Cosa succede quando lo stridìo di suole lentamente consumate sul parquet a ogni cambio di direzione cede il passo a quello di pesanti stivali che rimbombano su tasselli di legno, gli stessi su cui corpi statuari si schiantano violentemente, con l’unica misericordia di un sottile quanto polveroso strato di schiuma?
Quando il combattimento non è più l’esasperazione dopo la millesima gomitata ricevuta di nascosto, ma diventa anzi il motivo per cui il pubblico si mette in fila all’entrata?
Quando il palazzetto smonta i canestri e installa al suo posto, per una notte solo, un quadrato con 4 tiranti e 3 corde, siamo sicuri che ogni traccia se ne vada una volta disinstallata l’attrezzatura?
Per scoprirlo, più inaspettatamente dell’arrivo dell’inquisizione spagnola, il nostro punto di partenza oggi è rappresentato da Amedeo Minghi.
[Laureatosi campione di coppia con Mietta a Sanremomania XXXX, nonché zio [citation needed] dell’NBA Hall Of Famer Yao, chi meglio di lui?]
Proprio così, più precisamente di uno dei brani più rinomati del cantautore romano, intitolata 1950.
Spaccato di una storia d’amore comune, contornata da un’Italia che ricuce faticosamente le profonde ferite lasciate dalla Seconda Guerra Mondiale, nel testo appaiono in modo apparentemente distratto i soldati alleati provenienti dagli USA, “che con le loro camicie a fiori colorano le nostre vie”.
In effetti la diffusione delle cosiddette Aloha shirt ha avuto inizio negli States proprio quando i militari impegnati in alcune zone orientali durante la Grande Guerra sono rientrati in patria, sfoggiando tali vesti, tipiche per quei territori ma così pittoresche e kitsch per gli occhi europei.
Ed in fondo è così ciò che etichettiamo come “americanata”: dapprima adoperato come termine dispregiativo in periodi di forte nazionalismo, ora lo si adopera perlopiù con una connotazione snob, rivolta con sprezzo verso qualunque costume tipico della cultura statunitense che possa apparire una sbruffonata, di dubbio gusto o spettacolarizzato oltremisura.
Con questo minimo comune multiplo entra in gioco il protagonista odierno a fianco del nostro amato basket, cui si stringe a doppio filo nel loro modo di essere vissuto oltreoceano: laddove la pallacanestro NBA espone il fianco alle critiche degli amanti della tattica e della concretezza sopra lo sforzo atletico e le velocità vertiginose, il wrestling made in USA, quintessenza del guilty pleasure, viene etichettato come un prodotto fin troppo superficiale e caciarone, carente di quella dignità e spessore di cui è permeato il Puroresu, ossia la controparte giapponese della medesima disciplina.
[Superfluo puntualizzare come le federazioni nipponiche che puntano sul comedy facciano eccezione]
Concedendoci un altro ammicco al cantautorato nazionale, prendiamo anche noi il treno per l’America senza fermate e andiamo a scoprire 3 recenti casi in cui alcuni protagonisti della pallacanestro a stelle e strisce sono stati ospiti dell’ipertrofico e oleoso mondo dello sport-entertainment, quando hanno mollato la sfera arancione per entrare coraggiosamente nelle arene dei moderni gladiatori.
Prima della fine di questo approfondimento chiuderete la scheda, esasperati davanti all’ennesima trovata eccentrica? Finirete, al contrario, per innamorarvi di questa parata di assurdità? Scapperete a gambe levate, sitibondi di una partita ai 100 punti complessivi di una sottolega sovietica e di anonimi lottatori asiatici con mutandoni monocromi al grido di “Aridatece Tony Fusaro!”? C’è solo un modo per scoprirlo.
Ricordarsi di quando Dan Peterson, durante un incontro di wrestling a senso unico, divagava dalla stretta telecronaca per raccontarci di come sua madre incontrasse abitualmente un piccolo Ric Flair recandosi al supermarket, non è una condizione necessaria e sufficiente per godersi il primo di questi racconti ma indubbiamente aiuta.
Jorge “Giant” Gonzalez
Oggi iniziamo muovendoci dritti in Argentina, a El Colorado per la precisione, piccola cittadina nella provincia di Formosa, nella parte più settentrionale del Paese sudamericano.
Arrivato a un passo dall’NBA ma poi riciclatosi nei ring di wrestling, ecco la travagliata e dolorosa avventura di Jorge Gonzalez.
Classe 1966, nasce in una famiglia numerosa costretta al limite dell’indigenza.
Jorge si trasforma, per effetti di un gigantismo simile a quello del centrone rumeno Gheorghe Muresan (di cui abbiamo parlato durante lo scorso appuntamento), da un già notevole 1.88 dei 14 anni a un 2.18 appena 2 anni dopo, portando addosso un carico di 170kg.
Proprio da sedicenne Gonzalez abbandona casa in cerca di fortuna, quando gli viene fatto notare che un totem del genere, con quella coordinazione nei movimenti, avrebbe potuto sbancare sul parquet.
Effettivamente Gonzalez brucia le tappe: dalle giovanili dell’Hindú Club de Resistencia passa in breve al Club de Gimnasia y Esgrima La Plata, in seconda divisione.
Nel 1985, intanto, tre divisioni regionali si fondono per dare vita alla lega nazionale di basket in Argentina. Jorge è fortemente voluto di lì a poco da uno di questi team di massima serie, lo Sport Club Cañadense, il cui coach León Najnudel è in quel momento anche CT della nazionale, sicché Gonzalez (cresciuto fino a 2 metri e 30) rappresenta sin da giovanissimo il proprio Paese.
Proprio quando la scalata sembra inarrestabile il freno assume la forma della rottura di un legamento, che lo costringe ai box per 9 mesi.
Passato un ragionevole periodo per recuperare dall’infortunio, Gonzalez torna a fare la voce grossa in campionato e il salto di qualità è dietro l’angolo.
C’è stato un torneo che si è svolto dal 1966 al 2004 durante le feste natalizie, chiamato appunto Torneo de Navidad, in cui l’ospitante Real Madrid ha sfidato talvolta altre squadre di club, talvolta vere e proprie nazionali.
Nell’edizione 1987 c’è anche l’Argentina (che chiude ultima), ed è lì che Jorge si fa notare e ottiene in breve un provino dagli Atlanta Hawks per merito del loro scout europeo Richard Kane, abbagliato nel vedere in lui un prospetto clamoroso.
Gonzalez viene poi draftato dalla stessa franchigia della Georgia l’estate successiva con il n.54, pochi mesi dopo essersi fatto notare nel pur fallimentare tentativo della nazionale albiceleste di qualificarsi per le imminenti Olimpiadi di Seul.
Erano decisamente altri tempi per la compagine, che pure già brillò nei decenni ’30-’50. Se in quel momento storico aveste parlato della Generación Dorada, che solo 16 anni dopo avrebbe soffiato l’oro olimpico ai professionisti dell’NBA, ecco che avreste ricevuto la stessa accoglienza di Marty McFly mentre “predice” Reagan come Presidente.
Jorge è (molto) grande e (ancora più) grosso, cresciuto sopra quota 2.30 di altezza e 180 di peso. Un tentativo non glielo si può proprio negare.
Già dai primi allenamenti con Wilkins & co., però, si evidenzia un problema di difficile risoluzione: Jorge non risponde agli standard richiesti dall’Olimpo del basket, ma proprio no. Gioca praticamente solo con la mano destra, non si muove con la necessaria fluidità e soprattutto è lento, tanto da rimanere indietro dopo solo un paio di transizioni.
L’NBA sarebbe troppo, il sogno si interrompe bruscamente sul più bello. Che ne sarà di lui?
Il magnate mediatico Ted Turner ai quei tempi non possiede solo gli Atlanta Hawks e gli Atlanta Braves. E la CNN. E la TBS. E… ok, il punto dovrebbe essere chiaro.
Turner ha investito forte pure nel wrestling, rilevando la federazione texana NWA e spostando anch’essa nella città della Coca-Cola, con l’intento di farla diventare grande per davvero, rilanciandola con il nuovo nome di World Championship Wrestling.
E… beh sì, questo accade.
Gonzalez debutta sul quadrato dopo appena un anno di allenamento, durante uno show in cui la sua presenza è parzialmente oscurata da quella di Robocop.
La situazione è destinata a deragliare ulteriormente in breve tempo: El Gigante, nonostante la grande considerazione ottenuta sulle prime, viene coinvolto man mano in incontri che appaiono sempre più grotteschi, pure per un microcosmo in cui vedere un non-morto e un campione di sumo samoano cercare di spingersi vicendevolmente dentro una bara rientra sotto “normalità”.
Il fondo lo si tocca con il Chambers of Horrors e la relativa “sedia elettrica”.
Di lì a poco Jorge saluta gli States e se ne va, destinazione Giappone, dove continua la disciplina.
I sopravvissuti ai Sabato pomeriggio dei primi anni ’90 lo ricordano per la breve apparizione di rientro negli States al soldo della rivale WWF (primo argentino nella storia della federazione che fa capo al padre padrone Vince McMahon), quando Dan Peterson ne commenta le gesta sotto l’alias di Giant Gonzalez, stavolta venduto addirittura come un 8 piedi e addobbato con un outfit al limite del crimine verso l’umanità.
Anche stavolta prestazioni di dubbia qualità si susseguono, dopo un ingresso che avrebbe lasciato presagire ben altro.
E’ affaticato Jorge, passa il secondo quintale e le ginocchia si logorano. Dopo 9 mesi di permanenza si sposta nuovamente in Giappone, dove fa praticamente sparire le sue tracce nel 1994, salvo (continuando in un certo senso il parallelo con Muresan) qualche cameo in telefilm statunitensi.
Che ne è stato di lui? Tradito anche dal nervo sciatico, dice addio alla lotta libera nel Dicembre ’95.
Giungono voci che lo vogliano addirittura svenuto durante un’esibizione in terra nipponica nei mesi seguenti.
[Eccolo in uno spot pubblicitario di rara ambiguità]
Tornato a El Colorado, Jorge vive da disoccupato, più povero e malato ogni giorno che passa.
Nel 2009, il diabete, i reni e un corpo giunto a capolinea legano la sua esistenza a un macchinario per la dialisi. Da quel momento si può muovere solo attraverso una sedia a rotelle.
Il cuore gli dà il colpo di grazia nel 2010.
Ci lascia a 44 anni, dopo un’intera esistenza passata a essere lo scomodo inquilino in un corpo più grande di lui.
Malone e Rodman vengono alle mani (anche) in un Pay Per View WCW.
Proprio mentre Giant Gonzalez sta abbandonando definitivamente i ring nordamericani, la WCW di Ted Turner inizia a manifestare intenzioni bellicose e di conquista, investendo forte pur di riuscire a soffiare alla rivale WWF alcuni dei suoi wrestler di punta, ridefinendo gli equilibri nel giro di un paio d’anni.
Tra gli atleti ingaggiati da Ted Turner spiccano senza dubbio i ritorni di importanti nomi come Kevin Nash (che i più ricorderanno come il gigantesco camionista Diesel) e Scott Hall (ex Razor Ramon), i quali lasciarono anni prima Atlanta da prospetti ancora acerbi, per divenire superstar alla corte dei McMahon.
Il duo riesce a shockare il mondo del wrestling nell’estate 1996, nel Pay Per View Bash At The Beach, alleandosi a sorpresa con un Hulk Hogan che, per la prima volta dopo 12 anni da leale eroe della patria, decide di tradire i milioni di supporter.
[I quali in realtà la prendono benissimo, non lasciatevi ingannare dai quintali di rifiuti lanciati]
Nasce così il New World Order, un gruppo di ribelli in vesti bianconere che mira a impossessarsi della federazione, finendo per recrutare nuovi adepti con la stessa frenesia con cui ne espelle altri.
Esattamente un anno prima, proprio a Bash At The Beach 1995, nientemeno che Dennis Rodman presenzia all’angolo dell’Hulkster (ancora beniamino di grandi e piccini), prevenendo anche interferenze contro il baffuto amico nella difesa della cintura dei pesi massimi contro Vader.
Per la WWF sono anni durissimi mentre la WCW, con la trovata del NWO, domina la guerra di ascolti con la diretta concorrente (rivalità esplosa nel 1995 con la proposizione del format Nitro in contrapposizione allo storico Raw ogni Lunedì sera), attirando anche le attenzioni dei non addetti ai lavori.
Tra questi, nello stupore generale, figura nuovamente Rodman, che a Marzo del 1997 si schiera (e come potrebbe essere altrimenti) al fianco dei bad boys guidati dal rebrandato Hollywood Hogan, risultando decisivo per la vittoria della propria fazione nello show a pagamento Uncensored.
Ai più attenti lettori non sfuggirà come The Worm in quel periodo sarebbe dovuto essere impegnato, per esempio, a portare rimbalzi per la causa dei Bulls, sulla strada verso il back-to-back dopo la precedente stagione dei record.
Rodman qualche giorno prima è però stato squalificato dalla lega per aver calciato gli Spalding di un povero cameraman a bordocampo, durante un match con i Timberwolves. Laddove la sanzione prevista per un colpo proibito del genere nel mondo del pro-wrestling non si tradurrebbe neppure in un incontro perso, la mano della NBA non è altrettanto morbida e sospende l’ex Pistons per 11 partite, facendogli rimettere anche la lauta paga per tutto il periodo in oggetto.
[“That’s enough, ring the bell!” *Ding Ding Ding*]
Terminata la squalifica, Rodman torna nell’Illinois lasciando la WCW con un “arrivederci a presto”.
E’ solo questione di poco difatti: letteralmente qualche giorno dopo aver conquistato il secondo anello con Chicago ecco che la sua testa ossigenata si ripalesa sul ring, pronto a debuttare stavolta anche da wrestler attivo, quando in tag con Hogan affronta la coppia formata da Lex Luger & The Giant (il futuro Big Show) nel main event di Bash At The Beach 1997.
Per Dennis e Hulk è una disfatta al termine di un incontro giudicato unanimamente pessimo, nonostante The Worm pur di cercare il trionfo non si faccia problemi ad abbattere con una testata l’arbitro della contesa.
[Un gesto simile da Rodman, riuscireste a crederlo?]
La stagione NBA che inizia a Ottobre 1997 si conclude con le epiche Finals tra i Bulls pigliatutto e i Jazz, in un rematch di quanto visto 12 mesi prima.
L’esito, ben lo saprete, è il medesimo: al termine di una serie giocata con il coltello tra i denti, MJ e soci entrano nella leggenda consegnando alla città di Chicago il secondo Three-peat in appena 8 anni.
In un incontro dentro l’incontro, Rodman incrocia spesso e volentieri i pugni con il rivale di lungo tempo Karl Malone, facendo scintille su ogni palla vagante e non perdendo occasione per scambiarsi carezze.
Quell’estate accade l’imponderabile: Rodzilla presenzia per la terza vola in WCW, ma non si tratta dell’unico incubo delle aree NBA a fare visita alla federazione di Ted Turner.
In combo al Worm approda difatti anche il suo acerrimo nemico Karl Malone.
Sì, Karl Malone, l’uomo dei 47 punti in faccia a Isiah Thomas.
In un’unica azione.
Di aiuto difensivo.
Rodman contro Malone.
[Comune mortale: rapido passaggio della vita davanti agli occhi.
Karl Malone: “Ehi, vacci piano Rod.”]
Malone contro Rodman.
Sulla passione del Postino per il wrestling praticato possono parlare tanti avversari, sui quali il secondo marcatore all-time della lega, per quanto riguarda le discipline da combattimento, si è fatto le ossa (a spese di quelle dei poveri malcapitati).
Se Dennis ha radicato negli anni un solido rapporto di amicizia con Hogan (al punto di aver preso anche recentemente le sue difese in seguito a uno scandalo legato a esternazioni razziste di Hulk), Karl conosce invece da lungo tempo uno dei wrestler che in quel momento si trova sulla rampa di lancio in WCW, Diamond Dallas Page.
Scartata la possibilità di lasciare soli King Karl e Rodman a malmenarsi sul ring senza la scusa del pallone a spicchi, si opta per la costruzione di un incontro di coppia, ognuno con il rispettivo wrestler compagnone a supporto (anche se inizialmente la dirigenza avrebbe preferito che al posto di DDP vi fosse il grande Randy Savage).
Nello show in Pay Per View Bash At The Beach 1998 l’incontro si prende addirittura lo slot più importante, il gran finale, il main event, la portata principale; in tutto ciò il peso politico dell’Hulkster ha indubbiamente giocato il suo ruolo.
Quantomeno al leader del NWO viene respinta la richiesta di far durare la contesa una quarantina di minuti, limitando il tempo a loro disposizione attorno alla mezz’ora, comprensiva delle entrate sul ring. Ancora decisamente troppi.
I due cestisti si azzuffano brevemente proprio nei primi minuti dopo la campana d’inizio, ma si tratta di innocue headlock, interrotte dalle fughe dal quadrato da parte di Rodman, che cerca di attirare l’odio dei presenti con una condotta estremamente vigliacca.
A San Diego, in una Cox Arena totalmente ostile dinnanzi a questo scempio che va concretizzandosi (e i 600.000 che acquistarono l’evento da casa per 30 verdoni tanto più felici non devono essere stati), sul ring si alternano poi gli incroci Malone-Hogan e Rodman-DDP, senza miglior fortuna.
Alle star NBA vengono richieste poche cadute, spesso accompagnate morbidamente al tappeto con un grado di violenza simile a quella delle stesse mosse che avete eseguito da adolescenti con il fratello/amico/cugino di turno (ah già, don’t try this at home). Una politica di preservazione comprensibile soprattutto per Malone, che ha davanti ancora diverse stagioni con la palla arancione, sfornando numeri fuori parametro in rapporto alla sempre meno giovane età.
La sfida si sviluppa attraverso un canovaccio ben collaudato: Diamond Dallas Page è per la gran parte del tempo vittima del duo di villanzoni, che non si fa scrupoli ad avvalersi di qualsiasi tecnica illegale pur di mantenere il controllo delle operazioni. I ritmi intollerabilmente bassi e la detta sensazione di “non famose male” sono quanto occorre per trasformare lo scontro in una pantomima fiacchissima.
Quando finalmente arriva l’atteso tag per Karl Malone, il Postino fa piazza pulita degli avversari (eseguendo anche delle rispettabilissime bodyslam), atterrando infine Hogan con una delle mosse classiche dell’ex eroe giallorosso, la stivalata in pieno viso.
Rientra quindi DDP, che esegue la sua manovra risolutiva, la Diamond Cutter, su Hulk; Malone lo emula colpendo alla stessa maniera un Rodman che stava cercando di interferire.
Finalmente arriva l’attesa (benché non troppo significativa) rivalsa di King Karl sull’acerrimo rivale di parquet? Ehr…
Esatto: proprio quando le cose sembrano chiudersi bene per i favoriti dei fan, ecco che il tirapiedi di Hogan, The Disciple (l’ex Brutus “The Barber” Beefcake, fraterno amico di Hulk anche nella vita reale), interviene permettendo al proprio boss di schienare Page. L’ultima risata spetta anche stavolta a The Worm.
L’esperimento di coinvolgere star NBA nello spettacolo si è rivelato per la WCW, quindi, una bruciante delusione; la federazione, in compenso, fa tesoro del fiasco…
Niente di più falso, tant’è che l’incontro clou nello show a pagamento del mese seguente presenta di nuovo Diamond Dallas Page sul ring in tag, stavolta con Jay Leno.
Rodman viene reingaggiato per un’altra manciata di apparizioni nell’estate 1999, bucando anche l’impegno dato in più di un’occasione. Il suo terzo e ultimo incontro ufficiale in WCW lo vede coinvolto con Macho Man Randy Savage, chiudendo la loro rivalità attraverso un match senza squalifiche, nel quale The Worm è costretto a soccombere.
L’ingaggio sborsato per Dennis è ridicolmente alto: quasi 1.2 milioni di Dollari, si verrà a sapere, più di quanto abbia guadagnato in metà delle sue stagioni in NBA.
La WCW va a gambe all’aria nel 2001, ponendo fine a un ultimo periodo di dolorosa agonia: una fortezza crollata a colpi di libri paga corposi, pessima gestione finanziaria e non, scelte di booking scellerate (qui ne sono narrate solo una quota infinitesimale) e conflitti intestini al roster, con una decina di galli a battagliare per il posto di comando del pollaio.
Ancora non pago, il Verme a Giugno del 2000 sfida il compianto “Mr. Perfect” Curt Hennig a un incontro titolato per l’alloro massimo della federazione australiana IWG, ma anche stavolta ne esce sconfitto.
Il “catch” appare un’ultima (?) volta nel curriculum di un ormai ritirato Rodman, quando nel 2008 questi si aggiudica il reality Hulk Hogan’s Celebrity Championship Wrestling, sfruttando le precedenti esperienze sul ring per surclassare temibili contendenti come Frank “l’altro” Stallone, Screech Powers (direttamente da Bayside School) e Willis, il fratello di Arnold nell’omonimo telefilm.
Sul serio (Parte 2).
Le ultime righe di questo excursus nella terra del pro wrestling a stelle e strisce le dedichiamo invece a un giocatore straordinario che tra l’altro, in diversi momenti della propria carriera, è stato compagno di squadra sia del Postino che del Verme.
Shaquille O’Neal invade la WWE
Un fast forward di un decennio abbondante ci porta di nuovo sui ring della WWF, costretta a rinominarsi WWE (con la E a significare Entertainment) dal 2002, in seguito a una causa pluridecennale conclusasi con un verdetto a favore dalla World Wildlife Fund.
Più precisamente arriviamo al 27 Luglio 2009: a WWE Raw, lo show settimanale principale della federazione, da un mese a questa parte hanno iniziato ad alternarsi varie celebrità di più o meno spessore nel ruolo di Guest Host (il presentatore, in buona sostanza), al ritmo di un personaggio diverso per ogni singolo episodio.
In questo Lunedì sera estivo tocca addirittura a Shaquille O’Neal, reduce da una stagione con Phoenix durante la quale viene premiato con l’ultima convocazione all’All-Star Game, rivestire questo incarico: per il 4 volte campione NBA si tratta del ritorno in un ruolo di rilievo nel mondo del pro wrestling dopo una breve apparizione nel lontano 1994 per WCW Bash At The Beach (esatto, ancora), quando figurò a bordo ring in occasione del primo storico scontro tra il Hulk Hogan e Ric Flair.
Ampliando il discorso, si può affermare che con l’apparizione a Raw Shaq si ritrova protagonista di un’esibizione pseudosportiva dall’esito palesemente predeterminato, come non gli accadeva dai tempi di Gara 6 delle finali della Western Conference 2002.
La WWE vuole massimizzare l’impatto di O’Neal e, pronti via, lo mette in aperta sfida con un altro energumeno suo pari, l’enorme Big Show; laddove il pubblico viene stuzzicato con la possibilità di vedere il duo di mastodonti collidere in un match vero e proprio, tale illusoria promessa cade di lì a pochi minuti.
I 2 avranno comunque modo di mettersi le mani addosso nella parte finale della puntata, cercando l’un l’altro di sollevarsi per il collo per poter connettere con una Choke Slam, mossa terminale di Big Show, ma senza che emerga un chiaro vincitore della disfida. Shaq ha comunque l’ultima parola spazzando via l’ex The Giant con una poderosa spallata.
Dopo anni di silenzio, in cui al massimo compare nelle vesti di spettatore d’eccezione, O’Neal effettua un comeback a sorpresa lo scorso 3 Aprile, in occasione della trentaduesima edizione di Wrestlemania (da sempre l’evento principe per l’annata WWE), nella Battle Royal istituita a ricordo del mitico Andrè The Giant.
In quello che rappresenta il debutto del maestro dello Shaq Fu in un match ufficiale, l’ex Orlando Magic va ben presto a brutto muso con il vecchio amico-nemico Big Show ed ecco che i colossi riprendono da dove avevano lasciato, tentando reciprocamente di strozzarsi. Il risultato sortito è che entrambi vengono eliminati dalla contesa per mano di una decina di altri partecipanti. Prima dell’esclusione Shaquille si toglie comunque lo sfizio comunque di estromettere dalla contesa un wrestler, Damien Sandow, facendolo volare sopra la terza corda.
Proprio mentre di recente Dwight Howard fa sapere che un passaggio da parte sua nel pro wrestling non è assolutamente da escludere, vanno facendosi sempre più insistenti le voci di un possibile Shaq vs Big Show a Wrestlemania 33, che già sembrava realizzabile nel 2012.
In fondo…
[…cosa può…]
[…andare storto?]
a cura di Marko Stanchini