illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Roberto Gennari
“Perdere, e perderemo!”
“Non ho afferrèto, scusi…”
“Lei ha capito benissimo: perdere, e perderemo!”
Ci sono un sacco di foto e video su internet in cui gli Harlem Globetrotters, che non hanno particolare bisogno di presentazioni, con le loro casacche chiaramente ispirate alla bandiera a stelle e strisce degli USA, affrontano degli avversari che in genere hanno una canotta verde e dei numeri gialli. Questa squadra, che è stata fondata nel 1952 dal giocatore più basso ad aver mai vinto un titolo di quella che all’epoca era la BAA e oggi è meglio conosciuta come NBA, al secolo Louis Herman “Red” Klotz, si è chiamata per la maggior parte della propria storia Washington Generals – in ossequio al neoeletto Presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower, per lungo tempo per l’appunto generale dell’esercito federale – magari ci avevate già pensato ma ve lo dico lo stesso: Herm Klotz, prima di essere un giocatore di basket è stato un militare. La particolarità di questa squadra, che dopo essere stata sciolta nel 2015 (in seguito alla decisione dei Trotters di terminare il contratto con gli storici avversari) è stata rifondata appena due anni dopo, è quella di essere stata pensata ed effettivamente formata per essere lo sparring partner degli Harlem Globetrotters.
Nonostante quello che si potrebbe pensare, però, a indossare la casacca verde e gialla della squadra della Capitale, sono praticamente sempre stati giocatori professionisti di discrete qualità, che potevano comunque esprimere il proprio basket nella metà campo offensiva, a patto di non interferire troppo – anzi, diciamo pure di non interferire affatto – coi trick dei Globetrotters quando erano in difesa. Fondamentalmente il patto era questo, e per “non interferire affatto” intendiamo che i Globetrotters potevano nascondersi la palla sotto la divisa, o tirare giù i pantaloncini agli avversari, o commettere praticamente ogni altra infrazione senza venire interrotti, o disturbati, o senza protestare o reagire. Una situazione talmente paradossale da un punto di vista cestistico da essere immortalata anche in una celebre scena dei Simpson, in cui Krusty il clown scommette tutti i suoi soldi sulla vittoria dei Generals per poi lamentarsi e parlare di “game fixed”, cioè partita truccata.
I Generals, poi, sono talmente penetrati nell’immaginario collettivo dei fan di basket degli USA, che nel dicembre del 2012 Kobe Bryant, dopo un 116-107 incassato dai New York Knicks che portava a 4 la striscia di sconfitte consecutive dei suoi Lakers, in vista della partita successiva che si sarebbe giocata a Washington, disse “questa squadra ha bisogno di tornare a vincere per avere una scossa, speriamo che contro di noi giochino i Generals nella prossima partita”. Nel 2019, dopo una sconfitta dei suoi Kentucky Wildcats, John Calipari disse in conferenza stampa “abbiamo giocato come i Generals”.
Ecco, forse anche in questo sta la potenza narrativa dei Generals: una squadra di cui si dà per scontato il destino di eterni sconfitti, ma a cui si riconosce comunque di essere parte del “mito” degli avversari. Il suo ideatore li ha paragonati a Ginger Rogers, una ballerina tecnicamente valida quasi quanto Fred Astaire, ma che ballava sempre un passo indietro a lui, per non rischiare di offuscarne la grandezza.
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Una delle caratteristiche salienti dei Washington Generals, allenati per lunghissimi anni proprio da Herm “Red” Klotz, che spesso era sia allenatore che giocatore, era quella di provare a giocare una partita di basket contro i ben più quotati avversari come se nulla fosse, ed effettivamente succedeva così per la maggior parte del tempo, fatta eccezione per i succitati momenti di intrattenimento puro.
Tuttavia, pur essendo costituiti da giocatori veri e propri, spesso giocatori usciti dall’NCAA senza aver trovato uno sbocco nel basket professionistico, gli antieroi in maglia verde e gialla non riuscivano quasi mai ad aver ragione dei loro avversari. “Quasi mai”, però, non vuol dire “mai”.
Nel sito ufficiale dei Washington Generals, attualmente defunto come la franchigia originale, si parlava di “tre vittorie e oltre diciassettemila sconfitte” nel computo dei confronti tra i due team. Una vittoria nel 1954, una nel 1958 e una, la più famosa di tutte, il 5 gennaio del 1971 a Martin, Tennessee.
Per dare un po’ più di contesto alla faccenda, è necessario ricordare che la percezione che abbiamo oggi degli Harlem Globetrotters, e cioè di un gruppo di atleti che portano in giro uno show che è basato sulla pallacanestro, è forse un po’ fuorviante rispetto a quella che invece se ne aveva all’epoca. È bene ricordare, ad esempio, che i Trotters nel loro primi anni di vita furono in grado di battere anche le squadre campioni in carica della NBA – i Minneapolis Lakers, ad esempio, ci hanno lasciato le penne, sportivamente parlando, due volte, nel 1948 e 1949. Non che oggi non gli capiti, di vincere partite contro squadre “vere” – una delle ultime vittime illustri furono i Syracuse Orangemen di Carmelo Anthony, Hakim Warrick, Gerry McNamara e coach Jim Boeheim, freschi campioni NCAA nel 2003 – però ecco, ci siamo capiti. Gli ingaggi che Saperstein era in grado di pagare in quegli anni erano sostanzialmente gli stessi che pagavano le leghe professionistiche – non a caso uno come Wilt Chamberlain, una volta uscito dall’NCAA, ha giocato un anno per loro prima di approdare nella NBA. Il loro era uno show, certo, ma era anche pallacanestro con giocate di alto livello, ragion per cui diventava difficile trovare avversari, perché da un lato nessuno era disposto a farsi ridicolizzare da loro, e dall’altro non si poteva cercare qualcuno di troppo competitivo, perché il lieto fine dello show prevedeva la vittoria degli eroi dalla divisa Stars&Stripes. Da lì il progetto messo in piedi da Klotz, su proposta di Saperstein.
E così è stato, tranne in un paio di occasioni agli albori dell’accordo tra le due franchigie, di cui però non c’è traccia nella stampa “ufficiale”. Giova ricordare che gli Harlem Globetrotters a un certo momento della loro storia erano talmente famosi che si rese necessario da ambo le parti allestire più team che si sfidassero contemporaneamente in città diverse, così da poter soddisfare tutte le richieste che gli arrivavano, dagli USA e dall’estero, arrivando a giocare fino a 400 partite all’anno. Per “reggere il gioco” nel migliore dei modi ai più celebri rivali, i Generals iniziarono ad utilizzare degli altri nomi da alternare con quello ufficiale, nomi tipo Baltimore Rockets, Boston Shamrocks, Atlantic City Seagulls e New Jersey Reds. Sempre con lo stesso identico esito, però: i ragazzi a stelle e strisce vincono, gli avversari perdono. Fino a quel giorno di dicembre del 1971. Per questo discorso delle partite in contemporanea in più posti, gli annali ricordano che la striscia vincente degli Harlem Globetrotters, fino a quel 5 di gennaio del 1971, era di 2495 vittorie consecutive.
They looked at us like we killed Santa Claus!
Non c’era l’attrazione principale dei Globetrotters, quel giorno: Frederick “Curly” Neal, un ballhandler clamoroso nonché probabile musa ispiratrice di Adriano Celentano nella celebre scena della partita di basket de “Il bisbetico domato”
RIP to Harlem Globetrotter icon, Fred ‘Curly’ Neal!🖤 pic.twitter.com/IYKdzWCpCW
— Hooper Village (@hoopervillage) March 26, 2020
ma c’era comunque l’altra stella della squadra dell’epoca, “Meadowlark” Lemon, uno dei personaggi più in vista della storia della franchigia, talmente famoso che a fine anni settanta uscì un documentario a tema geografico che si chiamava “Meadowlark Lemon Presents The World”. Cosa sia successo di preciso prima della partita non è dato sapere, anche se alcune voci raccontano di una qualche presa in giro un po’ troppo pesante da parte dei ragazzi di Harlem nei confronti degli avversari di sempre, forse la stanchezza di trovarsi così tanto a lungo in giro, forse nulla di tutto questo. In ogni caso, i racconti dell’epoca sono tutti abbastanza concordi su una cosa: quella partita tra le due squadre fu molto più simile a una partita “tradizionale” di quanto chiunque andasse a vedere gli Harlem Globetrotters potesse aspettarsi. Fatto sta che i New Jersey Reds, così si chiamavano quella sera i ragazzi agli ordini di coach Red Klotz, decisero di giocarsi la partita finché durava, e vedere come sarebbe andata a finire. Fu così che, con appena due minuti da giocare prima della fine della partita, i Reds, che poi sarebbero stati i Generals sotto mentite spoglie, si trovavano avanti di 12 punti. Fu solo a quel punto che qualcuno dei Trotters alzò gli occhi verso il tabellone segnapunti ed esclamò il più classico degli “oh, shit”. A quel punto, Lemon e soci iniziarono una furiosa rimonta, che li portò avanti 99-98 con 10 secondi sul cronometro. Klotz, all’epoca cinquantenne ma ancora nella doppia veste di allenatore-giocatore, chiamò un timeout e disse ai suoi ragazzi di dargli la palla, che l’ultimo tiro se lo sarebbe preso lui. Alcuni dicono che la scelta fu dettata dal fatto che Klotz, in quanto ex campione NBA, era ancora il miglior tiratore della squadra, altri sostengono che avesse scelto di prendersi lui l’ultimo tiro per non lasciare una responsabilità del genere ai suoi ragazzi, a cui aveva sempre espressamente detto e ripetuto di non sbagliare mai e poi mai un tiro intenzionalmente, per non metterli in una posizione difficile. Le malelingue sostenevano che avesse deciso lui di prendersi l’ultimo tiro per sbagliarlo intenzionalmente, tesi quest’ultima sempre rigettata con forza dal diretto interessato. Fatto sta che Klotz il tiro se lo prese, da molto lontano, e lo segnò pure, riportando avanti i suoi sul 100-99 (il tiro da tre sarebbe arrivato svariati anni dopo). Il cronometrista della partita, vista la mala parata, decise di stoppare il cronometro per qualche secondo in modo da permettere ai Globetrotters di potersi prendere l’ultimo tiro, coi Generals – pardon, i Reds – che al solito misero in mostra una difesa più di facciata che di sostanza, come erano soliti fare. Quando la palla arrivò in post basso a “Meadowlark” Lemon, forse per fargli avere il bonus di un canestro della vittoria sulla sirena, il cronometrista fece ripartire il tempo. Il numero 36 fece partire un tiro in gancio che aveva segnato migliaia di volte in precedenza, ma la palla stavolta andò lunga sul secondo ferro, per poi finire di nuovo tra le sue mani per un nuovo tentativo mentre la sirena, implacabile per lo zelo del cronometrista, suonò la fine delle ostilità. I Generals che non erano i Generals avevano vinto, e cosa ancor più incredibile, i famosissimi Harlem Globetrotters avevano perso. I bambini si misero a piangere, il pubblico li sommerse di buu, e poiché in quegli anni in Tennessee non si potevano bere alcoolici in pubblico, la vittoria di Klotz e dei suoi venne festeggiata con bottiglie di aranciata. Klotz, ricordando quel martedì sera, disse a proposito del pubblico:
“Erano veramente arrabbiati con noi per aver infranto il loro sogno, i bambini poi ci guardavano come se avessimo ucciso Babbo Natale!”
“Siamo tutti un po’ Generals”
Il virgolettato sopra è di Joe Posnanski, cronista di NBC Sports che si trovò a seguire quella che era l’ultima partita dei Washington Generals prima della rescissione del contratto – ironia della sorte, partita vinta dai Globetrotters per 90-88. Rescissione di cui i giocatori non sapevano niente: John Ferrari, il genero di Red Klotz, decise di dirglielo in modo abbastanza plateale solo all’intervallo lungo, quando entrò negli spogliatoi e disse ai ragazzi: “voglio farvi una foto, perché voi siete gli ultimi che vestiranno mai la maglia dei Washington Generals”. Perché non voleva che giocassero condizionati dal fatto di trovarsi senza un lavoro dal giorno dopo, perché i Washington Generals ci insegnano che nella vita non è importante quante volte perdiamo, l’importante è sempre fare di tutto per provare a vincere, perché potrebbe sempre esserci un 5 gennaio 1971 per ognuno di noi, e non importa se quel giorno ci guarderanno come quelli che hanno ucciso Babbo Natale: quel giorno, noi saremo quelli che hanno vinto. E se non sarà quello il giorno, dovremo comunque provarci anche il giorno dopo, e quello dopo ancora.
Peraltro, noi sappiamo che non andò così, perché anche grazie al lavoro dell’ex bicampione NBA Kenny Smith, i Washington Generals sono tornati a nuova vita sportiva dopo uno stop di appena due anni. Con gli elementi di sempre nella ricetta, tipo far entrare per qualche minuto un personaggio famoso, in genere una celebrità locale, con la maglia dei Generals durante la partita – e con un pizzico di pepe in più, come ad esempio l’aver iniziato ad arruolare giocatori che abbiano militato precedentemente negli Harlem Globetrotters. È il caso, per esempio, del britannico Paul Sturgess, che dopo una non irresistibile carriera universitaria venne chiamato dal team a stelle e strisce principalmente per la sua altezza (2.32) che gli è valsa il soprannome di “Tall Paul” (da una canzone famosa in Inghilterra negli anni cinquanta) e quello, ancor più ironico, di “Tiny” (minuscolo).
I Trotters lo selezionarono per far coppia con Jonte “Too Tall” Hall, che col suo metro e cinquantasette costituiva con Paul una coppia in grado di battere il record di differenza di altezza tra compagni di squadra detenuto per oltre vent’anni da Muggsy Bogues e Manute Bol.
Lasciati i Globetrotters per tentare la fortuna in G-League coi Texas Legends (13 presenze, 11 punti e altrettanti rimbalzi), per poi giocare per una stagione in patria, Tiny non ha saputo resistere al richiamo dei Generals, e la sua prima dichiarazione in maglia gialloverde fu “i Trotters ridono troppo, non mi piace […] il mio scopo principale nella vita è riportare i Generals alla vittoria e togliere tutti quei sorrisetti dalle facce dei Globetrotters”. Per aggiungere potere intimidatorio alla faccenda, stante che l’altezza da sola non bastava, decise di indossare una maschera facciale e adottare l’identità di “The Cager”, un triplo senso che si può tradurre sia come “il cestista”, sia come “il gabbiano” (dalle ali tatuate sulle sue braccia), che come “quello che ti mette in gabbia”. Inutile dire che i propositi di Paul rimasero vani.
Le ultime notizie che abbiamo sui Generals, la cui attività è stata logicamente rallentata in modo drastico dalla pandemia di Covid-19 essendo un team che ha bisogno di date dal vivo, risalgono a pochi giorni prima del lockdown dello scorso anno: nel febbraio del 2020, un tweet dall’account “ufficiale” della squadra (le virgolette sono necessarie, stante l’assenza della spunta blu di account verificato) dava il benvenuto ad un’altra vecchia gloria NBA, Jalen Rose, come nuovo head coach della squadra. Nell’attesa che ripartano le sfide tra le due storiche avversarie, la bio del loro account Twitter recita fieramente “Not your grandfather’s Generals. We’re back and looking for our first win since 1971. Watch out @Globies”.
Una bio che è anche una dichiarazione di guerra, insomma. Perché chi sono i @Globies? Ma loro, naturalmente
Pensate ai Generals quando preparate le divise per la vostra nuova squadra minors. Il giallo e il verde stanno bene insieme. Vi ricorderanno di non smettere mai di provarci.