Articolo di Daniele Vecchi
Grafici di Fabio Fantoni
Copertina di Emanuele Venturoli

 

 

“L’unica cosa per cui si conosce Philadelphia è che ci hanno girato Rocky” disse il giornalista calciofilo ridendo assieme ad un altro giornalista calciofilo, che ribattè ancora più forte e supponente: “guarda, Philadelphia è proprio una città di m…a”.

Un giornalista non calciofilo che stava casualmente passando per la sala stampa, un giornalista sensibile e irascibile che odiava i qualunquismi, non riuscì ad esimersi dall’intromettersi tra i due, dicendo, al primo: “Dunque, tu hai dimenticato una parte della frase che hai appena proferito, infatti avresti dovuto dire che ‘l’unica cosa per cui le persone ignoranti dozzinali superficiali e ottusamente calciofile conoscono Philly, è che ci hanno girato Rocky’. Questo avresti dovuto dire”.

Proseguendo poi rivolgendosi all’altro, un personaggio alla radical chic bostoniano: “tu invece ricordati cosa disse K-Luv in Suckers Free City (film diretto da Spike Lee ambientato nel ghetto di San Francisco, ndr): ‘se da Chinatown portate la guerra qui a Hunter Point, per noi va bene, noi è da una vita che siamo in guerra, non ci cambia niente’. Spero ti sia chiaro”.



Il giornalista non calciofilo se ne andò sorridendo ai due, lasciandoli esterrefatti a meditare sulle scempiaggini che avevano detto.

Il senso era: Siamo abituati alla guerra. Siamo abituati a stare male. Because We are Philly.

 

Philadelphia è una città dura. Lo sappiamo.

Philadelphia è una città che non perdona. Lo sappiamo.

Philadelphia è una città sanguigna e senza fronzoli. Lo sappiamo.

 

Ma al di là dell’old fashion romantico di Rocky e della città dura, Philadelphia è anche una delle grandi città degli Stati Uniti dove ci sono 4 squadre professionistiche nei 4 maggiori sport che muovono un mercato televisivo amplissimo. Philadelphia è infatti il quarto mercato televisivo più importante negli Stati Uniti dopo New York, Los Angeles e Chicago, quindi di conseguenza tutto ciò che accade nelle franchigie professionistiche di Philly è di fondamentale importanza per la infernale macchina mediatica dello sport in televisione.

Giocoforza tutto quello che accade nello sport della Città dell’Amore Fraterno è visto con un certo interesse in tutti i quartieri alti televisivi degli States. Il film di Sidney Lumet Quinto Potere, uscito nel 1976, ha molto ben esplicato con un certo anticipo quanto fosse dirompente il potere televisivo, soprattutto in America, e soprattutto a livello mainstream. E la televisione è sempre molto esigente nei confronti dei propri maggiori mercati, anche e soprattutto quando si tratta di sport. E quando accade che nella Nba, la Lega più famosa e globale del mondo, la squadra del quarto mercato televisivo più importante degli USA vince 47 partite su 246 in tre stagioni, alla Olympic Tower sulla Fifth Avenue a New York, sede della NBA, volano gli stracci.

Perchè tutto ciò significa introiti mancati, contratti televisivi venduti a meno dell’auspicato valore, tutto per colpa di quel cervellone da Stanford che sta facendo “The Process”, perdendo continuamente e sistematicamente delle partite, svendendo e scambiando avidamente tutta la squadra in cambio di decine di prime e seconde scelte fino al 2022, alla ricerca di chissà quale assetto finale che chissà quando si stabilizzerà.

Quello là deve smettere, sta danneggiando il brand dei Sixers e il brand della Nba, con la sua folle politica.

Questo era il pensiero, estremizzato ma probabilmente molto vicino alla realtà, di molti dirigenti Nba, di molti GM e proprietari di franchigie, e anche di molti executives nel consiglio di amministrazione dei Sixers.

Come raccontato nel pezzo di Jordan Brenner su ESPN The Magazine, tra il 2013 e il 2016, tra i GM Nba serpeggiava persino qualche ansia, in realtà, qualche paura.

“E se Hinkie avesse ragione? E se l’uomo da Stanford stesse per gabbarli tutti e fargliela sotto il naso?”.

Era questa la tacita paranoia che attanagliava molti GM Nba.

Alcuni lo consideravano un personaggio borderline, uno senza scrupoli capace di approfittarsi dei meandri interpretativi delle regole, uno che gioca al limite dello sporco, ma qualcun altro invece lo considerava anche il GM più scaltro di tutto il lotto.

Insomma Sam Hinkie è stato un GM scomodo per tutti.

Nel dicembre del 2015 alcuni rumors dissero che Adam Silver dovette intervenire di persona, dopo la interminabile serie di sconfitte dei Sixers e dopo le continue intemperanze di Jahlil Okafor fuori dal campo, e orchestrare un colpo di mano per portare Jerry Colangelo a Philadelphia nel ruolo di President of Basketball Operations, per cercare di salvare almeno la facciata, per mostrare i muscoli e dire “sì, anche noi stiamo facendo qualcosa per salvare questi Sixers, mettiamo qualcuno dei nostri a vigilare”.

Ma nella testa e nella vision di Hinkie i Sixers non avevano bisogno di essere salvati.

I Sixers erano in pieno Process.

L’obiettivo di Sam Hinkie è sempre stato uno, durante quelle terribili stagioni. Costruire una contender per vincere il Titolo.

Invece qualche testa doveva cadere.



Secondo molti, l’immagine della Nba e dei Sixers stavano subendo un irrimediabile danno, e bisognava intervenire drasticamente.

Accade così che The Process venne meno il 6 aprile 2016, esattamente 34 mesi dopo il suo inizio, e il suo artefice, Sam Hinkie, General Manager dei Sixers, rassegnò le dimissioni in una famosa lettera di 13 pagine indirizzata a tutto il front office philadelphiano, 13 pagine che da quel giorno ad oggi e ancora per molti anni, sono e saranno oggetto e argomento di tesi nelle università americane ad indirizzo economico.

The Process cominciò ufficialmente nell’estate del 2013, quando Sam Hinkie prese il posto di Tony Dileo come General Manager dei Philadelphia 76ers.

Una delle cose più interessanti che Sam Hinkie ha scritto nel giustificare e spiegare le sue dimissioni nella lettera mandata ai Sixers tre anni dopo, è: “Come disse Abramo Lincoln ‘datemi sei ore per tagliare un albero, e ne impiegherò quattro ad affilare l’ascia”.

Questa frase dice molto della attitudine e della “vision” di Hinkie durante quei tre anni scarsi in cui è diventato il capro espiatorio di tutti gli insuccessi dei Sixers dal 2013 al 2016.

34 mesi in cui Sam ha applicato la sua versione delle cose a una realtà che era apparsa a molti solo da ritoccare o da rinforzare.

Il suo predecessore però, Tony Dileo, in una sola stagione, aveva fatto di tutto per “complicare” le cose a Hinkie, facendo mosse discutibili sul mercato, costruendo, nella stagione 2012-2013, una squadra con gravi problemi offensivi e realizzativi, la peggior squadra Nba per punti segnati (93.2 punti di media a partita), una squadra senza un vero leader che ha pagato lo scotto della scelta azzardata di dare 16 milioni di dollari a Andrew Bynum senza che l’ex centro dei Los Angeles Lakers giocasse una sola partita in maglia Sixers.

In fondo dopo il crack di Derrick Rose al primo turno dei Playoff 2012 che portò i Sixers a eliminare i favoriti Bulls, quella versione di Philly si comportò molto bene nella serie di Semifinale della Eastern contro i favoriti Boston Celtics, forzando fino alla settima partita i Big Three con un Rajon Rondo che fu straordinario al Garden in Gara 7.

Quei Sixers con Jrue Holiday (21 anni), Andre Iguodala (28 anni), Evan Turner (23 anni), Thaddeus Young (23 anni), Lou Williams (25 anni), e il veterano Elton Brand (32 anni), di certo non erano una schiacciasassi o una contender, ma nemmeno una squadra pessima da smantellare interamente.

Nella stagione successiva però Iguodala e Williams se ne andarono, e nessuno prese sulle proprie spalle l’onere realizzativo e di leadership di Iguodala e l’energia nel cambiare le partite dalla panchina di Williams, retrocedendo i Sixers dallo status di “poco meno di una incompiuta” allo status di “molto più di una incompiuta che fa schifo”.

Poi arrivò Sam.

Proclami di costruzione e ricostruzione da parte dei media philadelphiani.

La società e il dipartimento marketing diventarono i veri protagonisti dei Sixers.

“TOGETHER WE BUILD” era il motto, insieme all’ormai mitologico THE PROCESS.

Ricostruire, con metodo, con statistiche, bilanci contratti e plusvalenze (termine sdoganato dal calcio, termine pessimo ma che rende l’idea) tutti allo stesso livello, un approccio nuovo, un approccio che alla fine probabilmente è costato il posto a Hinkie, assieme al suo status, al marchio che si portava addosso, quello di appartenere alla categoria dei “non-basketball people”, uno che arriva con il suo modello economico ben studiato a Stanford, con il tablet multiuso che collega alla sala riunioni e che vuole spiegare come fare vincere una squadra di basket dopo essere stato per una vita a studiare grafici chiuso dentro una stanza dell’Oklahoma.

Così si arrivò al 6 aprile 2016.

Hinkie rassegnò le dimissioni, facendo tirare un sospiro di sollievo a tutti.

Jerry Colangelo lasciò immediatamente il posto di President Basketball Operations al figlio Brian, che ora ricopre entrambi i ruoli, presidente e GM.

Il vecchio Jerry aveva salvato parzialmente la faccia ai Sixers, e ora lascia che sia il figlio a completare l’opera.

Se vuoi costruire una squadra che funzioni, devi partire dall’asse play-pivot, in ogni categoria e ad ogni livello. Così si è sempre detto e si è sempre scritto.

Se il ragionamento è quello, l’asse play-pivot dei Sixers è Ben Simmons-Joel Embiid, incidentalmente le due scelte chiave ottenute da Sam Hinkie, assieme a Robert Covington, altro giocatore che Hinkie ha fortemente voluto, che ha appena firmato una estensione di contratto da 62 milioni di dollari, e che si sta rivelando un giocatore fondamentale per i meccanismi dei Sixers.

Philadelphia oggi è una squadra a dir poco futuribile, ma che già ora pare aver trovato l’equilibrio giusto per fare esplodere gli immensi talenti di Embiid e Simmons.

Joel Embiid è al suo secondo anno in Nba, dopo essere stato scelto nel Draft 2014 e dopo aver saltato le sue prime due stagioni Nba per infortunio.

Nella stagione 2016/2017 finalmente il prodotto di Kansas ha debuttato nella Big League, lasciando presagire il tipo di impatto che può avere. 31 partite giocate nella sua stagione da rookie, 20.2 punti, 7.8 rimbalzi, 2.5 stoppate di media a partita, in 25.4 minuti di utilizzo.

Numeri stellari per un rookie, anche in virtù del fatto che Embiid ha ancora ampissimi margini di miglioramento.

La grande incognita, al 27 gennaio 2017, quando ha giocato la sua ultima partita prima di infortunarsi nuovamente, era, è, ed sempre stata, la sua affidabilità fisica. Embiid sta seguendo un programma di contenimento dei propri infortuni, con minutaggio limitato e riposi forzati, dati dalla fragilità delle proprie gambe.

In questa stagione, i numeri di Embiid sono, se possibile, ancora migliorati. 22.7 punti, 11 rimbalzi, 3.3 assist in 29.3 minuti di media a partita. Numeri da dominatore tra i centri Nba, numeri che si consolidano ulteriormente se intesi per 36 minuti a partita.


In questa speciale statistica, accostato a tutti i centri Nba con più di 25 minuti a partita, quindi bene o male tutti i centri titolari, Embiid è il miglior realizzatore, con quasi 28 punti, anche più di DeMarcus Cousins, che lo scorso anno lo sovrastava anche in questa categoria.

Tenendo conto del fatto che Embiid ha ancora ampi margini di miglioramento, il potenziale in area (e non solo, JoJo può anche metterla moderatamente da tre) per la squadra della Città dell’Amore Fraterno è un tesoro inestimabile, a scanso ovviamente di infortuni.

Asse play-pivot abbiamo detto.

Il playmaker dei Philadelphia 76ers è Ben Simmons, un ragazzo australiano di 21 anni, 210 centimetri, e con braccia lunghissime, un ragazzo che viene dal duro australian football, che ne ha formato il fisico, l’attitudine al contatto e alla durezza mentale, un ragazzo che ha saltato tutta la scorsa stagione per un infortunio, rimanendo prudenzialmente ai box per tutte le 82 partite dei Sixers, preservando il suo debutto per questa stagione.

E che debutto.

Nelle prime 17 partite della sua stagione da rookie, i numeri che l’uomo da LSU ha messo assieme sono impressionanti, viaggiando a 18.5 punti, 9.1 rimbalzi e 7.7 assist a partita. Tra i rookies di quest’anno ovviamente non c’è paragone, Simmons è il migliore in ogni singola voce, sbaragliando tutti, e anche per lui come per Embiid, l’impressione che si ha è che ci sia ancora tanto margine di miglioramento.


Per caratteristiche, impatto, fisicità, talento e attitudine, i paragoni che si possono fare con Ben Simmons non sono molti, ma sono estremamente illustri.

Abbiamo analizzato le statistiche delle prime 17 partite di altri due giocatori molto promettenti, nella loro stagione da rookie, LeBron James e Grant Hill, due giocatori che hanno fatto e che continuano a fare la storia di questo sport, nel caso di LeBron, due giocatori che hanno segnato le proprie generazioni.

Tenendo conto di tutto, il paragone pare parlare chiaro. Ben Simmons is the man.


Un punto e mezzo in meno di media di Grant Hill (18.5 per Simmons e 19.6 per Hill) ma quasi il doppio di rimbalzi e assist (9.1 e 7.7 per Simmons contro 5.24 e 4.12 per Hill).

Nettamente superiore anche a LeBron James in ogni categoria.

A tutto questo Simmons ci aggiunge anche due triple-doppie nelle prime 17 partite.

Chiaro ovvio e lampante è il fatto che sono 17 partite, non 700, e che tutto può accadere nella vita e nella carriera di Simmons. Però considerando i numeri racimolati finora, e considerando la sensazione nettamente percepibile che il ragazzo deve ancora crescere molto, non si può non rimanere colpiti da queste cifre e da questi confronti.

I Philadelphia 76ers nelle prossime partite della stagione e nelle prossime stagioni a venire, paiono essere una squadra che si lascia guardare.

Se a questa situazione potenziale aggiungi un giocatore duttile e intenso come Robert Covington, un tiratore esperto come J.J. Redick, e un altro ottimo prospetto come Dario Saric, che già dalla scorsa stagione ha dimostrato di poter fare la differenza anche a questo livello, il futuro di questi Sixers PARE essere luminoso.

La cosa doverosa da fare e da puntualizzare, a questo punto, è solo una: il futuro di questi Sixers è stato ideato, pensato, voluto, pianificato, costruito, difeso e (quasi) realizzato da Sam Hinkie e dal suo famigerato Process.

Questi sono i fatti.

Coach Brett Brown lo ha fortemente voluto lui.

Joel Embiid lo ha fortemente voluto lui.

Dario Saric lo ha fortemente voluto lui.

Roberto Covington lo ha fortemente voluto lui.

La prima scelta al Draft 2016, quella che ha portato Ben Simmons, è arrivata perchè lui ha lavorato e sacrificato le tre precedenti stagioni al Tanking.

Per questo i tifosi dell’XFinity Live a Pattison quella sera del Draft hanno cantato “THANK-YOU-HINKIE clap-clap-clap-clap”.

Brian Colangelo ha fatto la saggia mossa di tenersi coach Brett Brown e di fare arrivare J.J. Redick. Ha anche scelto Markelle Fultz, che ha ancora tutto da dimostrare, ma se Philly ha aspettato due stagioni Embiid e una stagione Simmons, qualche altra partita in questa stagione la può anche aspettare.

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