Il suono della sirena e la doccia di champagne.
Non ci avevo minimamente pensato a un finale del genere. A dire il vero, fino a qualche mese fa, nemmeno pensavo di andarci, in America.
E invece, abbiamo vinto l’anello WNBA. Un sogno per chiunque pratichi questo sport.
Eppure, per me questo è solo un punto di partenza. È strano, ma così è come mi sento.
Arrivata a Minneapolis, come vi ho raccontato, avevo mille pensieri, ma i ritmi di partite e trasferte mi impedivano di tenerci su la testa più di tanto. Dovevo imparare il famoso playbook di 100 pagine, passare bene la palla a Maya e Whay, tenere le orecchie aperte a tutti i consigli. Non mi sono mai soffermata a pensare al titolo.
Ho vissuto un giorno alla volta, in punta di piedi ma con grande entusiasmo. È sempre complesso arrivare in corsa, che sia America, Europa o Italia. La chiave è sempre il tempo. Io mi sono presa il mio, concedendomi la possibilità di sbagliare.
“Comunque vada questo mese e mezzo, sarà un successo”, ho pensato.
La serie di Finals è stata intensissima. Le Sparks erano pronte per darci filo da torcere, lo sapevamo. E l’inizio-shock di gara 1, in casa nostra, rischiava di dare un’impronta alla serie.
Noi però siamo state lì, sapevamo che era il nostro momento. La voglia di rivalsa dopo la sconfitta in gara 5 dell’anno scorso era altissima. #OddYearOurYear: 2011, 2013, 2015… anche il 2017 è dispari, no?
Tornare allo Staples, dopo esserci stata ma solo dietro la panchina, è stato surreale. Calcare il parquet dove Kobe Bryant ha fatto la storia dei Lakers, è stato davvero indescrivibile.
La sconfitta in gara 3 sembrava tagliarci fuori, ma Sylvia e Maya sono state spettacolari in gara 4 e ci siamo guadagnate la quinta partita in casa.
Quando ho capito che avremmo vinto il titolo? Non prima degli ultimi 30 secondi di gara 5. Non proprio prestissimo…
Coach Reeve mi ha anche fatta entrare per gli ultimi 8 secondi. Ho eseguito il game-plan alla perfezione: ho iniziato a saltare e ad abbracciare chiunque, pazza di gioia!
Pure joy. #WNBAFinals pic.twitter.com/Lk82NQM073
— WNBA (@WNBA) 5 ottobre 2017
La Williams Arena – “The Barn” – quella sera era magica. Mai visto niente di simile.
“The Barn was lit”, ci diciamo ancora oggi con le compagne. 15.000 persone a tifarci nella partita più importante della stagione. Pazzesco.
So di non aver giocato.
Ripeto: mi do tempo.
Ma è stato un privilegio esserci. Un privilegio che mi sono guadagnata, e che nessuno potrà togliermi.
“Io c’ero”, potrò dire.
So di essere la seconda italiana a vincere l’anello, dopo la grande Cata Pollini. Ho letto tanti parallelismi, che mi stanno scomodi: ho 21 anni, non ho fatto abbastanza per essere paragonata a una leggenda come Cata. Lo dico sul serio, spero un giorno di essere all’altezza davvero.
La WNBA è qualcosa di speciale.
Viverla durante quest’ultimo mese e mezzo mi ha fatto capire che è quello che voglio, che è dove voglio arrivare. Dove voglio riuscire a stare.
Sono quei parquet, le luci, i migliaia di seggiolini, le divise, i calzini con il logo, la macchina che ti spara i palloni, le indigestioni di Gatorade, l’acqua ghiacciata da congestione, i chicken-fil-a delle mie compagne a colazione, la pizza con la bbq ai “ristoranti italiani” e bicchieri da 3 litri per la coca annacquata.
L’America è anche questo.
Ma a pallacanestro, poco da fare, sono i migliori.
Per questo sono onorata di essere parte delle Lynx.
E sono felice di tornare a Minneapolis la prossima estate, cercando di guadagnarmi il mio spazio.
Sono tornata e mi sento migliore. Come giocatrice non lo so, sarà il campo a parlare,
ma come persona sicuramente.
Thank you Minny, you’ve been real.
Intervista spettacolare!
Complimenti a Ceci! Si è meritata tutto questo!
Durante la premiazione, Cecilia si avvicina a Sylvia e Natasha. Coach Reeve, che ha solo due occhi ma si capisce che, elettrica, vede ovunque, intercetta l’arrivo e la chiama. “Ceci! Whoooo!”, Cecilia si gira, si avvicina, si abbracciano. Ripensando alle finals, coach Reeve (con il suo staff), secondo me, deve avere fatto un lavoro impareggiabile per tenere insieme dei pezzi che dopo gara 1 avrebbero potuto facilmente perdersi, in un modo o nell’altro. Certo, parliamo di campionesse stratosferiche in campo, individualmente e complessivamente più forti delle rivali (parere personale), ma le cose, delle volte, nella vita, nello sport e nella vita dello sport, vanno in pezzi e basta. Capita. E invece no. I sospiri di sollievo di coach Reeve per ridare una misura al respiro fino a lì trattenuto, dopo l’ultimo fallo su Lindsay Whalen, a 8.3 secondi dalla fine, mi dimostrano, sulla distanza, la sua umanità, la sua fragilità, la sua normalità, e l’attenzione totale e senza sosta in una competizione dalla tensione estrema. La differenza tra il basket femminile statunitense e quello europeo/italiano è evidente. Ma una volta che si è iniziata a sperimentare direttamente sul campo (da gioco, da allenamento, di organizzazione generale) questa distanza, e una volta che questa distanza è visibile, consapevole, e che una porta è stata intanto concretamente aperta (a dispetto di tutti coloro che riducono l’enorme e incredibile esperienza vissuta da Cecilia al solo minutaggio a referto, come se, per altro, la stessa Cecilia non fosse già a conoscenza, per conto suo, dei minuti giocati in campo o dei punti messi a segno), allora a quel punto, davanti agli occhi, la strada da percorrere è sufficientemente chiara, ed è lì. Cecilia ha fatto una cosa enorme, enorme. Ha solo 21 anni. Ed è solo l’inizio.
Quanto sei bella, quanto sei forte, quanto ti amo. Portami con te in America a mangiare Junk food ti prego