illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Marco Pagliariccio
16 giugno 2005.
Gara 4 di finale scudetto, la Fortitudo targata Climamio conduce per 2-1 nella serie contro una Milano catapultatasi in finale un po’ a sorpresa agli albori dell’era Armani. Il Forum si veste a festa per provare a spingere l’Olimpia verso gara 5 e la squadra di coach Lino Lardo arriva al rush finale della gara con in mano il pallino per farla davvero sua.
30” alla sirena e la Armani Jeans è avanti di 1 e con la palla in mano. Sasha Djordjevic è tornato nell’amatissima Milano da qualche mese per fare da tutor al furetto Jerry McCollough, ma se c’è da gestire un finale di questo tipo, nonostante i 38 anni e un fisico che non ne può più («Pagavo la birra al fisioterapista per farmi togliere le scarpe a fine allenamento, con l’artrosi che avevo non riuscivo a fare neanche quello gli ultimi mesi»), non potreste avere mani più sicure. Sasha riceve la rimessa, supera la metà campo accompagnato da Basile e addormenta l’azione. C’è una discrepanza di 6” ma Sale non ha alcuna intenzione di fare sconti. Ne mancano ancora una decina quando arriva il blocco di Blair, ma Basile è cagnesco nella difesa e resta aggrappato al fenomeno serbo. Sull’altro lato del campo, però, Douglas ha perso l’uscita dal blocco di Calabria, che sta sistemando i piedi per ricevere e sparare il canestro che spedirebbe tutto a gara 5. Djordjevic vede l’italiano di Pottstown e lo serve con fiducia, nonostante il suo tabellino reciti 17 punti con 4/5 da 3 in 19’ giocati e con il curriculum vitae di cui è in possesso avrebbe un chiaro diritto di prelazione. Calabria la spara sul ferro, il rimbalzo è di Basile che sembra cincischiare troppo per costruire un buon tiro con soli 6”. Ma all’ultimo sul lato sinistro del campo appare Douglas, che dopo l’amnesia difensiva si prende la responsabilità di scoccare a fil di sirena la bomba da 9 metri abbondanti che vale una stagione. Il finale di quella storia lo conoscete già.
Termina con le mani ai fianchi, mentre come paralizzato sembra neanche rendersi conto di essere in mezzo alla festa fortitudina, la carriera di uno dei più grandi giocatori europei dell’era moderna: Aleksandar Djordjevic. Un giocatore che dei canestri nei momenti più torridi di ogni gara ha fatto il suo marchio di fabbrica trafitto all’instant replay nell’ultima gara di una carriera con pochi eguali. Beffardo, non c’è che dire.
Eppure nonostante la bacheca di casa Djordjevic sia piena zeppa di trofei vinti da protagonista assoluto, il riconoscimento dello status di leggenda del basket europeo non è per nulla unanime. Quasi una rimozione forzata quella che ha voluto un’epica, quella del basket a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, nel quale i preferiti sono sempre stati Danilovic e Petrovic, Sabonis e Divac, Radja e Kukoc, solo per citarne solo alcuni. Ma Sasha non ha niente da invidiare a cotanti campioni, ci potete giurare.
Un nanerottolo sulle spalle dei giganti
Sasha è stato abituato sin da piccolo a conquistarsi le cose da solo, con testa e lucidità prima che con talento e fisicità. Neanche avere un papà leggenda del club, quel Branislav Djordjevic condottiero dell’ultima Stella Rossa capace di vincere il titolo della Jugoslavia unita prima della disgregazione, gli era bastato per ricavarsi uno spazio adeguato nelle giovanili biancorosse. «Troppo piccolo», dicevano ai tempi. E allora via verso il Partizan, la squadra che tifa sin da piccolissimo. «Ricordo un articolo di giornale con una foto di me piccolo con la sciarpa del Partizan abbracciato a mio padre con il titolo “Figlio contro padre”», rammenta Sasha al microfono di Meet the Best. La crescita impetuosa fino a sfiorare i 190 centimetri, unita a doti di leadership non comuni e la tendenza a metterla dentro quando conta fanno sì che coach Dzakovic decida di lanciarlo in prima squadra ancora 16enne. È però con uno dei discepoli prediletti di papà Bane in panchina, Zoran Slavnic, e un tale di nome Zeljko Obradovic a fare da play titolare che il giovane Djordjevic inizia a prendersi piano piano sempre più spazio. Non che papà lo incoraggi molto, anzi. Proprio da lui arriva quel perenne velo di insoddisfazione che lo spinge a voler sempre fare un passo in più. «Avevo 19 o 20 anni, avevo segnato 23 punti in una partita con il Partizan e tornai a casa euforico– dice Sasha – gli dissi “Papà hai visto la partita?”. E lui “Sì sì”. Mi aspettavo che stappasse lo champagne e mi dicesse quanto ero stato bravo. Ma niente, continuava a guardare la tv come niente fosse. Io continuavo a parlargli della partita, a dirgli di questo o quel canestro che avevo fatto, e lui niente. Dopo un po’ mi dice: “vuoi sapere davvero quello che penso?”. Io annuisco, lui spegne la tv e si mette a massacrarmi come nessuno aveva mai fatto: “La tua concentrazione fa schifo. Il modo in cui porti il tuo difensore verso il blocco è un disastro. La tua posizione difensiva sul lato debole lasciamo stare. E poi stai sempre con le braccia giù”. Mi fece capire quanta strada avevo ancora davanti e che non ci si deve mai fermare dopo ogni cosa che ci accade, anche la più buona».
Chi non sembra vederlo proprio, almeno inizialmente, è Svetislav Pesic, all’epoca selezionatore delle squadre giovanili jugoslave. Solo nel 1986 gli dà una prima chance portandolo agli Europei Under 18 a Gmunden, in Austria. È una squadra fortissima, che ha in Nebojsa Ilic e Vlade Divac i suoi terminali offensivi, con l’aggiunta dei talenti spalatini Toni Kukoc e Dino Radja e dei vari Teoman Alibegovic, Luka Pavicevic, Slavisa Koprivica e via discorrendo. Sasha deve sgomitare per trovare spazio tra così tanti fenomeni in erba, ma pian piano si ricava la sua nicchia. Per esplodere fragorosamente nella finale per l’oro contro l’Unione Sovietica, demolita per 111-87 con un Djordjevic che mostra per la prima volta quello che sa fare meglio: salire di colpi quando la posta in gioco è massima. Quel piccoletto che si sta prendendo il Partizan incanta tutti rifilando 20 punti a Vetra e soci, ma incanta più di tutti un ragazzo con il quale non è mai andato davvero d’accordo: Vlade Divac. L’astro nascente del basket jugoslavo, allora 18enne e reduce dalla prima volta in Nazionale maggiore ai Mondiali di Spagna, voleva lasciare la piccola Kraljevo e aveva la fila sotto casa con le big d’Europa a fargli la corte.
«A quell’epoca, nell’estate del 1986, Divac e Djordjevic non si parlavano per stupide ripicche da bambini– racconta Vladimir Stankovic, decano del giornalismo cestistico europeo, nella sua superba raccolta di articoli “101 Greats of European Basketball” – ma siccome Vlade era molto intelligente, disse a sé stesso: io sono un centro e ho bisogno di un playmaker. Attualmente il migliore è Djordjevic. Detto, fatto». Con l’arrivo di Divac, il Partizan fa quel salto in avanti che era mancato negli precedenti. L’intesa tra i due funziona a meraviglia e nel 1987 arriva il primo titolo jugoslavo. Djordjevic, che intanto si è preso il posto da titolare a scapito di Obradovic, è sensazionale, sempre sotto controllo, sempre lucido e glaciale nei momenti topici della gara. Ormai tutti lo riconoscono come uno dei big di quella generazione irripetibile nata tra il ’67 e il ’68, quella stessa che sta iniziando a prendersi la Nazionale dei grandi (Djordjevic, Divac, Kukoc e Radja fanno già parte della spedizione di bronzo all’Europeo di Atene) e che soprattutto si prepara ai Mondiali Under 19 che si giocano a Bormio.
Una squadra dal talento smisurato ma soprattutto con la bava alla bocca di chi vuole lanciare un messaggio al mondo intero. La truppa di Pesic rulla gli avversari uno dietro l’altro e arriva in finale dove ritrova gli Stati Uniti. Già, ritrova perché nel girone di qualificazione la Jugoslavia aveva già dato una bella lavata di capo agli americani nella famosa serata delle 11 triple di Kukoc. Stavolta però la musica è diversa. Gli USA mettono la museruola alla stella di Spalato (poi MVP della manifestazione) e la fisicità delle stelline NCAA fa male agli slavi, che all’intervallo vanno sotto di 3. Djordjevic, che di quella squadra è non solo il capitano ma l’emanazione in campo di Pesic, è furibondo. «Fui l’ultimo a rientrare– ricorda Sasha nel meraviglioso documentario su quell’impresa “250 Steps” – iniziai ad urlare contro qualsiasi persona avessi intorno. “Che cos’è sta roba? Cosa stiamo facendo? Vogliamo andare avanti così?” e così fin dentro lo spogliatoio e anche dentro. Ero arrabbiato. Con gli altri e con me stesso. Urlavo contro tutti. Poi arrivò il coach e disse: “Ok, ora tocca a me”». Pesic ci mette il carico, fa volare di tutto nello spogliatoio. E la squadra, rientrando in campo, svolta. Con Kukoc stretto nella morsa americana, la tattica è martellare la palla dentro per Divac e Radja. Sale esegue, Vlade e Dino massacrano i lunghi statunitensi. La Jugoslavia scappa via e si invola verso l’oro, che per la prima volta nella storia della competizione (ok, è solo la terza edizione) non è americano. Capitan Djordjevic sale in cima al podio affiancato dall’americano Lionel Simmons e dal nostro Nando Gentile. «Mi sembrò che il gradino più alto fosse molto molto più alto degli altri due».
Dopo un’estate così, le aspettative intorno al Partizan crescono ancora e c’è grande curiosità di capire quale può essere l’impatto dei giovani in bianconero in Coppa dei Campioni.
Risposta semplice: devastante.
Djordjevic e Divac, affiancati da Paspalj, Nakic e Pecarski, danno spettacolo in tutta Europa. Sale viaggia a oltre 16 punti di media e affina sempre di più un movimento che ormai da decenni porta il suo nome: il “Movimento Djordjevic”. Il concetto di fondo di questo movimento è quello di beffare il difensore giocando sulla frazione di secondo in cui si rilassa dopo il passaggio di uscita effettuato dal proprio uomo. Djordjevic usava spesso andare in penetrazione per poi scaricare la palla ad un compagno appostato sul lato opposto in posizione di guardia. Ma invece di fermarsi e magari andare ad occupare una posizione sul lato debole, proseguiva il taglio alle spalle della difesa ricomparendo in angolo con quel metro e mezzo di vantaggio che, per un tiratore letale come lui, significava prendere un tiro piazzato ad alta percentuale. Una giocata che sublima tutta l’intelligenza cestistica di Sasha, riportata in auge in epoca recente da un tale di nome Stephen Curry:
Tornando alla fiammante fuoriserie jugoslava, il Partizan chiude in testa il girone a otto che qualifica per le prime Final Four della storia del basket europeo, da giocare in Belgio, a Gent. In semifinale c’è un Maccabi che è andato a singhiozzo, già battuto due volte su due nei precedenti stagionali. Ma stavolta Djordjevic stecca la partita, il Partizan non trova contromisure alla furia di Kevin Magee (che chiude con 31 punti) e i grobari devono quindi rinviare i sogni di gloria. Anche in Yuba Liga non va meglio, perché il Partizan deve arrendersi in finale allo strapotere dell’emergente Jugoplastika Spalato.
La voglia di rivalsa è alle stelle la stagione successiva, che vede il Partizan declassato in Coppa Korac ma con un giovinastro di nome Predrag Danilovic che sta crescendo a vista d’occhio. La marcia dei belgradesi verso la finale è macchiata solo dall’improbabile ma inutile sconfitta al primo turno contro il Levski Sofia, poi seguono solo vittorie, ben nove consecutive. Tra Sale e il primo trionfo europeo c’è solo Wiva Vismara Cantù, che nel match di andata, nonostante i 50 punti del duo Djordjevic-Divac, vince agilmente per 89-76. Nonostante la bolgia del Pionir, non sembra semplice ribaltare i conti al ritorno contro la squadra di Riva e Marzorati, Benson e Bosa, Turner e Gilardi. E invece nel catino jugoslavo Cantù si scioglie, aggrappandosi al solo Riva (36 punti alla fine) per non naufragare. Ma il -12 dell’intervallo è già una sentenza: nel secondo tempo ancora Vlade (che chiude a quota 30) e Sasha (che si “ferma” a 21) portano la coppa sulle rive del Danubio.
Il miracolo di Istanbul
È un momento di cesura per la carriera del figlio di Bane. L’anno successivo, infatti, è costretto a restare lontano dai campi da basket, saltando gli Europei casalinghi del 1989 e il Mondiale di Argentina 1990, chiusi entrambi in trionfo dalla corazzata jugoslava, perché precettato dall’esercito jugoslavo per il servizio militare. Siamo nel pieno delle turbolenze post-caduta del Muro di Berlino e per gli sportivi balcanici ora emigrare sta iniziando a diventare qualcosa di più di un semplice sogno. I Celtics erano al tramonto dell’era Bird e, pur non finendo in mezzo a intrighi internazionali come Atlanta e Portland nel caso Marciulionis, guardavano con grande interesse alle stelle emergenti che venivano dall’Est. Grazie al lavoro sotto traccia dello scout Miso Ostarcevic, nel 1989 scelgono Dino Radja al secondo giro del draft e nell’estate 1990 danno a Djordjevic una chance al buio, invitandolo al training camp. Sale resta per quattro mesi in America, cercando di rimettersi in forma dopo un anno a pensare forzatamente a fucili e mitragliatrici. Fino all’ultimo resta in ballo per un posto in un roster che in cabina di regia vedeva solo i modesti Charles Smith e AJ Wynder. Ma con il milionario ritorno di Brian Shaw dopo l’esperienza al Messaggero Roma della stagione precedente, la dirigenza bostoniana opta per rispedire Sasha in Europa.
Al Partizan ovviamente non manca il posto per il suo figliol prodigo. La stagione del rientro non è felicissima, con i bianconeri a sbattere di nuovo contro l’invincibile Jugoplastika in patria, ma fa da trampolino verso il ritorno in Nazionale per gli Europei di Roma 1991, l’ultimo ballo della Jugoslavia unita (o quasi, vista l’assenza di Drazen Petrovic a causa della lite con Divac dopo la finale di Argentina ’90). La marcia slava è trionfale, con i “Big Three” Kukoc, Divac e Danilovic a perforare le retine avversarie Djordjevic si limita a fare il direttore d’orchestra, segnando appena 14 punti in cinque partite. Un ruolo che non sembra quello di un giocatore abituato ad essere leader.
Di quella squadra avrebbe dovuto far parte anche il suo compagno di squadra Zeljko Obradovic. Un onesto giocatore (membro, seppur marginale, della Jugoslavia sia a Seul ’88 che ad Argentina ’90) segnato da un brutto fatto di cronaca che lo vide protagonista: un incidente stradale in cui ci scappò il morto. Scontato un anno di prigione, Obradovic, che era stato prima la chioccia e poi il cambio di Sale nel Partizan degli anni Ottanta, inizia ad allenare nelle giovanili bianconere parallelamente all’impegno da giocatore. Ma poco prima di partire per gli Europei romani, per i quali coach Ivkovic lo ha convocato con la volontà di dargli il ruolo di capitano, arriva la chiamata dal presidente Radojica Nikcevic: «Lascia il basket giocato e diventa capo allenatore del Partizan per iniziare un nuovo corso». Zeke ci pensa, ci ripensa, ne parla col “santone” Aza Nikolic (che diventa il suo uomo-ombra) poi dice sì. La sfida è quella di riportare a vincere una squadra che:
- ha 21,7 anni di età media;
- non ha stranieri;
- ha perso negli anni Divac e Paspalj;
- non può neanche giocare le partite di Coppa dei Campioni a Belgrado, dopo che la Fiba ha imposto dure sanzioni alla Serbia per lo scoppio della guerra che sta scuotendo tutti i Balcani.
In più c’è da rigenerare un Djordjevic che viene da due anni così così, da sgrezzare il talento cristallino di Sasha Danilovic e da integrare i vari Nakic, Koprivica, Loncar, Rebraca e via discorrendo.
Sembrano le premesse di un disastro. E invece ne esce fuori una delle più improbabili cavalcate della storia del basket europeo: quella del “Partizan Fuenlabrada”. Già perché i bianconeri scelgono la cittadina alle porte di Madrid come campo di casa per le gare di coppa e di fatto, anche se i tifosi spagnoli pian piano prendono in simpatia i ragazzoni serbi, giocano sempre in trasferta.
Nel girone degli ottavi di finale arriva un quarto posto che vale appena la qualificazione ai quarti di finale, dove ad attendere c’è la lanciatissima Virtus Bologna. In palio il pass per le Final Four di Istanbul e per l’occasione arriva un insperato regalo dalla Fiba: la possibilità di giocare gara 1 al Pionir, anche se poi per gara 2 e gara 3 si va al PalaDozza. Il Partizan capitalizza a domicilio e va vicino all’impresa nella seconda sfida della serie, ma in gara 3 ecco la zampata: Danilovic ne mette 23 e i serbi tornano alle finali di Coppa dei Campioni dopo quattro anni.
«Sogno Istanbul, sogno di tornare a Belgrado con un trofeo in mano, il primo da capitano della squadra campione d’Europa». Djordjevic non se la vuole far sfuggire questa volta. Punta il mirino e affonda la Philips Milano in semifinale, marchiando a fuoco la partita con tre triple e 20 punti. Ma il capolavoro deve ancora venire…
Tra Sale e il trono d’Europa c’è solo la Joventut Badalona. La partita è tirata, la premiata ditta Sale & Sasha è in grande spolvero, ma i “verdinigros” sono ossi duri. A 11” dalla sirena, Tomas Jofresa punta proprio Djordjevic, lo batte in palleggio, si avventura in una selva di canotte bianche firma il sorpasso Joventut sul 70-68. Non c’è tempo per la delusione, c’è ancora tempo per rimetterla in piedi. Sale riceve la rimessa, tira dritto sul lato destro del campo attirando a sé due difensori. Il tempo ticchetta inesorabile, Djordjevic si arresta in posizione di ala, stacca da terra e sembra restarci un’infinità. La tripla che vale una vita lascia le sue mani come il dardo che trafigge il tallone di Achille quando ci sono ancora 4” sul cronometro. Ciuff.
71-70, la disperazione catalana si aggrappa alla preghiera da metà campo di Harold Pressley, ma non è ancora venuto il tempo (arriverà poco dopo) per il Joventut. Il Partizan è campione d’Europa per la prima e unica volta nella sua storia e anche se l’Mvp delle finali va a Danilovic (peraltro fuori per falli nei secondi finali del match), l’immagine del trionfo è per tutti Sasha, che per i tifosi diventa “Sale Nazionale” e da lì in avanti semplicemente Sale. «Credevo in me stesso ma nessuno mi ha preso in considerazione. Come quando giocavo con Divac e Paspalj: ero solo il nanetto buono per portare palla in una grande squadra che non ha vinto quasi niente. Poi, quando le stelle se ne sono andate, il Partizan dei giocatori anonimi come il sottoscritto e Danilovic ha vinto la Coppa dei Campioni».
Coppe e tradimenti
A soli 25 anni, Djordjevic sembra già un veterano. In realtà, però, davanti a sé ci sarebbe ancora una lunga carriera. Ma dopo il miracolo di Istanbul servono nuovi stimoli. Anche perché la favola del Partizan si sfalda, con Obradovic che accetta il richiamo delle sirene della stessa Badalona e Danilovic cambia bianconero, infilandosi quello della Virtus Bologna. E allora Sale cambia rotta, accettando la corte dell’Olimpia Milano. L’esordio in Serie A è un crescendo rossiniano. Sale inizia col freno a mano tirato, a un certo punto sembra addirittura a un passo dal taglio. Il punto più basso arriva all’ultima di andata, con Milano che sbanca Treviso in volata con Sale che si ferma ad appena 4 punti e che vive il finale di partita tutto in panchina. È la svolta: la Philips vince 13 partite su 15 nel girone di ritorno, Djordjevic cambia completamente marcia e prende in mano la squadra, portandola fino al secondo posto alle spalle della Virtus dell’amico Danilovic. «Ricordo una trasferta di Bologna in cui ci fermammo in un ristorante per pranzare prima della partita – svela Alessandro Mamoli, oggi volto del basket di Sky che di quella Olimpia era uno dei ragazzini aggregati per completare il roster – ero stato convocato, ma sapevo che non avrei giocato. Per cui mentre tutti ordinavano la pasta, io presi la carne. Anche Sale prese la carne, mi si sedette davanti e disse: “Bravo Mamo, anche tu diventerai un grande giocatore”». La previsione si rivelò sbagliata, ma che a Sale facesse bene mangiare diverso dagli altri è difficile da confutare: Milano perde a Bologna ma il fuoriclasse jugoslavo ne mette 37 con 6 assist e 5 palle recuperate.
La Philips, però, dopo un ottimo secondo posto in regular season, a giocarsi lo scudetto con la Knorr non arriva, perché si fa buttare fuori dalla Scavolini Pesaro nei quarti di finale. In Korac, invece, la marcia è trionfale. In finale la squadra di coach Mike D’Antoni se la vede con Roma. All’Eur, Djordjevic è stupendo, ne mette 29 e la Philips torna a casa con un buon +5 da cui partire tra le mura amiche. Al ritorno, è una mattanza firmata Sale: 38 punti, sei triple a bersaglio e pure 7 assist. Finisce 106-91, coppa numero 3 per il fenomeno col numero 4.
La seconda stagione meneghina di Sale è da fantascienza sotto il profilo delle prestazioni personali: i punti a gara diventano addirittura 27,1, col 46,3% da 3, 3,5 rimbalzi e 3,6 assist. Contro Montecatini alla quinta di ritorno esonda a quota 43 con 6 assist e 6 palle recuperate per un roboante 59 di valutazione. Ma Milano, nonostante durante l’estate Djordjevic si sia ridotto l’ingaggio per consentire alla società di strappare Zan Tabak alla NBA e rinforzare la squadra per dare l’assalto al titolo, si spegne sul più bello: in campionato arriva un’altra eliminazione nei quarti di finale, stavolta per mano di Verona, ma stavolta non c’è la medicina Korac a salvare l’annata, vista l’eliminazione in semifinale per mano di Trieste.
Proprio i sogni di gloria triestini, su cui soffia l’ambizione di Stefanel, lo spingono lontano da Milano. L’arrivo del blocco triestino mette in chiaro che nei piani di Tanjevic non c’è quello che si è dimostrato ampiamente uno dei migliori giocatori d’Europa. E allora ecco l’offerta di un’altra società che spera di diventare grande: la Fortitudo Bologna, che mette sul piato 2,5 miliardi di lire per tre anni per accaparrarselo e metterlo in coppia con Vincenzo Esposito in un backcourt che definire esplosivo è un eufemismo.
La Fortitudo non è ancora pronta per dare l’assalto ai vertici italiani ed europei, ma Sale, anche se ha perso la folta chioma giovanile, è ormai una certezza (20,1 punti, 3,5 rimbalzi, 3,2 assist) e con la benzina messa nel serbatoio nella sua terza stagione italiana torna in estate a vestire la canotta della Nazionale jugoslava, riammessa in extremis alle competizioni internazionali per gli Europei 1995 in Grecia. Certo, non ci sono più sloveni, bosniaci e soprattutto croati ma la Jugoslavia resta una potenza con pochi eguali. La marcia slava in terra ellenica non conosce ostacoli fino alla finale, dove ad attendere c’è una Lituania che in semifinale ha buttato fuori la Croazia evitando uno scontro fratricida che, in tempi di guerra, avrebbe assunto un significato un pelino particolare.
È una delle gare più spettacolari nella storia degli Europei e per l’occasione Djordjevic sfodera ancora una volta una delle sue performance “da finale”. Una tripla, un’altra ancora, e poi di nuovo. Saranno nove su 12 tentativi a fine gara, con 41 punti scritti sul tabellino, roba che avrebbe steso il 99% delle avversarie. Ma non la Lituania, che trova in un Marciulionis da 32+6+6 l’antidoto per tenersi aggrappata alla partita fino alla fine. I baltici mollano la presa solo nei minuti finali, quando qualche fischio dubbio li manda fuori di testa, al punto da decidere di lasciare il campo e non completare la gara. Sarebbe una facile vittoria a tavolino per la Jugoslavia, peraltro la seconda in quell’Europeo dopo la rinuncia della Bosnia di sfidare gli ex compagni per i noti motivi geopolitici. E invece interviene Sale in prima persona. Djordjevic la vuole vincere sul campo e allora raggiunge la panchina lituana, abbraccia Marciulionis e gli dice qualcosa all’orecchio. Marciulionis per tutta risposta si alza e richiama la squadra in campo. Non servirà granché alla Lituania per ribaltare le sorti del match, ma Sale si dimostra campione e uomo vero, una volta di più.
[Dal minuto 4:00]
Eurobasket consegna definitivamente Djordjevic all’empireo dei grandi del basket continentale e con l’arrivo di Myers a rimpiazzare Esposito la Fortitudo sogna di nuovo in grande. Sale parte a razzo, complice l’assenza di Carlton per infortunio, e dopo otto giornate è a 32,0 punti di media tirando un insensato 70% da 2, un roboante 49% da 3 e toccando quota 48 punti nella vittoria su Varese. La F viaggia spedita e si catapulta fino alla prima finale della sua storia, peraltro anche da favorita contro una Milano capace di sovvertire pronostici su pronostici arrivando all’atto conclusivo partendo dal quinto posto in regular season. Proprio quella Milano (targata Stefanel) che lo aveva scaricato due anni prima, la città che lo aveva stregato. La Teamsystem vince gara 1 a casa propria, ma è uno squillo solitario: in gara 2 Milano impatta e poi la zampata di Bodiroga nel finale di gara 3 di fatto porta lo scudetto lontano da Bologna. Una delusione enorme che spinge il patron fortitudino Seragnoli a stracciare l’ultimo anno del contratto di Djordjevic per puntare sul ragioniere John Crotty.
Col senno di poi, un disastro che la metà bastava.
Pace e guerra
A 29 anni e dopo un’Olimpiade di nuovo da protagonista, seppur la sua Jugoslavia non sia riuscita a scalfire il dominio del Dream Team III, i tempi per provare il salto in NBA sono non solo maturi, ma forse addirittura passati. D’altro canto, dopo l’esperienza dimenticabile coi Celtics quello americano sembrava un capitolo chiuso a doppia mandata. E invece arriva la chiamata da Portland e stavolta con un contratto garantito per essere, almeno come idea, il cambio di Kenny Anderson. Sale è così convinto dell’esperienza NBA da firmare per un anno al minimo salariale, che all’epoca diceva 247.500 dollari: praticamente un quarto di quanto guadagnava in Europa.
Una caviglia in disordine lo tiene ai box nel primo mese di stagione regolare, ma una volta a posto la sua esperienza tra i pro dura solo tre settimane, quelle che vanno dal non entrato del 26 novembre 1996 nella sconfitta all’overtime dei Blazers a Houston a un’altra partita da 48’ di panca, quella contro i Sonics del 18 dicembre. In mezzo solo 8 partite e 61 minuti giocati per un totale di 25 punti segnati. C’è poco da fare: coach Carlesimo non lo vede proprio. Desolante per una stella del suo livello. «Mi sento un po’ preso in giro. Sono tutte brave persone, ma il coach non mi parla. Pensereste che dovrebbe parlare con i giocatori, specialmente con il play della sua squadra che viene da un’altra cultura. E invece niente».
Dieci giorni prima della sua ultima recita a Portland, a Bologna sponda Fortitudo viene tagliato colui che doveva esserne l’erede: Crotty saluta senza lasciare rimpianti dopo il match dell’8 dicembre 1996, ma il clamoroso ritorno di Sale non si concretizza. C’è il Barcellona di Aito ad aspettarlo. Il suo biglietto da visita lo appoggia sul tavolo dei quarti di finale di Coppa del Re contro il Real Madrid. Una partita pazzesca, che finisce solo dopo due overtime: Arlauckas pareggia col tap-in sulla sirena dei regolamentari, Sale impatta di nuovo alla fine del primo supplementare, poi la chiude sigillando il 115-110 finale a modo suo, col punto numero 30 di una partita in cui ha messo 15 punti tra gli ultimi 2’ dei regolamentari e i 10’ dei supplementari:
I blaugrana pagheranno quello sforzo perdendo a sorpresa in semifinale contro Caceres, ma la stagione è comunque più che positiva, con l’Eurolega che sfugge solo in finale al cospetto dell’Olympiacos e il titolo spagnolo portato a casa con un playoff a percorso netto.
Casualità vuole che Barcellona, nel ’97, sia anche la sede degli Europei e Djordjevic, ovviamente, è in plancia di comando per la favoritissima Jugoslavia campione in carica. Sale è il lider maximo della squadra, quello che arma le mani di Danilovic, Rebraca e Bodiroga e che si mette in proprio solo se necessario. I suoi 29 punti, con un secondo tempo da fantascienza, non bastano per salvare i suoi dalla splendida Italia del girone di qualificazione e la Jugoslavia, pur facendo il suo dovere, non sembra il carrarmato che tutti si aspettano fino alla tesissima sfida contro i nemici della Croazia. Il match è tiratissimo, i croati sorpassano dalla lunetta a 5” dalla sirena sul 61-62. Ma purtroppo per loro va in scena un film già visto cinque anni prima…
[Somiglia a qualcosa, vero?]
Quella vittoria cambia la Jugoslavia, che da lì in avanti non sbaglia più un colpo, trafiggendo in finale quella stessa Italia che l’aveva battuta pochi giorni prima. Djordjevic chiude con cifre tutto sommato “normali” (12,6 punti, 4,4 assist ma un roboante 53,3% da 3), ma il titolo di MVP che due anni prima gli aveva soffiato Marciulionis stavolta non glielo leva nessuno. È il sigillo meritato sulla lunghissima militanza in Nazionale che finirà un anno dopo con l’oro mondiale di Atene.
Dismettere la canotta della sua Nazionale non significa però spezzare il legame con la sua terra, anzi. Seppur a differenza di altri suoi connazionali abbia sempre cercato di tenere la politica fuori dal suo essere campione dello sport, nella primavera del ’99 per la prima volta Sale usa la sua posizione di atleta di successo per lanciare un messaggio di grande impatto.
Il Barcellona ha perso malamente la gara di andata della finale di Coppa Korac contro l’Estudiantes, che a Madrid ha calpestato i blaugrana per 93-77. Per Djordjevic è un momento delicato non solo sul campo, ma anche fuori. Sono i mesi nei quali la Nato bombarda a tappeto la Serbia per costringerla a tornare al tavolo delle trattative dopo lo scoppio della guerra in Kosovo. «Quando sono cadute le prime bombe, volevo tornare in Serbia, ma i miei genitori dicevano “resta lì, da lì puoi aiutare di più con la tua influenza– ricorda Sasha nel 2018 presentando la mostra fotografica “Heroes of Sports”, dedicata ai grandi atleti serbi che hanno cambito la storia dello sport spagnolo – noi, i giocatori serbi in Spagna, stavamo giocando senza nome sulle maglie come segno di protesta e tutte le squadre ci hanno sostenuto in questo messaggio. Alla vigilia del ritorno della finale di Korac, la società mi disse che avrei ricevuto un premio speciale se avessimo vinto il trofeo».
Il 31 marzo 1999 al Palau son in 7.300 a spingere il Barca verso un’impresa senza precedenti: mai nessuna squadra ha ribaltato un differenza canestri negativa così pesante in una finale europea. Ma Sale ha qualcosa di diverso negli occhi in quella giornata così speciale. Il serbo parte dalla panchina, ma quando è in campo azzanna la partita con una furia che non gli è consueta. Segna, fa segnare, è presente pure in difesa, non certo la specialità della casa. Sono suoi i 7 punti in fila che lanciano il Barca verso il sorpasso sul finire del primo tempo e all’intervallo lungo è già +21 sul 43-2. In realtà la gara sarebbe ancora in equilibrio visto il +16 “estudiantil” dell’andata, ma lo scoglio azzurro non può nulla per arginare il mare blaugrana. Djordjevic sale fino a 18 punti e mette il suo marchio a fuoco sul clamoroso 97-70 che porta la coppa nella bacheca del Palau.
E il premio partita? Uno striscione con tre semplici parole, preparato dalla società e messo nelle mani di Sale, che lo urla al mondo intero.
Anche il percorso in Catalogna è però al capolinea. Nonostante il rapporto con la società sia solido, la dirigenza blaugrana, su spinta di coach Aito, decide di non prolungare il ricco contratto di Sale (che aveva intascato 3,3 milioni di dollari per le precedenti due stagioni e mezza, a onor del vero…) e allora fa un passo che in Spagna non è mai banale: quello di accettare la corte di Sergio Scariolo, già suo allenatore ai tempi di Bologna, e sbarcare a Madrid.
La Liga 1999/2000 vive, al solito, sul duello Barca-Real. I catalani chiudono la regular season in vetta, i blancos al secondo posto e, inevitabilmente, le due finiscono per giocarsi il titolo in finale. La serie è combattuta, si arriva a gara 5 al Palau sul 2-2 e col Barcellona che, giocando in casa, sembra ovviamente avere dalla sua un piccolo ma importante vantaggio. I padroni di casa scappano, ma il Real ribalta completamente la gara nella ripresa sospinta dai fratelli Angulo e, tanto per cambiare da un Djordjevic che segna i suoi 10 punti finali tutti negli ultimi 6’.
Il Real torna a vincere la ACB a sei anni dall’ultima volta, tutta la squadra esulta, ma per Sale quella vittoria ha un sapore particolare e non perde l’occasione di dimostrarlo: il serbo si divincola dalla presa dei compagni e si dirige verso il centro del campo con gli indici alzati al cielo, sfidando apertamente tutti gli 8 mila del Palau che un anno prima lo acclamavano come loro eroe. «Dentro quel gesto c’era tutta la rabbia che avevo represso quando seppi che Aito non mi volle confermare: ci ho messo le palle per dire loro “sono ancora qui”». Nacho Rodriguez, suo ex compagno di squadra, non la prende proprio benissimo, i due vengono alle mani, divisi appena prima che scoppi il pandemonio. «Nacho fu solo un opportunista, perché sapeva che avevo fatto lo stesso a Madrid quando contro il Real vincemmo a gara 5».
L’addio
Sono passati 17 giorni dalla beffa di Ruben Douglas, dalle braccia sofferenti poggiate ai fianchi, dallo sguardo gelato dalla sconfitta più atroce. A Madrid non era finita troppo bene, a Pesaro anche peggio. Ma Sale oggi è sereno: ha annunciato il suo ritiro dal basket giocato e in poco più di due settimane ha radunato a casa sua, il Pionir, il meglio del basket europeo. Ci sono tutti, ma proprio tutti: Danilovic e Divac, Bodiroga e Kukoc, Jasikevicius e Sabonis, Riva e Radja. Pure Dino Meneghin, che aveva rischiato di perdere l’aereo. Il giorno prima aveva avvertito che non sarebbe riuscito ad esserci perché non c’erano più voli disponibili. «Non ti preoccupare, ti mando un aereo privato. Tu non puoi mancare», è la risposta di Sale. Dino è arrivato all’ ultimo momento ed è entrato in campo senza passare dallo spogliatoio. E che spogliatoio.
In ottomila assiepano il tempio laico di Belgrado, polverizzando i biglietti in un giorno (il ricavato è andato all’Unicef, di cui Djordjevic è ambasciatore nel mondo). Si gioca, si scherza, si premiano i grandi idoli dell’infanzia di Sale: Dalipagic, Kikanovic, Slavnic, mentre a Meneghin Sale riserva uno scherzo. Con Dino, in campo entra Grbovic, quello che nella famosa rissa all’Europeo dell’83 lo minacciò con le forbici, presentatosi in campo con un gigantesco paio di forbici di cartone.
Il tempo sta scadendo, è l’ora dei saluti. Djordjevic torna a metà campo con una maglietta evocativa: “The game is not over”, recita la t-shirt. «Sasha, ho fatto l’impossibile per partire da Barcellona, mentre stavo costruendo la nuova squadra, per festeggiare il tuo addio. Se l’anno prossimo giochi ancora, giuro che ti ammazzo!», lo minaccia Zoran Savic, che in quei giorni è gm del Barcellona. Qualcuno sogna davvero la retromarcia. Ma la partita stavolta è davvero finita.
Anzi no: ne sta per iniziare un’altra.
Brividi… magnifico articolo per quello che è stato realmente uno dei migliori 3 playmaker europei di sempre. Grazie!
Articolo profondo e coinvolgente, spero di leggerne sempre più di articoli così!