Boston Garden, 23 maggio 1982. Eastern Conference Finals, Gara 7.
La storia.
I Sixers in vantaggio 3-1 nella Serie vengono rimontati dai Celtics, ancora una volta, come successe l’anno prima, fino al 3-3.
Quel giorno al Garden, sulla ringhiera del Mezzanine Level vi era appeso uno striscione con scritto DEJA VU’, mentre i tifosi dei Celtics erano vestiti da fantasmi, lenzuoli bianchi addosso, “Ghost of Boston Celtics 1980-81”, per ricordare ai Sixers i fantasmi del passato, quelli dell’anno prima, quando i Celtics vinsero Gara 7 e volarono a prendersi anche il Titolo NBA.
Ma quel giorno fu diverso. Fu tremendamente diverso.
Un pionieristico NON SUCCEDE, MA SE SUCCEDE…
Sul parquet incrociato biancoverde i Sixers demolirono i Celtics con il loro gioco in transizione, Maurice Cheeks, Andrew Toney (The Boston Strangler) e Julius Erving dominarono la gara dall’inizio alla fine, e con Philadelphia sopra di venti punti durante gli ultimi minuti del quarto quarto, la magia prese forma, la surrealtà divenne la rarefatta realtà, nemmeno chi proferiva quelle parole credeva a ciò che stava accadendo…..
Dal Boston Garden si levò spontaneo il coro “BEAT L.A.! BEAT L.A.!”
Pelle d’oca, occhi lucidi e pugni al cielo ancora oggi, nel raccontare e rivivere per l’ennesima volta quella emozione.
Anyway, let me introduce, We are Philly, and you go f**k yourself.
Con quelle ESSE giganti, “eSSCHcuse me, iSSH thiSSH your SSSeat?” che tanto ricordano le ESSE ferraresi, i philadelphiani a New York li riconosci subito, anche quando ti chiedono un’informazione a Penn Station.
Città dura Philadelphia, per capirlo devi viverci, entrarci nei meandri, prenderti delle giornate intere per girarti West Philly (sentendo le raccomandazioni dell’autista dell’autobus che ti dice di stare attento) semplicemente per vedere la Overbrook High School di Wilt Chamberlain, o andare a Germantown a vedere la Simon Gratz High School di Rasheed Wallace.
Ma se sei malato di Philly e dei TUOI Philadelphia 76ers, lo sei anche e soprattutto in Italia. Se poi sei perennemente quello che ha sempre perso, quello che ha raccolto un decimo di quello che poteva raccogliere, quello sistematicamente sbeffeggiato per la miriade di brucianti sconfitte a tutti i livelli, allora il tuo orgoglio diventa ancora più forte e radicato.
Allora sorridi e non ti indigni, quando i tifosi dei Sixers Boooeggiano Babbo Natale, o l’MVP dell’All Star Game Kobe Bryant (definito da Ted Silary del Philadelphia Daily News “Quasi Philadelphiano”…anche i giornalisti di Philly sono VELATAMENTE faziosi), sei orgoglioso di Sheed quando dichiara “Io sono un philadelphiano, so cosa significa portare nel cuore questa città. Posso benissimo capire i motivi che portano il pubblico a fischiarmi. Sono da sempre un tifoso di Philadelphia, noi siamo fatti così. Se fossi al loro posto io farei lo stesso. BUUUUU!!”.
Stai sempre e comunque dalla parte di Allen Iverson anche quando ritarda agli allenamenti, quando fa i capricci e quando è apertamente indifendibile, perchè quello che ha dato per quella maglia per quella squadra e quella città, è qualcosa di incommensurabile.
Sei patologicamente e antropologicamente immedesimato nel DNA di quella squadra e di quella città, ne prendi le sembianze le attitudini e le aspettative.
Gente dura, gente leale, gente che lavora, gente che chiede tanto ma che da tanto, le superstar fighette se ne vanno a Los Angeles tra lo showbiz o a New York alla World Most Famous Arena, gli intellettuali radical chic se ne vanno in Massachusetts a tifare per Bean Town, la massa di last minute fans se ne va prima a Chicago, poi a Houston, poi a Miami e ora a Golden State.
La gente vera vive la propria tradizione con orgoglio, per la maglia, per la città, per la attitudine.
Hai sempre perso, ma sti cazzi. Ma quella Gara 1 delle NBA Finals 2001 allo Staples Center ti ripaga delle quattro sconfitte successive. Eric Snow che gioca Eastern Finals e Nba Finals con la caviglia fratturata. Gioca e lascia il segno. Sono cose che non si dimenticano. Sono cose che ti fanno amare i tuoi giocatori perchè tu faresti lo stesso, se potessi.
Ti convinci almeno un po’ che lo facciano per quella maglia, per quella filosofia di vita.
Ti convinci che con un’altra maglia Eric Snow sarebbe stato nella Injured List invece che segnare il canestro vincente di Gara Uno delle NBA Finals.
Poi perdi.
Perdi sempre, o quasi. Anzi sempre.
Mandi giù bocconi amari su bocconi amari. Ma lo sai. Sei conscio e consapevole che andrà male. Ma dopo ogni sconfitta sai che la tua fede ne esce ancora più forte.
Tutto nacque con questa scritta sullo schermo della TV:
LA PIERREL
INDUSTRIA CHIMICO FARMACEUTICA PRESENTA:
BASKET NBA
CAMPIONATO PROFESSIONISTICO AMERICANO
Quelle domeniche mattina su Canale 5, bambini e ragazzi in tutta Italia erano rapiti, ipnotizzati, totalmente assuefatti allo spettacolo a cui assistevano settimana dopo settimana. E OGNUNO DI LORO, oggi, a distanza di 30 anni, ancora ricorda questa sensazione, sintomo di un irreversibile Turning Point di vita. Ci sei dentro, e mai ne vorresti uscire.
Ricordo perfettamente la quasi totalità dei giocatori che vedevo, ricordo ancora aneddoti di Dan Peterson su questi giocatori, i primi che mi vengono in mente sono quelli più sconosciuti, Mike Bratz, Linton Townes, Paul Mokeski, Armond Hill, Hank McDowell, Big Mistake Ray. Poi tutti gli altri.
E poi c’era The Doctor.
Tutto il resto era dietro, secondario, trascurabile.
Il biondo bianco tiratore in biancoverde, il musulmano pilota in seconda dell’Aereo più Pazzo del Mondo e il magico passatore non erano nulla, se paragonati al Dottore.
Stringergli la mano il 13 marzo del 2009 allo Spectrum di Philadelphia in occasione dell’ultima partita giocata in quel meraviglioso impianto prima della demolizione, è stata una emozione talmente intensa che non avrei mai la forza o la capacità di trasmetterla fedelmente e totalmente a nessuno. Una stretta di mano normalissima, imbarazzata (da parte mia), un suo fugace sorriso, e la mia faccia da ebete.
Da quel Titolo del 1983, da quel FoFoFo di Moses Malone, che in realtà disse “Sweep the Title in 12 games“, sbagliando perchè una gara nella serie contro i Bucks la persero, vi fu la (ovvia) rapida caduta negli inferi. Maurice Cheeks agli Spurs, Moses Malone ai Bullets, il ritiro di Julius Erving, la fine di un’epoca.
La back court diventò il duo Hawkins & Dawkins, coadiuvati dal filiforme Sedale Threatt, mentre nel mezzo c’era Mike Gminski…c’mon.
Poi arrivò Charles Barkley, entusiasmo.
The real sensation. Un duro vero, esplosivo, incarnava alla perfezione la filosofia della città e dei tifosi. Sembrava dare tutto. Alcune serie playoff vinte, tante altre perse, già al secondo turno Eastern arrivava Michael Jordan, e si usciva.
E Sir Charles era frustrato.
Poi il tradimento. SI, il tradimento. “Me ne vado dove posso vincere il Titolo”. Bene, vai Charles, vai a Phoenix a vincere. Di là non c’è Jordan.
L’hai vinto il Titolo?
NO.
C’era ancora Michael Jordan.
E il tifoso Sixers ride.
Il tradimento non si perdona, soprattutto se non si chiede mai scusa e non si ammette di essere stati semplicemente mezzi uomini e di avere cercato la fama attraverso una scorciatoia.
Da qui in poi altri anni bui, Derrick Coleman, Shawn Bradley, Jimmy Jackson, fino a quel fatidico Draft 1996.
Il tifoso Sixers, con l’avvento di Allen Iverson, divenne se possibile ancora più radicato nella propria mentalità, ancora più oltranzista nella sua indipendenza antropologica, ancora più compenetrato nel proprio ruolo e nella propria convinzione. Generazioni di fans di Iverson si immedesimarono nella sua attitudine e mentalità e abbracciarono la molto simile mentalità dei tifosi Sixers.
Fierezza di ciò che si è, orgogliosi di essere soli contro tutti. Quante volte in conferenza stampa abbiamo sentito Iverson dire “siamo 12 contro 20.000” parlando di una trasferta infuocata.
Quella finale 2001 già citata contro i più forti Los Angeles Lakers di Shaq e Kobe, e poi l’ennesimo tramonto.
Iverson a Denver, e tante sconfitte.
“Hey Santa, bring us a new Answer” diceva lo striscione al Wachovia Center subito dopo la cessione, ma the new answer non arrivò mai.
Iguodala prese in mano la squadra, che andò alcune volte e quasi per caso ai playoff solo per la pochezza della Eastern Conference, ci fu il ginocchio rotto di Derrick Rose e la vittoria sui Bulls, e la serie successiva, infuocata, contro i Celtics nel 2012, persa a Gara 7 al TD Garden. Il tifoso Sixers sognava in quella Gara 7, ma già sapeva come sarebbe andata a finire.
Un’altra stagione anonima, poi arrivò Sam Hinkie, e il tifoso Sixers ritrovò ancora una volta tutto il livore viscerale dentro di sè.
Pazienza.
La parola d’ordine era pazienza, ad oltranza, qualsiasi cosa succeda.
Il predicatore cambia, la divisa, lo stile e l’ordine filosofico cambiano, ma la litania è sempre la stessa, accadimento dopo accadimento, umiliazione dopo umiliazione, delusione dopo delusione.
“Together We Build” diceva il motto dell’eroico ed estremamente creativo settore marketing dei 76ers, costruiamo tutti insieme il futuro dei nostri amati.
Un futuro che Sam Hinkie, ex GM dei Sixers, si è giocato alla Lotteria 2016, dopo tre anni di campagne acquisti/cessioni tra il geniale e lo scellerato, e come direbbe Elio, “propenderei per la seconda ipotesi”.
In mezzo a quelle palline Hinkie si è giocato il futuro della NOSTRA storica franchigia.
E paradossalmente gli è andata pure bene.
Se i Sixers dovessero MAI vincere il titolo con qualcuna delle sue scelte, lui sarebbe ricordato magari non come un genio, ma come un visionario che in qualcosa ci aveva preso.
Insomma Hinkie ha pescato alla Lotteria quello che voleva pescare, il prospetto dei prospetti, Ben Simmons, anche se come detto nel mentre le sue palline erano passate di mano, non essendo più lui the chairman of the boards al momento della pesca, silurato tra strette di mano, sorrisi tirati e ringraziamenti per il “l’importante lavoro svolto“, silurato a favore di Bryan Colangelo, che ora ha in mano la intricatissima situazione dei Sixers.
A suo tempo quella famosa campagna “Together We Build” venne ribattezzata “Together We Tank” dai soliti burloni del web, per ridefinire l’atteggiamento irrispettoso della franchigia, dal più alto livello dirigenziale fino ad arrivare al coaching staff e ai giocatori, nei confronti di tutti i tifosi dei Sixers.
L’unico tank accettabile ed apprezzabile è infatti Tank Williams, safety già dei Tennessee Titans e dei New England Patriots negli anni duemila, che in realtà si chiama Clevan. Il soprannome Tank gli venne affibiato dalla sorella, che già in tenera età aveva notato che il fratellino beveva quantità industriali di latte, suggerendo alla madre di dargli una cisterna di latte, invece di una bottiglia.
Per il resto, “to tank” significa, in ambito sportivo, perdere apposta. Quando una squadra volutamente e apertamente mira a essere sconfitta. Termine ormai incontrovertibilmente associato ai Sixers.
Lasciando stare la retorica buonista della onestà sportiva e dei campionati falsati da questa scellerata pratica, questa attitudine è perlomeno poco condivisibile.
Anzi, fa proprio cagare (schifo? Vomitare?).
Ci sono alcuni tifosi pretoriani e buonisti ad oltranza che dicono che ormai il passato è passato.
Ora abbiamo Ben Simmons, il salvatore della patria, colui che ci porterà al Titolo, colui che farà rimangiare a tutti le parole di malcontento proferite nelle ultime tre stagioni, perchè “il tanking andava fatto”, perchè “non c’era altra maniera”, perchè “sennò come avremmo avuto la la Numero Uno al Draft 2016?”. Ben Simmons sarà colui che ridarà ciò che spetta ai più bistrattati e giustamente scontenti tifosi.
Poi ci sono quelli che dicono: Please, don’t bullshit me.
47 partite vinte e 199 partite perse in tre anni, 199 partite perse con la filosofia del tanking, quindi con la accondiscendenza nel perdere, sono una vergogna per qualsiasi tifoso, sono una presa in giro di tutti, a partire dal più accanito dei Season Ticket Holders al vecchio ex appassionato di Philly che guarda ogni tanto i risultati sul Televideo.
I can trust the process, but you lost MY dignity.
Anche in questo “nuovo corso”, comunque, il tifoso Sixers non si fa mancare le tegole che arrivano di taglio sulla testa.
Come sappiamo infatti Ben Simmons si è rotto, rimarrà fuori almeno tre mesi, infortunio che va ad aggiungersi a quello di Jahlil Okafor, in lenta ripresa dopo l’operazione al ginocchio destro (a marzo scorso), ai problemi di Nerlens Noel all’inguine, ai tendini infiammati di Nik Stauskas, fino ad arrivare a Jerryd Bayless, arrivato per dare esperienza e consistenza alla back court e probabilmente fuori per la stagione con i suoi soliti problemi al polso. Per consolarsi comunque c’è Joel Embiid, che gioca in questi giorni le sue prime partite di pre-season dopo due anni di totale inattività e convalescenza.
Questi sono i MIEI Sixers, da oggi in avanti e per sempre.
God Bless the Sixers
God Bless Tank Williams
a cura di Daniele Vecchi
Grande Daniele,
bell´articolo che ha fatto capire a me, bostoniano dal 1980, come uno potesse tifare i Sixers con convinzione. Conosco tutto sulla storia dei Celtics ed il Celtic Pride,ma non conoscevo queste cose sui Sixers e sulla cittá di Philadelphia. Grande rispetto a partire da oggi.
E per sempre: BEAT L.A. !!
Mi aggiungo a Maurizio per i complimenti, sono nella sua stessa situazione, bostoniano dai tempi delle fatidiche domeniche su Canale 5 condivise con Dan Peterson
Ragazzi che tempi !!! Dr. J ei suoi Sixers!!! Da lì mi innamorai del basket , purtroppo per i “perdenti”, ero gialloviola! Ero….. Ora sono PER il basket : PUNTO!
“To me Basketball is Doctor J” Michael J.Jordan.
P.s. “HOOUUSSE CAAALLL!!!”