illustrazione grafica di Paolo Mainini
scritto da Davide Romeo
Oooooh
Stop
With your feet on the air
And your head on the ground
Try this trick and spin it, yeah
Your head will collapse
But there’s nothing in it
And you’ll ask yourself
Where is my mind?
Where is my mind?
Where is my mind?
Way out in the water
See it swimming
I was swimming in the Caribbean
Animals were hiding behind the rock
Except the little fish
Bumped into me
I swear he was trying to talk to me coy koi
Where is my mind?
Where is my mind?
Where is my mind?
Way out in the water
See it swimming
With your feet on the air
And your head on the ground
Try this trick and spin it, yeah
Your head will collapse
But there’s nothing in it
And you’ll ask yourself
Where is my mind?
Where is my mind?
Where is my mind?
Way out in the water
See it swimming
With your feet on the air
And your head on the ground
Try this trick and spin it, yeah
Stava avanzando, palleggiando il pallone tra le gambe. Spostava la palla da un lato all’altro, osservando con occhio attento la posizione dei difensori avversari e i movimenti dei compagni. Era solo una partita di preseason, poco più di un’amichevole, ma i Cavs erano determinati a partire con il piede giusto. La sconfitta in gara 7 contro i Celtics dello scorso anno era una ferita ancora aperta per tutti, soprattutto per Lebron.
Proprio lui si era smarcato dal suo difensore, Billy Smith. Delonte lo individuò e gli servì il pallone. Lebron sembrava intenzionato a giocarsi l’isolamento dato che era in netto mismatch sul suo marcatore: Billy era alto ottanta centimetri in meno e aveva otto anni. Delonte lo guardò perplesso, aprendosi sull’ala opposta. Non lo vedeva dalle elementari: era uno dei bambini più determinati nel prenderlo in giro, all’epoca. Era stato così dal primo giorno e non aveva mai smesso. Delonte non aveva idea di cosa ci facesse con la maglia dei Boston Celtics. La cosa non aveva senso eppure sembrava perfettamente normale per tutti. Billy restituì lo sguardo per un istante, e gli disse qualcosa muovendo solo le labbra: peldicarota. Lebron approfittò della distrazione ed entrò finalmente in penetrazione dall’altro lato dell’area, senza incontrare resistenza. Delonte approfittò di una chiusura sul lato debole del proprio marcatore, Rondo, per effettuare un taglio backdoor sul lungolinea. Ricordava che con lui aveva diviso i primi minuti da titolare proprio in maglia Celtics. Ricevette il pallone da Lebron, trovandosi smarcato, e andò su per chiudere un terzo tempo in reverse.
Proprio mentre la palla lasciava la sua mano, l’acuto suono emesso da un fischietto risuonò sopra il vociare del palazzetto. Delonte si girò incredulo verso l’arbitro, che era suo padre. Indossava un cappello di tela a tesa larga, un camicione di flanella e dei pantaloni da lavoro scoloriti dal sole.
“Hai fatto passi, Delly”.
Nel tono della sua voce non c’era una particolare inflessione. Non c’era rimprovero o delusione nelle sue parole, era una mera constatazione. Era lo stesso tono che utilizzava quando scopriva che aveva saltato la scuola o quando aveva fracassato la macchina.
Delonte odiava quel tono.
“Che cazzo ci fai qua? Che cazzo dici?”
Era una come una semplice constatazione che lui fosse nel torto, che avesse fatto qualcosa di sbagliato. Che fosse sbagliato. Non c’era bisogno di aggiungervi un rimprovero, pensava Delonte, perché la sua stessa esistenza era una punizione. Non c’era una delusione perché non si aspettava nulla di diverso.
“Hai ingoiato tutte le pillole, Delly” disse, iniziando a tirare fuori dalle tasche una serie di scatole di medicinali vuote. Il rumore delle scatole che cadevano sul parquet rimbombava nella sua testa, acuto e graffiante come una manciata di monete che cade su un tavolo di vetro.
“Che cazzo dici? Che cazzo stai facendo?” Delonte si avvicinò aggressivamente a suo padre, strabuzzando gli occhi. Ilgauskas e Mo Williams lo bloccarono, mentre continuava a inveire verso suo padre. La folla rumoreggiò quando l’uomo lo espulse dalla partita. Altri compagni e dirigenti dei Cavs sopraggiunsero a portarlo via, mentre continuava a sgomitare e a cercare di raggiungere suo padre. Billy Smith lo indicava col dito e rideva. A ben sentire, Delonte si accorse che l’intero pubblico stava ridendo di lui.
Trascinato via di peso, paonazzo in volto, Delonte perse l’equilibrio e cadde per terra. Pur impattando il pavimento con la schiena, sentì un dolore fortissimo in mezzo agli occhi. Per qualche istante fu l’unica cosa che fu in grado di percepire, unitamente ad un fischio fastidioso che gli pervase entrambe le orecchie.
Il dolore gli impediva di tenere gli occhi aperti, ma fu in grado di rilevare che la folla intorno a lui sembrava essersi dissolta. Man mano che l’acufene andava attenuandosi,, sentì che non c’era più neanche il vociare del pubblico.
Una brezza pungente gli accarezzava il viso. In lontananza, rumori di traffico e vita. Infine aprì gli occhi, anche se dolore alla fronte non era cessato.
Si trovava su un balcone. Era notte ma non faceva troppo freddo. Si mosse lentamente, urtando qualcosa: udì il tintinnio di bottiglie vuote. Al suo fianco c’era una sedia di legno rovesciata, poco più in là un tavolinetto. Sopra di esso, scatole e contenitori di medicine varie – Epitol, Tegretol – e un vaso con dentro un piccolo cactus, rovesciato su un lato.
Delonte si mosse cautamente verso il tavolinetto, ma senza alzarsi. Nel buio sferzato dalla luce proveniente dall’interno dell’appartamento individuò diverse bottiglie vuote attorno a lui. Rum, Tequila.
Allungò il braccio e raddrizzò con cura il piccolo cactus, dopodiché studiò il luogo dove si trovava.
Capì di essere sul balcone del suo appartamento al Cirque Building di Dallas. Guardando verso l’interno, riconobbe gli eleganti mobili del soggiorno, appena illuminati da una lampada da tavolo. C’era una televisione accesa.
Rivolgendo lo sguardo attraverso la ringhiera di vetro, dall’altro lato di Olive St., si ergeva l’American Airlines Center. Sembrava quasi fuori luogo: la struttura tozza e il colore rossiccio stonava con gli snelli e neutri grattacieli di Victory Park. Un po’ come lui da piccolo, si ritrovò a pensare Delonte. La sua carnagione da meticcio e i capelli rossi lo rendevano spesso un bersaglio degli sfottò degli altri bambini. Non che fossero caratteristiche particolarmente spiacevoli alla vista: erano semplicemente diverse da quelle a cui la maggior parte dei bambini erano abituati, a quell’età basta essere diversi per essere marginalizzati. A ben pensarci, non soltanto a quell’età.
Delonte si alzò, sostenendosi con la mano ad una ringhiera.
Quando era entrato nell’appartamento per la prima volta si era subito innamorato di quella vista. Era certamente un bel cambiamento da quando, appena arrivato a Dallas, aveva dovuto trascorrere le prime notti in macchina e poi nello spogliatoio dei Mavs: a causa della sua fedina penale nessuno sembrava disposto ad accettarlo come locatario.
Quando Mark Cuban l’aveva scoperto, nella sua proverbiale impetuosità, era sceso in campo in prima persona ed era stato proprio lui a trovargli la sistemazione.
A Delonte piaceva Cuban. Era una persona schietta, che non si faceva problemi a farti sapere se ti apprezzava o meno. Quando era in condizione di dare una mano – e riteneva di doverlo fare – raramente si tirava indietro.
Per questa ragione, quando le cose avevano iniziato ad andar male , aveva chiesto più volte di parlare con lui. Aveva ricevuto una serie di multe e sospensioni, e alla fine coach Carlisle l’aveva sospeso a tempo indefinito per “condotta dannosa verso la squadra”. Beh, si, aveva dato di matto in spogliatoio. Delonte faticava a ricordare cosa fosse esattamente successo. Forse una parola fuori posto, uno sguardo che non aveva gradito. Ricordava solo di aver rovesciato qualcosa, la vista annebbiata dalla rabbia, le espressioni stupefatte dei compagni.
Ormai tutti sapevano del suo disturbo bipolare. Delonte notava che lo prendevano con le pinze, trattandolo con quella estrema gentilezza che maschera un timore, una paura. Paura del diverso, anche qui? O paura che esplodesse senza motivo? Se la seconda opzione era quella corretta, pensò amaramente, parrebbe che in fondo fosse una paura ben fondata.
Cuban, che era fuori città, l’aveva rassicurato al telefono: ne avrebbero discusso di persona al suo ritorno. La discussione però non avvenne mai. Poco tempo dopo, però, il GM Donnie Nelson gli aveva comunicato che avrebbero rescisso il suo contratto.
Era una decisione sportiva e non legata alla sua condotta, gli aveva assicurato il figlio del grande Don Nelson – il cui viso rubicondo campeggiava in una foto incorniciata sulla parete dell’ufficio. Però Delonte non aveva potuto fare a meno di notare che si era premurato di comunicargli questa notizia alla presenza del suo assistente e del CFO. Erano tutti in allerta, temendo la sua reazione. Delonte ricordava di aver sorriso mestamente e di aver detto che capiva perfettamente, non c’erano problemi, andava tutto bene e altre stronzate di questo tipo. I tre uomini dall’altra parte del tavolo, se possibile, erano ancora più allarmati di prima dinanzi al suo atteggiamento conciliante.
La verità era che, nonostante le deboli rassicurazioni di Cuban, aveva già capito come sarebbe finita e aveva avuto tempo di somatizzare. Si era già sfogato, twittando e litigando con degli sconosciuti, ed era arrivato nell’ufficio del GM come dopo aver percorso un metaforico miglio verde.
Dopo il termine del suo contratto era rimasto a Dallas, non sapendo dove altro andare. Le sere in cui i Mavs giocavano in casa si sedeva sulla sdraio sul balcone e guardava la gente che entrava nel palazzetto, che si sedeva nei tavolini dei bar, che fumava una sigaretta. I primi giorni il suo telefono vibrava e squillava e lui lasciava squillare. Non aveva voglia di vedere nessuno, non voleva sentire parole di conforto, reale o falso che fosse. A questa forma di asocialità si accompagnava però un disperato bisogno di sentirsi parte di qualcosa. Di normalità.
E per Delonte osservare le piccole, quotidiane ritualità del game day dall’alto del suo balcone era sufficiente. Era come se fosse lì, pur non essendoci veramente. Poteva sentire i rumori, i suoni che gli erano familiari e che associava all’unica cosa buona che fosse rimasta nella sua vita – la pallacanestro – senza il peso degli sguardi degli sconosciuti. Sguardi che talvolta mutavano in sussurri a mezza voce, più raramente in veri e propri commenti gridati dall’altro lato della strada.
Qui sopra nessuno poteva vederlo, nessuno poteva giudicarlo.
Restava sul balcone anche due o tre ore, in stato quasi catatonico. Spesso beveva qualcosa. A volte, come testimoniavano le bottiglie attorno a lui, beveva troppo. Non riusciva ancora a fare a meno delle medicine contro gli sbalzi d’umore, l’unica vera costante da quando la psicoterapeuta dei Cavs gli aveva diagnosticato un distrubo bipolare. Da allora erano trascorsi quattro anni, ma Delonte faceva fatica a ricordare come li avesse effettivamente trascorsi. La vita sembrava essere andata avanti senza di lui, che si trovava stritolato tra momenti in cui credeva di poter fare di tutto e di essere la più grande persona di sempre e momenti di assoluta nullità, di vuoto sentimentale e cerebrale.
Le luci dello skyline di Dallas illuminavano la vastità nera e indifferente del cielo. Quando si era trasferito nella casa di campagna di suo padre, in Virginia, aveva imparato ad apprezzare molto quell’ora in cui il cielo cambiava colore e apparivano timidamente le stelle. Il cielo di Dallas però non aveva stelle, tutte cancellate dall’inquinamento luminoso della città. Era un abisso senza fondo su cui galleggiava la luna, silente e solitaria come lui.
Delonte si appoggiò alla ringhiera, la schiena leggermente incurvata in avanti, le gambe che tremavano leggermente, lo sguardo fisso nell’oscurità del cielo.
Sempre durante i giorni trascorsi in Virginia aveva imparato ad apprezzare l’oscurità. Era presto finito l’entusiasmo di trovarsi in un ambiente nuovo, lontano da una scuola che frequentava solo per giocare a basket – che aveva infatti preso a marinare quando si era infortunato alla gamba destra – e con la possibilità di un nuovo inizio davanti a sé.
Non avrebbe saputo dire esattamente cosa avesse iniziato ad andare storto: ricordava solo che tutto prese una spirale negativa in maniera subitanea ed improvvisa.
Ogni piccolo insuccesso gli pareva una catastrofe, lo faceva sentire una nullità assoluta. Poteva essere l’esclusione da una squadra, il desiderio di un paio scarpe che non poteva permettersi, un bicchiere rotto. Il tono con cui suo padre commentava questi avvenimenti – totalmente asettico, come quello di uno scienziato che annota le proprie osservazioni su un rapporto – lo mandava su tutte le furie. Non era sicuro del perché: forse riteneva che non capisse quanto stesse male, che non gli importasse più di tanto di lui o chissà quale altra elucubrazione della sua mente adolescenziale.
Prima iniziò a tagliarsi. Dopo una sconfitta, dopo un buzzer beater mancato, dopo un litigio (unilaterale) con suo padre, nell’oscurità della sua stanza. Il dolore era, in qualche modo, un conforto. Era come se riuscisse a concretizzare il malessere che aveva nell’animo, come se potesse dargli una manifestazione fisica. Era un dolore che esisteva davvero! Che aveva ragione di essere!
Poi aveva provato a togliersi la vita, più volte. Aveva ingerito scatole intere di pillole di cui faticava persino a leggere il nome. Ricordava quegli istanti in cui fissava il proprio volto davanti allo specchio prima che calasse l’oscurità. Quell’oscurità che sembrava, quasi insensatamente, bramare.
Persino in quel momento, appoggiato alla ringhiera del suo appartamento, Delonte si sentiva rapito dall’oscurità del cielo.
Il suo flusso di coscienza fu però interrotto da una voce femminile alle sue spalle.
“Non capisco proprio perché hai voluto farla di questo colore, Delly.”
Delonte si girò: non era più sul balcone al 17esimo piano del Cirque Building. Era nella cantina della sua casa di Fort Washington, nel suo Maryland. Era seduto ad una scrivania occupata da un marasma di fogli con appunti, pensieri, progetti, idee. Un vecchio computer acceso ronzava pigramente. Attorno a lui vecchi cimeli, coppe e trofei.
L’oscurità che lo circondava non era il freddo cielo texano, ma l’imbiancatura della stanza dove si trovava. Imbiancatura – per modo di dire: aveva infatti dipinto tutte le pareti della cantina di un nero corvino.
La voce apparteneva a Caressa, la sua compagna, la persona che amava più di ogni cosa al mondo. Era in cima alle scale, con le braccia appoggiate ai fianchi e un’espressione perplessa sul volto.
“So che non ti piace molto, però mi aiuta a concentrarmi e a pensare.”
Le andò incontro, mentre scendeva le scale, e la strinse in un abbraccio, perdendosi nel suo profumo.
L’aveva incontrata nel momento più basso della sua vita, a poco più di un anno dal termine della sua avventura a Dallas. In quel periodo aveva ripreso a pensare di togliersi la vita – e stavolta non perché non poteva permettersi le Jordan, come quando era piccolino. Non era una richiesta d’attenzione adolescenziale, come le aveva catalogate la sua terapeuta. Stavolta sentiva di essere una persona finita.
Delonte era diventato disilluso con le relazioni. Aveva sposato la sua fidanzata del college che aveva chiesto il divorzio dopo pochi mesi, in seguito al dannato arresto del 2009. La polizia l’aveva fermato sulla sua Can-Am a tre ruote per una manovra pericolosa, aveva forse cambiato carreggiata con la linea continua. Delonte aveva dichiarato agli agenti di essere in possesso di armi, e i poliziotti gli avevano trovato addosso una pistola Beretta in tasca, una Magnum legata alla gamba e un fucile da caccia Remignton all’interno di una custodia per chitarre. Tutte cariche. Le stava spostando da casa di sua madre, che non lei voleva più lì dopo che alcuni suoi amici le avevano trovate e lasciate in giro. Purtroppo però nello stato del Maryland era illegale trasportare armi nascoste e cariche. Anche se era stato lui stesso a cooperare con gli agenti, questi erano stati costretti ad arrestarlo. I Cavs erano nel mezzo di una stagione da 60 vittorie e lui sembrava vicino al salto di qualità definitivo. Il fatto divenne quindi un caso nazionale. I media iniziarono a descriverlo come pericoloso, disturbato. I più irriguardosi lo chiamarono, semplicemente pazzo. Prima c’era stata la diagnosi, poi l’arresto: per la sua prima moglie erano state due red flag decisive e l’aveva abbandonato. Non se la sentiva di criticarla troppo: anche lui si sarebbe abbandonato, se avesse potuto. Non poteva però negare di essere rimasto ferito dalla vicenda.
Con Caressa, però era stato diverso. Quando si erano conosciuti le red flag erano già note al mondo intero. Anche a distanza di anni, la gente continuava a legarlo a quell’episodio. Oppure alla ridicola diceria che aveva scopato la madre di Lebron e che fosse questa la ragione per cui aveva giocato male durante il secondo turno contro i Celtics. Nel giro di qualche mese Delonte era passato dall’essere considerato un giocatore a un passo dal livello successivo ad essere a malapena considerato un giocatore.
Caressa sapeva tutto: del suo disturbo, dei suoi problemi finanziari, del suo passato turbolento. Nonostante ciò, lo amava e voleva stargli accanto. Per Delonte questa era una cosa straordinaria ed incredibile. Dopo un’iniziale e fisiologico sospetto, non aveva potuto far altro che amarla incondizionatamente e disperatamente. Era rimasta incinta quasi subito, e si erano trasferiti insieme a Fort Washington. Da allora Delonte passava le giornate in cantina, progettando e cercando modi per tirare su del denaro in attesa di trovare un nuovo ingaggio che tardava ad arrivare. Altre volte, quando l’apatia era troppo forte, semplicemente stava lì e faceva trascorrere i pomeriggi. Dei sedici milioni che aveva guadagnato nel corso della sua carriera non era rimasto quasi nulla: aveva speso molto per la sua famiglia, comprando casa a suo padre, a suo fratello e pagando l’università di sua madre e sua sorella. La maggior parte, però, lì aveva persi in spese eccessive ed impulsive, di cui spesso in seguito non riusciva a raccapezzarsi.
Ma mentre stringeva la sua compagna tra le braccia, Delonte si sentiva capace di poter fare qualunque cosa. Anche rimettere la sua vita in carreggiata.
Caressa si godette per un’istante l’abbraccio, poi si separò da lui.
“Ammetterai che però è un po’ cupa così. Sembra l’ingresso di un night”. La donna si mosse per la stanza. C’era una piccola mensola con alcuni vecchi cimeli di Delonte, coppe e trofei.
“Ma sei proprio sicuro di volerli vendere tutti? Questo potresti tenerlo” gli disse, porgendogli una targhetta incorniciata su uno sfondo di seta. Sul metallo argenteo era iscritto il logo della A-10 conference, e sotto campeggiava la scritta “First Team All-Conference 2004”.
Delonte la prese in mano. I suoi anni a Saint Joseph erano stati piacevoli. Assieme all’amico Jameer Nelson aveva formato il miglior backcourt della nazione e Phil Martelli era forse l’allenatore con cui aveva avuto il miglior rapporto. In quella stagione erano rimasti imbattuti durante la regular season ed erano arrivati fino all’Elite Eight prima di perdere contro l’Oklahoma State di Tony Allen e John Lucas. All’epoca non avrebbe potuto immaginare che quello sarebbe stato l’ultimo premio cestistico della sua carriera – che non era neanche effettivamente iniziata.
“Non ti preoccupare, te l’ho già detto. Non me ne faccio più nulla di questi cosi, e i soldi ci servono. Per questo penso di poter tirare su almeno cinquanta dollari su Ebay”.
Le accarezzò la pancia, che ormai iniziava a farsi grossa. Era al sesto mese di gravidanza.
“Ma poi perché sei scesa quaggiù? Sai che non dovresti fare sforzi.” le disse.
“Niente, volevo solo dirti che penso si sia rotta di nuovo la caldaia” rispose lei, in tono quasi di scuse.
Delonte imprecò: la caldaia aveva dato problemi per tutto l’inverno, che era stato particolarmente freddo. I due si erano ingegnati procurandosi una serie di stufette portatili, tenendone addirittura quattro in camera da letto perché non scaldavano così tanto e le stanze erano grandi. Delonte scaldava l’acqua ponendo alcune bacinelle sopra le stufette per una ventina di minuti, permettendo alla sua compagna di farsi un bagno caldo.
E pensare che la casa, dotata di piscina e vista sul fiume Potomac, era costata più di un milione. “Non preoccuparti, adesso salgo e metto le bacinelle a scaldare.” le disse, sorridendo. Non c’era problema che non potesse risolvere finché era con lei.
Caressa gli sorrise e gli diede un bacio sulla guancia. Gli girò le spalle e fece per risalire, tenendosi al corrimano, ma Delonte improvvisamente la fermò.
Lei lo guardò sorpresa: lui si alzò di colpo dalla sedia e, dopo un momento di interdizione, si diresse verso l’angolo opposto della stanza e si mise a rovistare in un vecchio scatolone. Una vecchia palla Wilson rotolò giù, rimbalzando debolmente. Delonte trovò quello che stava cercando: una vecchia corda per saltare. Andò alla scrivania, mentre Caressa gli chiedeva cosa stesse facendo, e con un paio di forbici ritagliò un piccolo pezzo di corda, legandolo insieme a formare una sorta di anello.
Si voltò verso di lei, e l’espressione interrogativa della donna cambiò in una mista di stupore, incredulità e commozione quando vide Delonte mettersi in ginocchio, porgendogli il piccolo anello di corda.
“Per ora posso permettermi solo questo. Non ho un soldo, il riscaldamento non funziona e la testa neanche. Però ti amo.”
Caressa si inginocchiò di fronte a lui, il volto contratto in un sorriso inumidito dalle lacrime di commozione, gli prese il volto tra le mani e lo baciò. Poi Delonte le prese la mano, infilandole l’anello di corda sull’anulare della mano sinistra. I due poi si abbracciarono e rimasero così per qualche minuto, in ginocchio in una cantina dipinta di nero di una casa da un milione senza riscaldamento.
Delonte avrebbe voluto che quel momento non finisse mai. In quel momento credeva davvero di potercela fare. Avrebbe riparato la caldaia, sarebbe tornato a giocare in NBA, si sarebbe riabilitato agli occhi del pubblico, avrebbe superato il suo disturbo. Non ci sarebbe più stata oscurità.
Purtroppo, però, quel momento finì quando Delonte riprese i sensi.
La luce accecante del sole gli tolse la vista per qualche secondo e faticò a realizzare dove si trovava. Sentiva l’asfalto caldo contro il petto nudo, aveva il volto tumefatto e un dolore lancinante in mezzo agli occhi. Le orecchie gli fischiavano.
Provò a muoversi ma si accorse di avere le braccia bloccate dietro la schiena, il freddo metallo delle manette contro i polsi.
Si sentì sollevare da terra e mani estranee lo appoggiarono contro un muro. Era su un marciapiede, davanti a sé due poliziotti. Ricordò di essere a Washington, ma non aveva idea di dove si trovasse di preciso. Poco lontano altri due poliziotti stavano ammanettando un altro uomo, piegato in avanti sul cofano di una volante. Attorno a loro si era formato un piccolo capannello di persone incuriosite dal trambusto.
Uno dei due poliziotti gli disse qualcosa. Delonte non riusciva a distinguere i volti dei due agenti perché aveva la vista annebbiata e indebolita dal sole. Non capì neanche le parole che gli erano state rivolte, che erano coperte dal fischio. Provò a spiegarlo all’agente ma riuscì a proferire solo un brontolio incoerente.
Il poliziotto parlò ancora. Stavolta capì che gli stava chiedendo se fosse Delonte West. In mano aveva il suo documento d’identità.
Delonte non riusciva a concentrarsi e a rispondere. Sentiva su di sé gli sguardi della gente, qualche risatina, qualche parola a mezza voce. La rabbia cresceva dentro di lui.
Il poliziotto ripeté la domanda una terza volta, chiaramente spazientito. Delonte riuscì a borbottare qualcosa, la voce tirata e aggressiva.
“Credo di esserlo stato, sì. E tu chi cazzo sei invece?”
Il poliziotto si avvicinò e Delonte riuscì finalmente a distinguere le sue fattezze. Era Billy Smith, un sorrisetto cattivo dipinto sul suo volto fanciullesco.
“Mi sembrava di averti riconosciuto, peldicarota!”
Delonte, sconvolto, chiuse gli occhi e girò il volto contro il muro, mentre attorno a sé le risate crescevano e diventavano assordanti.
Si rifugiò, ancora una volta, nell’oscurità. Stavolta però non era l’oscurità del cielo di Dallas, o della cantina di casa sua.
Era in un palazzetto, vuoto. In mano aveva un pallone.
Le luci erano spente ma il soffitto, in qualche maniera, era punteggiato da stelle lontane.
Davanti a sé, anche se faticava a vederlo, sapeva che c’era un canestro.
Avrebbe potuto giurare che alla retina mancava un pezzetto di corda.
Non è un articolo, è un capolavoro.
Che bomba. Dovrebbe avere una copertina e frusciare. BRAVO!!!
Ragazzi che bel lavoro. Complimenti, davvero.
Articolo fantastico, complimenti!
Grande dispiacere per lui, nessuno si merita di stare così male…spero che possa ricostruirsi una vita il prima possibile