scritto da Andrea Cassini
1972: è la seconda partita della stagione di college basketball sulla costa ovest degli Stati Uniti, nella Conference che all’epoca si chiamava Pac-8. Gli Oregon Ducks sono reduci da un’annata disastrosa e hanno un nuovo allenatore, Dick Harter, che ha promesso di riportare la squadra ai fasti di un tempo. Con “un tempo” ci riferiamo a una specifica annata, al singolare: era il 1939 e Oregon conquistava il torneo NCAA inaugurale, che è tutt’ora l’unico titolo nazionale nella bacheca dell’Università.
L’impianto di casa si chiama MacArthur Court, per gli amici Mac, per quelli ancora più intimi The Pit, ed era vecchio già nel 1972. Gli ospiti sono i Wichita State Shockers, diversi gradini più in alto nelle graduatorie. Dalla palla a due alla sirena finale, quaranta minuti che cambieranno il modo di vedere la pallacanestro di una nazione intera. I ragazzi di coach Harter corrono a perdifiato, pressano a tutto campo, mettono le mani addosso agli avversari fino ai limiti concessi dagli arbitri – e spesso anche oltre, si gettano su ogni pallone come fosse quello decisivo. Il giocatore di riferimento è Ron Lee, prodigio di quei Boston Six che pochi mesi prima avevano rubato la scena dei tornei estivi sulla East Coast: lo vedremo a Phoenix, Detroit e persino in Italia. Insieme a lui Ernie Kent, Stu Jackson, Greg Ballard, ma in quella squadra sarebbe sbagliato parlare di stelle. Vige una democrazia à la Sergente Hartman di Full Metal Jacket, dove conta solo il risultato, da strappare con le cattive maniere se necessario. Il tabellone condanna Wichita State 92 a 72 e il coach degli Shockers, Harry Miller, è furioso. Se la prende prima con gli arbitri, poi con chiunque gli capiti a tiro, compresa la stampa. È rimasto disgustato dal carattere aggressivo dei Ducks, una strategia che ai suoi occhi portava indietro la pallacanestro di trent’anni. “Sembravano i piloti kamikaze della Seconda Guerra Mondiale”, si sfoga coi giornalisti.
Dall’altro lato del corridoio il coach di Oregon, Dick Harter, ascolta tutto, prende nota e sorride. Odiava il nickname “Ducks”, non incuteva abbastanza timore, e il collega gli ha appena suggerito una fantastica alternativa. “Da oggi in poi”, ordina, “i miei ragazzi dovrete chiamarli Kamikaze Kids”.
Secondo la tradizione, fu in quel giorno che nacque la leggenda del Mac Court. Le idee tattiche di coach Harter non sortirono i successi sperati (3 apparizioni al torneo NIT, nessuna sul tabellone NCAA), ma per sei anni di fila l’impianto registrò il tutto esaurito – più qualche centinaio di persone fatte entrare di senza biglietto. Le squadre ospiti venivano accolte da quattro pareti di gradinate strette, murate di folla, che cadevano in picchiata sul campo. The Pit, la fossa. Gente che lanciava freesbee, ragazzi vestiti da Lone Ranger che cavalcavano un manico di scopa intorno al parquet. L’intera struttura tremava: in parte per il tifo esagitato degli studenti, in parte per le fondamenta datate 1926. I Kamikaze Kids sapevano farsi volere bene anche quando non vincevano. Versavano ogni goccia di sudore sul campo e avevano un buon naso per le occasioni importanti.
Nel 1974 gli imbattibili UCLA Bruins di John Wooden e Bill Walton arrivano in Oregon sulla scia di cinquanta successi consecutivi contro le rivali di Conference. Il 15 febbraio si fanno sorprendere dai Beaver di Oregon State, che giocano nella vicina Corvalis. 24 ore dopo scendono a Eugene per affrontare i Ducks e il Mac riserva ai superfavoriti un’accoglienza speciale. La banda suona l’inno dei cugini di Oregon State e il tabellone, appeso sopra al parquet, dondola per le vibrazioni. Coach Harter ha in mente di punire i suoi per una recente sconfitta e sceglie un palcoscenico d’eccezione. Tiene in campo il quintetto base per soli 5 minuti, per il resto attinge alla panchina. Finirà 56 a 51 per Oregon; starter o riserve, al Mac è sempre una tonnara in pieno stile Kamikaze Kids, mentre a Los Angeles ricorderanno quella sciagurata trasferta nel Northwest come “The lost weekend”.
Due anni dopo i Ducks si confermano Bruins Killer, stavolta in California. Una vittoria con 20 punti di margine a chiudere la striscia di successi casalinghi di UCLA, giunta a quota 98.
Questi erano i Kamikaze Kids al loro apice: gli underdog definitivi, una squadra costruita per ammazzare le grandi ma che si smarriva contro le piccole. Appena una settimana dopo il trionfo di Los Angeles, Oregon ospita gli acerrimi rivali dei Washington Huskies in una sfida che mette in palio la qualificazione al torneo NCAA. Il Mac Court, manco a dirlo, è una bolgia. I ragazzi di coach Harter avevano l’abitudine di allinearsi a metà campo con lo sguardo dritto sugli avversari durante il riscaldamento; una sorta di haka, per intimorirli, che spesso funzionava. Gli Huskies però hanno studiato una contromisura. Anziché eseguire i consueti giri di tiri a canestro, si mettono dirimpetto ai Ducks indossando occhialoni à la Groucho Marx. Vince Washington 67-62, i Kamikaze Kids si devono accontentare per l’ennesima volta del torneo NIT, che per giunta abbandonano al primo turno battuti dalla modesta North Carolina-Charlotte. È l’inizio del declino, con Ron Lee che si dichiara eleggibile al draft lasciando la squadra nelle mani di Greg Ballard e Ernie Kent. Anche coach Harter dirà addio a Oregon due anni dopo, trasferendosi sulla panchina di Penn State. Dei Kamikaze Kids originali ormai non è rimasto nessuno. Il nuovo coach, Jim Haney, installerà tutt’altro sistema di gioco, con risultati tuttavia ancora peggiori. Per rivedere i Ducks al torneo NCAA ci sarà da aspettare fino al 1995: un’attesa che non rende giustizia a una storia fatta di innovazione e aneddoti leggendari, con un rapporto d’amore e odio per la propria mascotte che non ha eguali nel panorama collegiale.
All’epoca del trionfo di Oregon nel primo campionato NCAA, nel 1939, un sondaggio interstudentesco aveva appena sancito la vittoria delle Anatre su soprannomi quali Trappers, Spearsmen, Pioneers e lo storico Webfoots – in onore di un manipolo di pescatori del Massachussets che salvò George Washington nelle paludi per poi trasferirsi in blocco nel Northwest. Già da una quindicina d’anni, comunque, si consumava la spassosa tradizione di portare un’anatra viva alle partite: Puddles, un nome che si tramandò dal primo esemplare a tutta la sua progenie, terminata negli anni ’40 sotto le proteste della Buoncostume. I ragazzi di coach Howard Hobson, in realtà, si erano già guadagnati un altro pseudonimo presso la stampa: Tall Firs, gli abeti, perché più alti e fisicamente imponenti di qualsiasi rivale. Lo stesso allenatore poi, era un rivoluzionario. Un pioniere del tiro da tre e del cronometro di tiro, con diversi decenni d’anticipo; fu tra i primi a lanciare i propri giocatori in contropiede approfittando della nuova regola sulla rimessa da fondo campo: prima, dopo ogni canestro, si ripartiva con una palla a due.
Prima dei Kamikaze Kids vennero i Beach Boys, capitanati da un certo Stan Love: papà di Kevin e fratello di Mike, lui sì un autentico Beach Boy.
Nel frattempo Jerry Frei, un allenatore di football piuttosto agguerrito, si batteva affinché le papere mostrassero i denti. Fighting Ducks era la sua proposta per il nuovo nome di battesimo. Accattivante, non fosse che si scontrava con l’accordo siglato nel 1947 tra l’Università e Walt Disney in persona: finita l’epopea dell’anatra Puddles, la mascotte di Oregon diventava a tutti gli effetti Donald Duck, e l’immagine di Paperino doveva rispettare certi canoni. La travagliata storia dei Ducks supera almeno un altro paio di test di popolarità. Negli anni ’60, dopo la morte dello stesso Walt Disney, c’è chi mette in dubbio la legittimità dell’accordo e si corre ai ripari tirando fuori dagli album sue vecchie foto autografate, con indosso il giubbotto di Oregon University. Dieci anni dopo uno studente appassionato di disegno diventa così popolare con la mascotte da lui ideata, un semplice germano reale, da stimolare un sondaggio, che premia però l’anatide originale. Fino al 1993, con la comparsa degli Anaheim Fighting Ducks nella NHL, Oregon rimase l’unica squadra a vantare un’anatra come mascotte, tra college e sport professionistico. Continua a farlo, e con orgoglio, ma in occasione del revival dei Kamikaze Kids anche Paperino si fece da parte.
Saltiamo ai primi anni 2000, la generazione d’oro degli Oregon Ducks. Sui ripidissimi spalti di The Pit i tifosi cantano “Lu-u-u-u-u-u-ukes!” Si riferiscono a Luke Ridnour (il primo a siglare una tripla doppia dai tempi di Ron Lee) e Luke Jackson: insieme a Fred Jones sono le stelle di una squadra che viene dal basso ma punta altissimo. Tutti e tre finiranno tra le prime 15 scelte al draft, un anno dopo l’altro, e vivranno oneste carriere da mestieranti in NBA. Jones trionferà addirittura in un’edizione dello Slam Dunk Contest, tra le più anonime in verità. Una simile concentrazione di talento non si vedeva da decenni nel campus di Eugene, ma serviva una personalità forte per imbrigliarlo nella giusta direzione. Coach Ernie Kent è l’uomo giusto al posto giusto. È un figliol prodigo, uno dei Kamikaze Kids originali, e ha l’intuizione di trasmettere ai suoi ragazzi lo spirito di quel gruppo. Certe malizie al limite del regolamento non sono più applicabili a una pallacanestro divenuta più tecnica, atletica e meno operaia; per l’abnegazione che mettono in campo, però, i Ducks di Kent si comportano da degni eredi dei Kamikaze Kids. Gli illustri predecessori devono avergli anche trasmesso il marchio di incompiuti, perché a trent’anni di distanza i Ducks continuano a piantarsi sul più bello. Nel 2002 si qualificano al tabellone nazionale con la testa di serie numero 2, dopo una stagione imbattuta tra le mura del Mac Court, ma si arrendono alle Elite Eight contro la nobile Kansas. L’anno successivo, se possibile, le aspettative sono ancora più alte, e la delusione ancora più cocente: Luke Ridnour vince il premio di giocatore dell’anno nella Pac-10, ma i Ducks abbandonano il torneo NCAA con un upset al primo turno per mano di Utah.
Come i Kamikaze Kids originali, anche nei discepoli brucia una fiamma che si affievolisce in breve tempo. Kevin Love sarebbe il nome forte da cui ripartire, ma snobba l’alma mater del papà Stan preferendo i riflettori di UCLA. Salutati Ridnour, Jackson e Fred Jones, è ora di sostituire Ernie Kent con un coach in rampa di lancio, energico, dalle idee chiare: Dana Altman. Sotto la sua guida i Ducks disputeranno le stagioni di maggior successo nella storia del college (esclusa la prima, è chiaro): cinque partecipazioni consecutive al torneo NCAA, un fatto inedito, coronate dal recentissimo traguardo delle Final Four 2017. Solo i futuri campioni di North Carolina saranno in grado di respingerli, per un misero punto, 77-76. I Ducks di Dillon Brooks, Jordan Bell e Tyler Dorsey sono forse i più forti di sempre, ma hanno perso qualcosa per strada. Dal 2011 infatti il MacArthur Court è stato mandato in pensione; era il secondo impianto più antico ancora in uso, dopo il Rose Hill di Fordham, conosciuto come The Prairie e tutt’ora saldo sulle fondamenta. Oggi Oregon gioca di fronte ai 12000 spettatori della Matthew Knight Arena, un moderno capolavoro di tecnica e di design. Il parquet omaggia i Tall Firs di Howard Hobson con la silhouette degli abeti del Northwest, e sopra al campo c’è un tabellone segnapunti tra i più grandi del basket collegiale. È ben inchiodato al soffitto, però. Per quanto gli scalmanati della student section si agitino sugli spalti, non comincerà mai a dondolare sopra le teste dei giocatori; come quando a The Pit erano di scena quei ragazzi Kamikaze.