grafica di Anna Iannucci
articolo di Marco Pagliariccio
Una Eurocup appena alzata con sotto braccio il trofeo di MVP, piogge di triple su tutti i parquet d’Europa, una carriera luminosa che si staglia davanti agli occhi, una bella fidanzata con la quale guardare ad una vita insieme. A 25 anni, la vita sembra sorridere a Scottie Wilbekin, nuovo eroe della nicchia verde di Istanbul, quella targata Darussafaka.
Un miraggio. O forse no. Un lustro fa tutto questo non sembrava così scontato.
Se la vita è per ognuno di noi piena di incroci pericolosi, di scelte da non sbagliare, di slinding doors, il nuovo Principe del Bosforo la sua strada l’ha trovata scavando nel suo io alla ricerca della forza di fermarsi, fare retromarcia e non commettere tre volte lo stesso errore.
Già, tre. Perché due non bastavano ancora.
Rewind. Autunno 2012. Dopo due anni a fare lo stopper difensivo alle spalle del talentuoso Erving Walker (fugacemente visto poi anche in quel di Veroli), coach Billy Donovan decide di affidare a Wilbekin le chiavi del team. È figlio di un suo vicino di casa a Gainesville, pastore e coach di una piccola high school proprio nella cittadina dove sorge il campus di Florida University. Un ragazzo per bene, cresciuto giocando coi ragazzi più grandi e che tiene così tanto a far parte dei Gators al punto da fare di tutto pur di diplomarsi con un anno di anticipo per sbarcare nel college dei suoi sogni: quello della sua città. Riuscendoci.
Già all’high school fiuto e cojones non mancavano
Non è il talento più puro della nazione, ma è perfetto per le necessità del sistema dell’attuale coach dei Thunder: regista ordinato, difensore maniacale e pazienza se, un paradosso col senno di poi, il tiro da fuori è ancora intermittente. L’8 novembre 2012, alla vigilia del season opener contro Georgetown che dovrebbe sancirne la prima da generale in campo dei Gators, la prima scossa: Donovan annuncia la sospensione a tempo indeterminato di Wilbekin per violazione del regolamento interno. “Scottie è un bravo ragazzo che ha fatto alcune scelte che non gli posso far passare lisce”, dice l’attuale coach dei Thunder senza entrare nel merito delle motivazioni che hanno portato al provvedimento. Un cartellino giallo, perché Scottie resta fuori per tre partite e poi si prende il posto che gli spetta: 9,1 punti col 51% da 3 e il 36% da 3, 5,0 assist e soprattutto una stagione che culmina nell’accesso al tabellone Ncaa con il seed numero 3. Bene, molto. Ma non al punto da rinverdire i fasti della squadra di Al Horford, Corey Brewer e Joakim Noah che completò il back to back nel 2006 e 2007. La corsa si ferma in Elite Eight contro la Michigan di Trey Burke (“l’unico giocatore che ho affrontato al college e non sono riuscito neanche a vedere”), Nik Stauskas e Mitch McGary e con tre delle star della squadra, Erik Murphy, Kenny Boynton e Mike Rosario al capolinea del loro quadriennio da Gators, l’estate 2013 è quella che dovrebbe dare a Wilbekin pieni poteri sul futuro di un team che ha voglia di rinverdire i fasti del recente passato.
Ma le cose non sembrano andare esattamente in quella direzione.
Il 10 giugno 2013, appena sette mesi e due giorni la prima volta, Wilbekin viene di nuovo sospeso a tempo indeterminato per violazione del regolamento del team. Doppio giallo, cartellino rosso.
“Gli ho detto: senti Scottie, non siamo fatti così qui e non andremo avanti in questa maniera – rivela il coach – e sai cosa? Se non sei d’accordo con la sospensione e saltare alcune partite e pensi di andartene, stando fermo un anno, per me va bene. Non voglio fare nulla per farti del male come persona, ma ci siamo passati diverse volte su queste situazioni con te e hai sempre preso delle pessime decisioni. Quello che abbiamo fatto finora non ha funzionato”.
Davanti a Scottie si parano due strade: andarsene altrove, verso un altro college dove completare il percorso accademico perdendo però un anno, oppure iniziare a rigare dritto. Ma per davvero. Anche i genitori, papà Svend compreso, si schierano dalla parte di Donovan. “Eravamo molto delusi e glielo abbiamo detto subito – racconta a Espn il padre dell’astro nascente del basket europeo – gli ho detto che avrebbe dovuto risolvere la cosa da solo, che avrebbe dovuto scegliere cosa fare della sua vita da solo. È stata una brutta situazione per tutti noi, ma credo che abbia dovuto guardare molto dentro di sé. Gli ho detto che non lo avrei aiutato in questo processo, non avrei chiamato allenatori, non avrei chiamato per visitare dei campus. Se avesse voluto prendere altre strade, avrebbe dovuto farlo da solo”.
Da solo, senza la possibilità neanche di allenarsi con gli amici con i quali ha diviso la propria vita per tre anni, sul punto di buttare via una carriera, con le persone più importanti della propria vita che ti voltano le spalle. Lasciarsi andare poteva essere molto più di un’opzione. “E’ stato orribile– ricorda Scottie di quel periodo – è stato il punto più basso della mia carriera e quando sei così in basso capisci chi sta dalla tua parte. Mi sentivo in colpa per la mia famiglia e i miei compagni”.
Fare armi e bagagli e lasciare per la prima volta quella Gainesville che aveva rappresentato il suo mondo per vent’anni poteva essere la soluzione da un lato più dura, ma anche quella più facile per non affrontare i propri errori, schivandone le conseguenze. Ma riconquistare la fiducia della sua famiglia, dei suoi compagni e di un allenatore che è come un padre è la molla che lo spinge a restare.
Dopo qualche giorno, Scottie prende le sue decisioni: per prima cosa lascia il campus, tornando a vivere a casa con i suoi genitori. Poi chiama coach Donovan e si mette a sua completa disposizione: vuole riprendersi ciò che aveva ed è pronto a tutto pur di farlo. L’allenatore dei Gators gli impone una disciplina ferrea per tutta l’estate, con sedute di atletica alle 6 del mattino e shootaround alle 11 di sera. Il percorso continua fino ad autunno inoltrato, quando viene riammesso ad allenarsi con la squadra, senza però poter tornare davvero in campo. È l’ultima prova che gli chiede Donovan: aiutare i suoi compagni a preparare le partite contro avversari contro i quali non si sarebbe potuto misurare sul parquet. “L’ho usato per avere la squadra pronta coloro che si sarebbe poi trovati davanti– spiega Donovan a OnlyGators.com– per lui è un modo per essere comunque pronto a cosa facciamo in campo”. Cinque partite, le prime della stagione 2013-2014, e anche l’esame finale è superato: Scottie è abile e arruolato e rientra il 25 novembre nel facile successo contro Jacksonville, dimostrando di essere un altro giocatore. Ma prima di tutto un altro uomo.
Se Florida era stata già un team solido negli anni precedenti, con un core di ottimi giocatori come Patric Young, Casey Prather, Dorian Finney-Smith, Wille Yeguete e Michale Frazier II, la svolta di Wilbekin è il plus che porta i Gators ad un livello superiore. “E’ maturato molto, ha una leadership più vocale ora ed è una persona più costante sia in campo che fuori”, notava Yeguete alla vigilia di un torneo NCAA, quello del 2014, cui gli alligatori si presentano con il seed n. 1 ed il titolo della SEC conquistato senza perdere alcuna partita. Ah, ovviamente Wilbekin è giocatore dell’anno della conference, solo il 2° Gator nella storia a prendersi il riconoscimento: a precederlo solo l’ex compagno di squadra Chandler Parsons.
Con tali premesse, Florida si affaccia alla March Madness con tutte le carte in regola per provare a riportare a Gainesville il titolo nazionale. La truppa di Donovan marcia senza soste fino alle Final Four, dove però accade l’imponderabile. Sulla strada dei lanciatissimi Gators si para UConn, spintasi fino ad Arlington nonostante una testa di serie numero 7.La chiave del match è proprio la sfida tra le due point guard che hanno dominato la stagione collegiale: Scottie Wilbekin e Shabazz Napier. Scottie ha patito l’unica sconfitta della sua stagione nella precedente sfida di tre mesi prima, decisa da una magia a fil di sirena dell’attuale vice Lillard e vuole cancellare l’onta. Ma il lieto fine in questa storia di andata e ritorno dall’inferno è ancora presto per essere scritto: il regista dei Gators, attanagliato dai crampi, stecca la partita da non steccare (4 punti con 2/9 dal campo, 0 assist e 3 palle perse, due delle quali messe nelle mani del diretto avversario) e trascina a fondo con sé il resto del team, escluso dal nuovo scontro con quella Kentucky già stroncata in finale di conference. “Non ho guardato nemmeno la finale, dopo una stagione così avevo bisogno di staccare la spina e stare un po’ con gli amici e la famiglia”, confessa qualche tempo dopo lo stesso Wilbekin mentre già mette a fuoco la nuova sfida: la NBA.
Le etichette purtroppo sono difficili da togliere una volta appiccicate addosso. Ti si incollano in fronte in un attimo, non si tolgono neanche a raschiarle.
Finito fuori dal draft 2014 nonostante le qualità non manchino di certo, lo testano prima i Grizzlies e poi i 76ers, ma senza particolare convinzione. E allora l’ormai ex Gator non può altro che fare i conti con la realtà: la NBA non lo vuole, meglio emigrare. Ma non con direzione Europa, bensì Australia: i Cairns Taipans gli mettono la squadra in mano per dare l’assalto al titolo della terra dei canguri. Ma Scottie non la vede come una bocciatura, bensì come un’opportunità: sceso dall’aereo e firmato il nuovo contratto, la prima cosa che fa è dirigersi in palestra e mettersi al lavoro, come aveva promesso l’estate prima a coach Donovan. “Sono molto motivato per fare bene qua: voglio vincere il campionato”, afferma ancora in pieno jet-leg. I Taipans non sono molto accreditati, ma l’uomo di Gainesville non lo sa e fa quello per cui ha programmato la sua permanenza: crescere e vincere. Cairns chiude al primo posto in regular season e Scottie è MVP e Defensive Player of the Year della squadra viaggiando a 15,2 punti, 3,7 rimbalzi e 4,3 assist a partita, Dando anche lezioni di ballo di un certo livello:
Peccato che ancora una volta il finale sia amarissimo: persa gara 1 di finale contro i New Zealand Breakers, in gara 2 è proprio Wilbekin a siglare dalla lunetta il pareggio dei suoi con solo 1,3 secondi da giocare. Ma la fortuna gli gira ancora una volta gira le spalle:
La stagione australiana finisce a marzo e quindi per Scottie c’è tempo per volare in Europa a farsi conoscere indossando la maglia dell’Aek Atene, ma il chiodo fisso è la NBA. Passato di nuovo attraverso le forche caudine delle Summer League di casa, quella di Orlando, con la maglia dei Magic, ancora una volta nessuno sembra prenderlo davvero in considerazione per uno spot nei 15, nonostante le prestazioni estive siano di assoluto livello. Le turbolenze degli anni al college riverberano ancora dalla Florida ai quattro angoli degli Stati Uniti. “Penso che sia colpa di quello – conferma chiaramente Scottie – anche se coach Donovan ha cercato di far sapere al mondo che non sono una cattiva persona o che non ho problemi caratteriali, l’etichetta mi è restata addosso comunque. È da allora che cerco di riparare per i miei errori”. Il telefono non squilla e allora, il 3 luglio 2015, la decisione: tornare in Australia, tenendosi una NBA escape in caso dalla Summer League di Las Vegas esca fuori qualcosa di buono. Sono di nuovo i 76ers a testarlo, come un anno prima, e i progressi mostrati stavolta paiono dissipare le nubi: il 24 luglio rescinde coi Taipans ed entra nel Process di Sam Hinkie firmando un quadriennale parzialmente garantito.
Guardando oggi con gli occhi strabuzzanti le gesta di Ben Simmons sembrano lontanissimi i tempi in cui i 7ers dovevano scegliere la propria guida tra TJ McConnell, Tony Wroten, Isaiah Canaan, Pierre Jackson e, appunto, Wilbekin. Non una concorrenza irresistibile, insomma, per prendersi un posto stabile nelle rotazioni di coach Brett Brown ed un playmaker 3&D da spendere in uscita dalla panchina sembrava potesse far comodo. Tanto più che in preseason il figlio di Svend mostra ottime cose, comprese una partita da 21 punti contro gli Wizards ed il game winner contro i Cavs dopo un match nel quale era entrato solo a 3’ dalla sirena:
Insomma sembra fatta. Ed invece arriva una nuova doccia fredda: alla vigilia dell’inizio della stagione, il quadriennale firmato un paio di mesi prima finisce nella spazzatura.
Game over, again.
E allora via lontano, laddove quelle etichette appiccicate addosso non saprebbero neanche come decifrarle. Laddove conta cosa fai oggi, chi sei oggi. In Turchia, perché no. Al Darussafaka, assolutamente. Una società che ha anch’essa un’etichetta da togliersi: quella della squadra perdente, dato che non vince un titolo dal 1962. Ci mette pochi giorni ad accettare la sfida Scottie: una settimana dopo aver lasciato la città dell’Amore Fraterno, eccolo sulla rive del Bosforo per confrontarsi col meglio del basket europeo. Ma rinunciare ai grandi amori è dura, è come lasciare andare un pezzo di sé. E allora quando coach Donovan, nell’estate 2016, lo chiama alla Summer League per i suoi Thunder ovviamente il figliol prodigo corre e di fretta. Sapendo che lui solo può dargli una chance sapendo davvero quanto vale. Stavolta, però, Wilbekin non impressiona e allora il ritorno al neroverde è la conseguenza più logica. Anche perché nel frattempo è arrivato un tale di nome David Blatt che ha bisogno di una sfida del genere dopo l’amarezza post-Cavs: plasmare una squadra a sua immagine e somiglianza per portarla nel gotha del basket europeo. Blatt fiuta le qualità di Scottie e gli dà quella fiducia che solo Donovan gli aveva saputo dare a pieno. In tandem con Brad Wanamaker nel backcourt, il Dacka costruisce partita dopo partita una sorprendente qualificazione ai quarti di finale di Eurolega, segnalandosi come una dei cecchini più pericolosi d’Europa quando entra in striscia: il 22 marzo 2017 al Cska ne rifila addirittura otto triple (su sole nove tentate) in una sera, quinta miglior prestazione di tutti i tempi e la migliore dalle 10 di Goudelock in Fenerbahce-Bayern del novembre 2014 (record all-time ancora imbattuto).
Bene, bravo, ma di vincere ancora non se ne parla. E con lo sponsor Dogus a preferire il faraonico progetto del Fenerbahce, il Darussafaka nell’estate 2017 è costretto a fare scelte dolorose, lasciando andare tutti i suoi prezzi pregiati. Tranne due: David Blatt e Scottie Wilbekin. “E’ molto competitivo e ha capito l’importanza del lavoro per raggiungere ciò che desidera”, se lo coccola il santone israeliano-americano. “Lui e Billy sono i migliori coach con i quali ho lavorato, posso dirlo?– si chiede il play neroverde – sono entrambi molto bravi a fare aggiustamenti in corsa in partita e li rispetto entrambi per quello che fanno. Ma prima di tutto mettono i loro atleti al primo posto. Mi sento fortunato ad averli incrociati sulla mia strada, grazie a loro le cose sono migliorata per me. Ciò significa essere fortunato, giusto?”.
Essere leader non ha mai spaventato Scottie, come ai tempi di Florida. E questo Darussafaka somiglia tanto a quei Gators che stava portando oltre l’immaginabile: nessuna stella, tanti buoni giocatori con compiti bene precisi sul parquet, un coach dal grande carisma e dalla grande capacità di plasmare il suo gioco in base al materiale umano a disposizione. E ovviamente un leader in campo: Wilbekin. Senza l’ingombrante presenza di Wanamaker, ha settato il suo gioco ad un livello ancora più alto, ergendosi a faro per i suoi compagni. Una capacità di salire di colpi in parallelo all’alzarsi della posta in gioco che, nella stagione attuale, ha avuto del fenomenale. Nei playoff di Eurocup, Wilbekin ha veleggiato a 25,8 punti di media col 53% da 2, il 48% da 3, 4,8 assist, 7,7 falli subiti e 29,8 di valutazione. Con prestazioni di tipo questa in gara 2 di semifinale contro il Bayern Monaco:
I 41 punti sono 2° prestazione all-time in Eurocup
E la piacevole consuetudine di decidere le partite quando la palla pesa di più, come nel finale di gara 1 di finale contro il Lokomotiv Kuban:
“Pensavo davvero avessimo grandi chance di vincere la coppa e più andavamo avanti e più mi innervosivo a pensare di poterla perdere. E più andavamo avanti e più mi innervosivo a pensare di non riuscire a raggiungere quello che potevamo raggiungere. Questo sentimento ha contributo a farmi restare sempre concentrato sull’obiettivo: volevo solo vincere, capito?”.
E finalmente ce l’hai fatta, Scottie.