (almeno) Bill Laimbeer, Dennis Rodman e Rick Mahorn da una parte, e (almeno) Robert Parish, Larry Bird e Kevin McHale dall’altra. Fu uno degli ultimi vagiti di quella dinastia dei Celtics e della grande rivalità al massimo livello tra Magic Johnson e Larry Bird.

Stava arrivando un nuovo sceriffo in città, e arrivava dal West Side di Chicago.

Nella stagione successiva Detroit vinse la Eastern Conference superando i Celtics 4-2 e arrivò alle NBA Finals contro i Los Angeles Lakers.

Anche quella fu una battaglia senza esclusione di colpi, conclusasi ovviamente a Gara 7, e che vide spuntarla i più esperti Lakers, ma con i Pistons estremamente su di giri, convinti di non aver nulla da invidiare ai Lakers, che sconfissero 108-105 Detroit in una concitata Gara 7.

Come scrisse Dennis Rodman nel suo libro “Bad as I Wanna Be”:

 

“Nella stagione 1988/89 avevamo solo un obiettivo in testa, fare il culo ai Lakers. Abbiamo giocato tutta la stagione per giocarci la finale contro di loro. Sapevamo di essere superiori, e alla fine lo abbiamo dimostrato”.

 

E così fu.

Detroit si sbarazzò di Boston, Milwaukee e Chicago nella Eastern Conference, e arrivata in finale, letteralmente asfaltò i Lakers, cappotandoli 4-0 proprio come aveva previsto Rodman.

Il Titolo di MVP andò a Joe Dumars, ma sempre e comunque, Isiah Thomas era la vera e unica essenza dei Pistons.

Ma i Bad Boys avevano ancora fame di vittorie, e lì, nella stagione successiva 1989/90, arrivò il vero capolavoro di Isiah Thomas. Una stagione ancora una volta dominante, con 59 vittorie e 23 sconfitte, con due facili serie di Playoffs vinte contro Pacers e Knicks, ma con delle Eastern Conference Finals in cui i Pistons hanno sputato sangue, contro i sempre più concreti Chicago Bulls di Michael Jordan.

Detroit l’ha spuntata 4-3 con un grandissimo Isiah Thomas da 21 punti, 11 assist e 8 rimbalzi nella vittoria 93-74 in Gara 7, capace di salire di livello, sempre di più, non solo come leadership e nervi saldi ma anche a livello realizzativo.

Il massimo Thomas lo ha raggiunto nella Finale contro i Portland Trail Blazers, dove Detroit vinse 4-1 e dove venne nominato MVP, con una media di 26.6 punti, 7 assist e 5.2 rimbalzi, il vero dominatore della serie, nonostante la grande coesione di squadra dei Bad Boys, quella volta fu proprio Isiah a risultare meritatamente sugli scudi.

Grandissima prestazione quindi e back-to-back Title, due Titoli NBA consecutivi per i Pistons, fatto abbastanza raro nella lega, altra ennesima grandissima soddisfazione per la squadra di Chuck Daly.

Questo fu l’apice di Thomas e dei Pistons, che nelle stagioni successive cedettero abbastanza rapidamente il passo ai Chicago Bulls, che dalla stagione seguente confezionarono il loro primo Three-Peat dal 1991 al 1993, con tutte le polemiche annesse.

Come accennato in precedenza, proprio nella sconfitta ai Playoff 1991 contro i Bulls, Detroit, ormai battuta e logora, surclassati anche sul piano fisico dai Chicago Bulls, uscirono dal campo senza stringere la mano ai vincitori, scena che fece molto scalpore, e ripresa recentemente anche in The Last Dance.

Per Isiah fu l’inizio di un declino anche fisico, che portò alla sua ultima gara il 19 aprile 1994 contro gli Orlando Magic, rompendosi il tendine d’achille e chiudendo la sua carriera a soli 33 anni.

Prima di questa ultima delusione, accadde anche la rottura definitiva con Michael Jordan e incidentalmente con tutto l’establishment della NBA. Arrivò infatti il Dream Team 1992, e arrivarono le pressioni di Jordan per escludere Isiah Thomas dalla squadra, quando Isiah indubbiamente avrebbe meritato di farne parte.

foto Jon Soohoo/NBAE via Getty Images

Arrivò contestualmente anche il “tradimento” di Chuck Daly. Era infatti lui il coach di quella squadra, che permise a Jordan di porre il veto sulla presenza del suo giocatore a Barcelona 1992.

Si concluse così la carriera da giocatore di Thomas, un po’ mestamente e tristemente, tra infortuni e polemiche.

Come sappiamo, nel post carriera Thomas non è mai riuscito a realizzarsi come fece da giocatore, risultando deficitario sotto alcuni aspetti. Thomas infatti è stato giustamente tacciato come un orribile GM, un mediocre head coach e un avventato CEO. Dal 1994 al 1998 è stato Executive Vice President dei neonati Toronto Raptors, che come si poteva supporre tribolarono assai nei primi anni della loro esistenza. Dopo l’esperienza ai Raptors, Isiah ha comprato la CBA nel 1998, onde fallire nel 2001 “grazie” alla (giusta) idea di David Stern di fondare la NBDL, racchiudendo sotto un unico marchio NBA tutti i giocatori di seconda fascia. Dal 2000 al 2003 è stato l’allenatore degli Indiana Pacers, reduci dalla Finale NBA 2000 persa contro i Los Angeles Lakers sotto coach Larry Bird. Anche qui un parziale fallimento, non riuscendo a mantenere i Pacers al massimo livello di contender per una Finale, nonostante i grandi talenti che Indiana aveva a roster (Jermaine O’Neal, Ron Artest, Al Harrington e Brad Miller).

Nel 2003 invece arrivò il suo più grande fallimento, ovvero i New York Knicks, che ha letteralmente portato sul baratro con scelte sbagliate come GM prima, e come head coach poi. Cinque anni di sofferenze immani per tutti i tifosi dei Knicks, che hanno visto da parte sua scellerate scelte contrattuali e di mercato. Alcuni accadimenti in ordine sparso:

 

– Con Thomas in veste di GM, nella stagione 2005/06 i Knicks hanno avuto il più alto payroll della NBA, terminando la stagione con il secondo peggior record.

– Con Thomas in veste di head coach, avrebbe istigato i propri giocatori a fare falli duri su Carmelo Anthony nella gara contro i Denver Nuggets, gara terminata in rissa e sfociata in dure squalifiche.

– Le scelte di dare contratti capestro a, tra gli altri, Eddie Curry, Jerome James e Jarred Jeffries, assolutamente non proporzionati alle prestazioni di questi giocatori, hanno creato un malumore cronico tra i tifosi dei Knicks, che per anni lo hanno subìto.

 

Terminata l’era Knicks, è arrivato l’ingaggio come head coach per Florida International University e poi la presidenza delle New York Liberty in WNBA, esperienze tra alti e bassi che non hanno lasciato il segno nella sua carriera.

Ovviamente il quadro che ne esce non è positivo, anche se qualcosa di buono e qualche intuizione Thomas l’ha avuta.

A Toronto infatti ha scelto Damon Stoudamire, Tracy McGrady e Marcus Camby, giocatori che sono stati di alto profilo per anni nella NBA. Alla guida della CBA ha avuto l’argume di vedere l’importanza di avere partite, scoreboards e highlights disponibili e consultabili sul web, cosa che nel 1998 non era ancora così scontata a livello comunicativo, mentre sulla panchina degli Indiana Pacers è stato selezionato come Head Coach per l’All Star Game del 2003.

Di lui di certo non rimarranno impresse le carriere di allenatore, GM o CEO, indelebili invece rimarranno la leadership, la durezza mentale e l’immenso talento da playmaker e icona dei Detroit Pistons due volte Campioni NBA nel 1989 e nel 1990.

 

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3 comments

  1. Bell’articolo che evidenzia la personalità complessa ( e contorta ) di Isaiah; da una parte sorridente e faccia d’angelo, dall’altra spietato e crudele. vederlo giocare era veramente bello: fantasioso, frizzante, veloce; se mi è concesso, oserei dire che giocava di fioretto in mezzo a spade e sciabole
    Mi permetto solo di osservare che alla fine degli anni ’80, ha spezzato il dualismo Boston-LA, Chicago era ancora la da venire, tanto è vero che la rivalità la sentiva con Bird e Magic, MJ non lo considerava a e basta.

  2. Tutto interessante, ma in un articolo su QUEI Pistons citare per ultimo e soltanto una volta l’altro perno fondamentale della squadra, ovvero Joe Dumars (MVP delle finali 89 e colonna per tutto il successivo decennio), mi pare francamente strano…

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