illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Daniele Vecchi
In un qualsiasi gruppo Whatsapp della zona di Bologna, composto da appassionati di basket sulla quarantina/cinquantina, e composto ovviamente anche da tifosi Virtus e Fortitudo, per scatenare un putiferio basterebbe scrivere “secondo me Sugar era un mercenario, giocava da solo e solo per i soldi”.
In pochi minuti decine di messaggi pro (tanti) e contro (un po’ meno) intaserebbero le memorie dei telefoni, “io c’ero a Firenze nella finale di Coppa delle Coppe e l’ha vinta da solo”, “si vabbè ma Artis Gilmore era molto più signore e dominava uguale”, “Sugar ha spianato la strada a Danilovic”, “quella volta al Palazzo ci ha fatto dei gestacci”, “troppo individualista”, “Sugar non si discute” e altre amenità del genere, senza fine, senza una verità ben definita, senza un reale vincitore.
Ovviamente il giocatore non si può giudicare solo alla luce delle prestazioni bolognesi e italiane, anche perché sono in molti a dire che il vero Micheal Ray Richardson fu quello dei Knicks e dei Nets, in piena bagarre Studio 54, la cui distanza di un miglio dal Garden era una vera e propria camminata degli Dei, con i giocatori dei Knicks assoluti protagonisti dei post partita nel locale più di tendenza di Manhattan tra gli anni settanta e gli anni ottanta.
Micheal Ray Richardson soprannominato “Sugar” nacque a Lubbock, Texas nel 1955, ma crebbe nei dintorni di Denver, Colorado.
Il basket non era esattamente nelle sue corde nei primi anni alla Manual High School, dove faticò a trovare un posto in prima squadra. Solo nel suo anno da senior riuscì a fare valere le proprie qualità, in una squadra non certo di fenomeni, ma in cui Sugar non ha mai sentito né la fiducia dei compagni né il rispetto umano e sportivo che meritava.
Richardson fu reclutato da un college di Division I per il rotto della cuffia, grazie all’argume di David Berry, scout di Jud Heathcote, leggendario coach di Michigan State (coach di Magic Johnson nella vittoria del Titolo NCAA del 1979), che nel 1974 era il coach della University of Montana. Richardson attraversò il Wyoming e arrivò a Missoula in Montana, un posto tranquillo e isolato, che probabilmente permise a Micheal Ray di coltivare, affinare e crescere tutto il talento e l’amore per il gioco che aveva dentro, anche grazie agli insegnamenti di coach Heathcote, che dopo due anni lasciò Montana per andare a Michigan State, ma che gli diede le basi della fiducia in sé stesso e lo scettro della leadership dei Grizzlies, che nei suoi due ultimi anni a Missoula dimostrarono a tutti gli scout il dirompente talento e gli istinti primordiali per il basket.
Con Montana University nel suo anno da senior Richardson totalizzò 24.2 punti e 6.9 rimbalzi di media a partita, letteralmente esplodendo come guardia tiratrice su entrambi i lati del campo, risultando dominante ad ogni livello, facendolo diventare uno dei prospetti più ambiti del Draft NBA 1978.
A quel Draft infatti Sugar fu scelto dai New York Knicks con la quarta chiamata assoluta, dopo Mychal Thompson, Phil Ford e Rick Robey, due chiamate prima di Larry Bird, in un Draft foriero di vecchie conoscenze del nostro campionato come Reggie Theus, Rod Griffin, James Hardy, Mike Mitchell, Brett Vroman, Mike Evans, Clemond Johnson (futuro compagno di squadra di Richardson alla Virtus), Marc Iavaroni, Dave Batton, Larry Boston, Jackie Robinson, Otis Howard e John Douglas.
Sugar arrivò a New York circondato da elevate aspettative, in molti si aspettavano arrivasse l’erede di Walt Frazier, in una squadra, i Knicks di fine anni settanta, ormai logora dopo i fasti di Willis Reed, Walt Frazier e Earl Monroe, dopo il primo addio di Red Holzman e senza un vero leader su cui poter contare.
La stagione da rookie di Richardson fu onesta, senza infamia e senza lode. La stagione vide il ritorno di Red Holzman in panchina, che dopo aver lasciato la squadra in mano a Willis Reed nella stagione precedente, ne riprese le redini dopo 14 partite, concludendo comunque con un record negativo di 31-51 mancando i playoff.
La stella di quei Knicks era Bob McAdoo, dominante con 26.9 punti e 9.5 rimbalzi di media a partita ma ceduto a metà stagione ai Boston Celtics, anche se in realtà il punto debole di New York era proprio il backcourt, con un Micheal Ray poco utilizzato (Holzman era un coach vecchia scuola, i rookie DOVEVANO giocare poco, nella prima stagione), 17 minuti e 6.5 punti di media a partita per Sugar, che cominciò a prendere confidenza con la NBA, in tutti i sensi.
La stagione successiva Richardson ritornò a New York dopo una estate trascorsa a Denver con un unico obiettivo, tornare a New York e dimostrare a Holzman tutto il suo potenziale.
E così fece.
Conquistò la fiducia di Holzman, che cominciò a contare su di lui sia in fase realizzativa sia in fase difensiva.
Nonostante un’altra stagione perdente, i Knicks trovarono in Richardson un perfetto terminale offensivo, e un grandissimo ladro di palloni.
3.2 palle recuperate a partita per Sugar (conditi da 15.3 punti, 10.1 assist e 6.6 rimbalzi di media), un maestro nel giocare sulle linee di passaggio, rubare e ripartire in campo aperto, una stagione che, seppur perdente, lo ha visto essere nominato nell’NBA All Defensive Team e per la prima volta all’All Star Game, cosa che si ripeterà nelle due stagioni successive.
Con 10.1 assist e 3.2 palle recuperate Richardson divenne il terzo giocatore nella storia della NBA a essere il leader di queste due categorie statistiche nella stessa stagione. Al terzo anno nella Lega i numeri di Richardson si stabilizzarono su quelli della stagione precedente, e anche i Knicks ebbero una ottima regular season, concludendo con 50 vittorie e 32 sconfitte, ma venendo sconfitti a sorpresa dai Chicago Bulls di Artis Gilmore e Reggie Theus nel primo turno di Playoff.
Nel mentre Sugar stava sempre più diventando the King of New York, vero mattatore della vita notturna della Grande Mela.
Fu proprio nel 1981 che il Los Angeles Times uscì con un’inchiesta che sosteneva che il 75 per cento dei giocatori NBA facevano uso di cocaina.
Nessuno riuscì mai a provare completamente quelle affermazioni, ma a detta di tutti, a quel tempo the white lady era veramente il passatempo preferito di moltissimi giocatori NBA. E Micheal Ray Richardson era uno di loro.
1981-82, un’altra stagione che se ne andava per Sugar in maglia Knicks, buoni numeri per lui, 17.9 punti, 7 assist, 6.9 rimbalzi e 2.6 palle recuperate di media a partita per l’uomo da Montana, in una stagione però deficitaria in cui più di una volta risultò essere assente e abulico.
Si allontanava sempre di più la possibilità che Richardson fosse il nuovo Walt Frazier, scatenando non pochi mugugni, fischi e lamenti al Garden. Quella stagione decretò anche la fine della seconda era di Red Holzman, che dalla stagione successiva venne rimpiazzato da Hubie Brown, un coach duro che non tollerava giocatori compromessi con la cocaina.
“Non sono una persona ingenua, e nemmeno un coach ingenuo. Quindi smettetela di parlarmi di questo enorme talento, perché i demoni che lui ha fuori dal campo non gli permettono di esprimere questo potenziale con la casacca dei New York Knickerbockers”
Parole scolpite nel marmo per Hubie Brown, che una volta arrivato al training camp dei Knicks fece immediatamente la propria mossa, liberandosi di Richardson, che venne spedito ad Oakland ai Warriors.
Avrebbe dovuto essere una cosa positiva per Sugar, perché si sarebbe trasferito da una squadra perdente ad una vincente (il record dei Warriors nella stagione precedente fu 45-37), ma i numeri di Richardson scemarono clamorosamente, vuoi per problemi fisici (distorsione alla caviglia il primo giorno di training camp e mai trovata la vera condizione), vuoi per problemi con l’allenatore Al Attles (“Attles è stato il peggior coach per il quale ho mai giocato” dichiarò Richardson), vuoi per il perenne stato di subbuglio dato dall’abuso reiterato di cocaina (“ai Warriors ho vissuto il peggior momento della mia vita” disse Sugar), ma dopo sole 33 partite nella stagione fu ceduto dai Warriors ai New Jersey Nets in cambio di Mickey Johnson e Sleepy Floyd.
Al Attles dichiarò che Richardson era “l’incubo di ogni coach”, i Warriors ammisero che avevano incaricato degli investigatori privati per seguirlo e che fecero dei rapporti raccapriccianti sulle attività notturne di Sugar, e ben presto Golden State volle liberarsi al più presto di quel fardello che non riuscivano a gestire.
Di nuovo quindi di ritorno sulla East Coast e di nuovo nell’area urbana di New York.
La cocaina era però ormai un punto fermo della vita di Sugar, e nonostante tutto la scimmia della dipendenza era sempre più un problema per Richardson, proprio mentre la NBA preannunciava tolleranza zero nei confronti dei giocatori che abusavano di cocaina.
Il ritorno ad Est fu una nuova scommessa su di lui voluta dal coach dei Nets Larry Brown, che lo conosceva da quando allenava a Denver e vedeva Richardson adolescente chiedergli di assistere agli allenamenti dei Nuggets.
Le prestazioni di Sugar però non migliorarono, e Brown si decise ad accompagnarlo in una clinica per la riabilitazione, dalla quale però Richardson se ne andò indispettito.
“Non sono dipendente dalla cocaina” continuava a ripetere, “questi vogliono solo i miei soldi”.
Accadde con Larry Brown e accadde con il suo successore, Stan Albeck. Un’altra volta Richardson fallì un test antidoping e affrontò un programma di 7 settimane, e dopo soli 13 giorni se ne andò, dichiarandosi “guarito”. Ricadde velocemente di nuovo nel tunnel, e i Nets ingaggiarono Tim Bassett, un duro dal ghetto a Washington ed ex giocatore dei Nets, di varesina memoria e purtroppo scomparso nel 2018, per cercare di contenerlo. Una sorta di controllore personale.
A riguardo di quel tempo, Bassett dichiarò:
“Lo vedevo uscire di casa alle 7.30 di mattina, per andare a New York a comprare la roba. Io lo seguivo con la macchina, lo accostavo e gli dicevo ‘fermati, non andare, non andare!’ Lui si fermava, mi ascoltava, mi guardava, e mi diceva ‘ok, vado’, e scompariva verso New York”.
Nel 1983 la NBA raggiunse un accordo con i giocatori che diceva che alla terza infrazione della politica contro le droghe, il giocatore sarebbe stato radiato dalla NBA.
In quell’autunno del 1983, Micheal Ray aveva già fallito un altro test, e non gli restava altro che sottoporsi per davvero a una riabilitazione intensiva. E così fece.
Aveva avuto un’altra possibilità, l’ultima.
Ritornò veramente ripulito a metà stagione 83-84, con la voglia e la smania di dimostrare che era ancora un grande giocatore. Albeck lo utilizzò con il contagocce inizialmente, anche perché molti compagni non lo vedevano di buon occhio dopo i suoi trascorsi, ma lui rispose sul campo e anche fuori, rimanendo pulito e giocando alla morte. I Nets erano una buona squadra, e con Richardson pulito potevano essere la vera mina vagante della Eastern Conference. Si qualificarono ai playoff in sesta posizione, e dovettero affrontare i campioni in carica dei Philadelphia 76ers al primo turno. Le motivazioni per Sugar erano a mille, e ben spalleggiato dalla fida guardia del corpo Buck Williams, Richardson e i Nets servirono l’upset allo Spectrum di Philly, vincendo la decisiva Gara 5 sul campo dei campioni uscenti, con la famosa 24-6-6-6 per Sugar, 24 punti, 6 rimbalzi, 6 assist e 6 recuperi, nel suo più emozionante capolavoro.
I Nets poi vennero eliminati nel turno successivo dai Milwaukee Bucks, ma la cosa più importante per Richardson era l’essere tornato.
A quel livello.
Al massimo livello.
Al posto che gli apparteneva.
La stagione successiva fu grandiosa per lui, 20.1 punti, 8.2 assist, 5.6 assist e 3 palle recuperate di media a partita (il migliore della NBA), convocazione per l’All Star Game di nuovo e premio come Comeback Player of the Year, e tutto sembrava andare alla grande.
Stagione successiva, tutto appariva tranquillo, quando di punto in bianco una mattina nessuno ha più sue notizie. Richardson scomparve per tre giorni, ritornando accampando scuse e motivazioni poco plausibili, ma l’ufficio narcotici della NBA capì immediatamente cosa stava succedendo.
Era l’inizio della fine.
Poco tempo dopo, di ritorno da una trasferta, all’aeroporto di Newark, Richardson fece la conoscenza con l’agente di sicurezza Horace Balmer, incaricato dalla NBA di fargli un test antidoping. Seduta stante.
Poche ore dopo, il 25 febbraio 1986, David Stern tenne una conferenza stampa dove annunciava la radiazione di Micheal Ray Richardson dalla NBA, per aver fallito il terzo test antidroga.
“Dare quella notizia è stata la peggior cosa che ho mai dovuto fare nel mio ruolo da commissioner”
ha dichiarato in seguito Stern, che 11 anni dopo, nel 1997 a Parigi, in occasione del McDonald’s Open che vide protagonisti i Chicago Bulls nella Ville Lumière, si ritrovò di fronte Sugar, che gli strinse la mano e lo ringraziò.
Per avergli salvato la vita.
I due, nella tribuna di Paris Bercy chiacchierarono per parecchio tempo, e fu una scena meravigliosa.
Probabilmente a quel tempo Stern aveva deciso di dare un segnale forte a tutta la Lega, con la radiazione di Richardson, lo prese come una sorta di “esempio” per fare capire a tutti che questo tipo di attitudine non sarebbe stato più tollerato, e ovviamente Sugar ne fece le spese, immolato nel nome della lotta alla cocaina.
Richardson aveva contestato quella decisione, ma decise in ogni caso di andare avanti e di fare quello che gli riusciva meglio, ovvero entusiasmare la gente giocando a basket.
E lo fece. In quegli 11 anni prima dell’incontro con Stern, Sugar si era ripulito definitivamente, si era costruito una seconda carriera in Europa, dominando in Italia con la canotta della Virtus Bologna, e giocando molto bene in Croazia il KK Spalato, per poi tornare in Italia a Livorno e andare in Francia ad Antibes e a Cholet.
In seguito poi tornò in Italia a Forlì, per poi tornare a Livorno poi ancora ad Antibes e chiudere la carriera a 47 anni in Francia con l’AC Golfe-Juan Vallauris.
Subito dopo la radiazione, Richardson giocò nella CBA con i Long Island Knights e gli Albany Patroons, dimostrando di essere ancora un giocatore in grado di fare la differenza.
D’altronde solo un paio di anni prima aveva demolito Doctor J e giocato un All Star Game NBA, la sua capacità di dominare non era in discussione.
Arrivò infatti la chiamata dall’Europa, dalla Virtus Bologna, una squadra di alto livello in uno dei migliori campionati europei.
Una volta arrivato in Italia, l’ambientamento di Sugar fu veloce, e la sua voglia di riscatto trascinò le Vu Nere, che stavano arrivando da un momento di transizione troppo lungo.
Dopo i fasti dei primi anni ottanta e il ricambio generazionale, la Virtus non riusciva infatti a ritrovare il giusto equilibrio tra veterani e giovani, e l’arrivo di Richardson spinse decisamente sull’acceleratore del talento, a prescindere dalla chimica di squadra.
L’impatto di Sugar sul campionato italiano fu letteralmente devastante.
La sua velocità, il suo talento, la sua fame di vittoria e la sua abitudine a grandi palcoscenici fu un esplosivo mix di spettacolo che mandò letteralmente in visibilio una intera città.
Nella stagione 1988-89 le Vu Nere vinsero la Coppa Italia sul parquet di casa in finale contro la Snaidero Caserta, mentre nella stagione successiva la Virtus bissò la vittoria di Coppa nelle Final Four di Forlì, sconfiggendo in finale il Messaggero Roma, sempre con Richardson protagonista.
Il capolavoro di Micheal Ray Richardson fu in quella stessa stagione 1990 a Firenze nella finale di Coppa Delle Coppe, dove la Virtus targata Knorr sconfisse 79-74 la corazzata Real Madrid, conquistando così la sua prima Coppa in Europa.
La Sugar-mania era ormai fuori controllo a Bologna, lo spettacolo che Richardson concedeva sul campo era un plusvalore che raramente si era visto in Europa. Bologna (perlomeno la sponda virtussina) amava Sugar e Sugar amava Bologna. Ancora oggi Richardson è in contatto con parecchi amici nel capoluogo emiliano, ed in passato è stato protagonista di parecchie vicissitudini e divertenti aneddoti riguardanti il suo legame con Bologna.
Le parole di Lorenzo Sani, stimato giornalista autore del libro “Vale Ancora Tutto” (Ed. Minerva) e grande amico di Sugar, narrano questo aneddoto, che esplica alla perfezione lo spirito e l’amore per il gioco di Richardson:
“La sfida a 15 punti, massimo tre palleggi, due partite su tre, tra Alessio Cantergiani detto Ciccio e Micheal Ray Richardson detto Sugar, nacque qualche giorno prima della sera del 27 settembre 1994, notte magica in cui si consumò l’evento tra le pareti della palestra delle scuole Carracci, nei pressi di via Saragozza. Nel settembre ‘94 da Zelig, in via Portanuova, un gruppo di amici si era infilato in una di quelle discussioni di basket senza capo né coda. La tavolata era a leggera prevalenza virtussina, questo va detto per la cronaca, perché se la stessa accalorata discussione si fosse svolta in un’ipotetica tavolata a leggera prevalenza fortitudina non si sarebbe conclusa senza un minimo spargimento di sangue. Quella volta il sangue non sgorgò, ma si sfiorò la rissa. L’argomento del contendere era il dualismo Richardson-Danilovic. Il Ciccio sosteneva senza troppe metafore che con Danilovic si vincesse e con Sugar no. Questa, dal suo punto di vista, era la differenza di fondo tra i due campioni. Non si espresse esattamente in questi termini, ma il concetto suonava più o meno così. In quei giorni Richardson si trovava a Bologna, dove c’era una delle famiglie che aveva creato in giro per il mondo, reperibile, un po’ come i medici. Approfittando della confusione uscii dal locale e telefonai a Sugar. Era notte fonda, ma c’erano ragionevoli probabilità di trovarlo ancora sveglio. Gli spiegai la situazione. “Devi venire assolutamente da Zelig” gli dissi. Quando Richardson spalancò la porta a vetri di Zelig nel lontano settembre 1994 il Ciccio teneva banco da un pezzo, gli altri avevano praticamente gettato la spugna, rassegnati a dargli ragione. “Allora, Fuckin’ Ciccio, chi è meglio tra me e Danilovic?” lo affrontò senza tanti preamboli Sugar Ray col suo italiano sincopato. Il Ciccio rimase imperturbabile e non mutò opinione. Del resto è noto: non ha mai fatto passi, o cambiato idea. “È meglio Danilovic, con lui vinciamo” ribadì in faccia alla stella texana. Poi incominciò a spiegargli la pallacanestro dalla A alla Z, il perché e il percome, a mettergli bonariamente le mani addosso. Erano anni in cui si poteva sopravvivere anche senza sapere cosa fosse il pick and roll, o magari confondendo il passing game col passato di verdura: il basket era bello lo stesso. Presero a sfottersi, a spintonarsi, poi gli spintoni sovrastarono le battute di spirito, più o meno grevi. La tensione salì vertiginosamente di tono. Sugar non credeva ai propri occhi. Lì per lì pensò che quell’altro scherzasse, poi fu assalito dal sospetto che facesse sul serio. Sugar non aveva dubbi su chi fosse meglio tra lui e Danilovic. E intendeva lo Sugar dell’epoca, non quello della Nba. Aveva la stessa sicurezza del Ciccio, che la pensava in maniera opposta. “Okay” disse a un certo punto. “Giochiamocela uno contro uno, vediamo se hai le palle: se vinci hai ragione tu”. Joe Binion, il centro della Virtus che dopo il basket si è dato al bowling, fece da arbitro.
Il primo match Sugar lo portò a casa facilmente, 15-6. Diciamo che lo mise in riga e non è una battuta. Nella seconda partita il Ciccio incominciò a prenderci dalla lunga, facendo di necessità virtù, perché i testimoni oculari non ricordano una sola azione d’attacco giocata dentro l’area difesa da Micheal Ray. A sorpresa, dopo una blanda contestazione all’arbitro, Cicciò si trovò davanti, 10 a 6. L’eventualità della bella che incominciava a prendere quota. Alla fine vinse Sugar, 15-13, ma quello scampolo di partita che Richardson andò a giocarsi spalle a canestro fu uno scampolo di partita vera. I due contendenti erano scesi in campo con l’accappatoio come i pugili sul ring e in quella seconda partita se le erano suonate per davvero, sciorinando l’intero campionario dei colpi bassi”.
Se a qualcuno non fosse chiaro l’amore di Richardson per la competizione nel basket, questo esempio esprime al massimo la totale dedizione di Sugar per il gioco. Ancora nel pieno delle sue doti fisiche, ancora professionista a 39 anni, si cimentò in questa sfida incredibile al limite del surreale, con la naturalezza con cui aveva eliminato Doctor J e i Sixers campioni in carica nei Playoff NBA 1984.
Ovviamente, da buon bolognese naturalizzato, Sugar partecipò anche a un paio di edizioni del Torneo dei Giardini Margherita, dove incappò anche in una cestisticamente spiacevole vicissitudine. Facente parte della squadra dei Saxon, in penetrazione, Richardson venne clamorosamente stoppato da Paolo Zanardi altro personaggio delle minors bolognesi, tra l’altro proveniente dalle giovanili della Fortitudo, che ancora oggi non perde l’occasione per ribadire il suo exploit.
Una cosa è comunque certa.
Ovunque Richardson sia stato, ha lasciato il segno. Basti guardare ancora oggi cosa rappresenta per la città di Bologna, Basket City.
Quelle due Coppe Italia, 1989 a Bologna e 1990 a Forlì, e quella Coppa delle Coppe conquistate da assoluto protagonista in quella magica notte di Firenze dove il favorito Real Madrid è caduto sotto i colpi di Sugar, sono ricordi che rimarranno per sempre scolpiti nella storia del basket bolognese e italiano, anche e soprattutto perché di talenti così nel nostro paese se ne sono visti veramente pochi.
La vita di Sugar è stata immortalata nel 2000 in un bellissimo documentario dal titolo “Whatever Happened to Micheal Ray?” narrato da Chris Rock, che ripercorre tutte le sue tappe cestistiche fino a quel momento.
Dopo aver smesso di giocare ad alto livello alla veneranda età di 47 anni in Francia, Sugar si è scoperto un discreto coach, allenando gli Albany Patroons e i Lawton-Fort Sill Cavalry nella CBA (Vincendo due titoli nel 2008 e 2009) e nella PBL, i London Lightning nella Lega Canadese (NBL), vincendola per due stagioni consecutive nel 2012 e 2013, confermandosi anche come un buon gestore di gruppi e un ottimo stratega.
Noi che abbiamo avuto la fortuna di vederlo calcare i nostri parquet con il suo magico numero 20, magari non al massimo della sua esplosività ma ancora con classe, talento e voglia di vincere, intatti, non possiamo fare altro che andarne fieri ed orgogliosi, e sia chi lo ha avuto come idolo sia chi lo ha visto come avversario non può esimersi dal riconoscerne il suo immenso amore per il gioco.
Michael Sugar Ray Richardson è il piú grande talento mai visto dal vivo dal sottoscritto su un campo da basket
Gianmarco Pozzecco, suo ex compagno a Livorno
Vorrei ricordare le 9 partite vinte di un punto con Bob Hill in panca e Sugar che tira da distanze impensabili all’epoca. Ma soprattutto, la semifinale di ritorno a Salonicco, dove Michael mise 7 triple di fila ed usci’ con la standing ovation dei greci (che non sono proprio il pubblico più facile…). E la finale col Eeal, la vinse da solo, da grandissimo. Un genio del basket.
Sarebbe stato bello leggere di come Avv. Pirelli riuscì a portarlo a Bologna, a partire dalla sua intuizione di ingaggiarlo.
Oltre a scrivere un bell’articolo, ha anche inventato la parola “argume”, mescolando sapientemente acume e arguzia.
Immaginifico.
Io ho avuto la fortuna di vederlo a Livorno. Da allora la mia “Sugar Mania” non è mai diminuita!!
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