Le magie della Sassari acchiappatutto, l’ascesa di Reggio Emilia, il tonfo di Milano, l’uragano Metta World Peace.
Archiviare ed andare oltre.
Bistrattato, squattrinato, rattristato, ma il campionato di serie A che si apre domani resta pur sempre l’espressione del meglio che può offrire il nostro basket. E forse mai come quest’anno ci aspetta un campionato difficile da decifrare.
La stagione da “zero tituli” ci ha riconsegnato una Milano tutta diversa: meno talento diffuso, una costruzione più logica tutta intorno ad un Alessandro Gentile coi galloni di “lider maximo”. L’Olimpia è di nuovo favorita numero uno, ma con meno sicurezze di quella che 12 mesi fa sembrava essersi scrollata di dosso la scimmia dopo lo scudetto 2014 e pareva pronta ad aprire una nuova era dopo quella senese. È stato il Banco di Sardegna a mettersi di traverso sulla strada di Armani. La Dinamo è la sublimazione cestistica del credo sacchiano: prima il modulo, poi gli interpreti. Vabbè che con Van Basten e Gullit era più facile, ma Sassari ha stravolto la squadra tricolore sostituendo pezzo per pezzo innestando giocatori funzionali al credo di Re Meo. Ripetere il triplete, comunque, è già impossibile, visto che già un pezzo di argenteria se l’è portato a casa Reggio Emilia. La Grissin Bon sta salendo un passettino alla volta: ritorno in serie A, Eurochallenge, Supercoppa. Le stimmate baltico-senesi sono circondate di rughe ma hanno ancora il loro fascino, i giovani azzurri crescono bene… Occhio. E poi c’è un Recalcati Bramos-o di tornare ad assaporare i vecchi trionfi, l’ammasso di talento da plasmare che Alberani ha portato ad Avellino per coach Sacripanti, la non più sorpresa Trento, la Brindisi divisa tra la ruvidezza di Bucchi e il talento dei suoi singoli, le nobili Cantù e Varese tra il “vorrei” e il “non posso”, la Capo d’Orlando a metà tra il cimitero elefanti e degli la meglio gioventù, la polveriera Caserta, le turbolenze di Bologna, il sogno di una nuova pesca miracolosa di Pesaro…
Tanti possibili protagonisti, altrettanti grandi ritorni, le nostre giovani promesse. Ci divertiremo anche quest’anno.
BREAKIN’ OUT
JAMEL MCLEAN (EA7 Milano)
Uscire dalla finestra a pedate nel di dietro, rientrarci dal portone principale con tanto di tappeto rosso. Il nuovo lungo di Milano, a chi non fosse particolarmente avvezzo del basket europeo, era praticamente sconosciuto fino ad un annetto fa. College a Xavier senza particolari soddisfazioni, un’onesta carriera tra Belgio e Germania, poi la bella stagione a Bonn gli vale la chiamata dell’Alba Berlino. Gli albatros, l’8 ottobre scorso, ospitano in preseason gli Spurs campioni NBA in carica. E accade l’imponderabile. McLean massacra gli speroni (18+10) ma soprattutto infila il buzzer-beater che regala un’incredibile vittoria all’Alba e la gloria eterna a sé stesso:
Sliding doors.
McLean tira fuori una stagione da MVP della Bundesliga (14,2 punti col 63% dal campo e 6,2 rimbalzi in BBL), ma appena 3 estati fa era stato scartato in malo modo da Scafati. Ingaggiato il 17 agosto, il 18 settembre 2012 viene tagliato dopo un paio di amichevoli così così, rimpiazzato da Ron Slay, l’uomo che quando segna fa il gesto della moto. Mi sa che Jamel, però, ora, l’ha sorpassato sgommando. “Impacciato”, lo definivano i giornali all’epoca. Di certo, non ha la tecnica impeccabile di un Kleiza, per tornare in ambiente milanese. Ma è un giocatore che fa della quantità in difesa e a rimbalzo e dell’acume tattico le sue forze. Un soldato che Repesa non potrà non amare.
PEYTON SIVA (Pasta Reggia Caserta)
Aspettavo questo momento dalla March Madness di due anni fa. Sive è il condottiero della Louisville di Rick Pitino che vola al titolo NCAA 2013 insieme a Gorgui Dieng, Luke Hancock, Russ Smith, il povero Kevin Ware, un giovanissimo Montrezl Harrell e pure il neo pistoiese Wayne Blackshear. Viene nominato Mvp della Big East e al discorso di ringraziamento nomina tutti: squadra, allenatore, famiglia, ragazza. Ma non la prorompente “modella” (vabbè) Jenna Shea, che la prende un po’ sul personale e lo sputtana pubblicando gli screenshot delle loro conversazioni a dir poco piccanti…
Peyton, però, ha tempra. Un po’ la riceve dal Dna samoano dei suoi avi, ma la restante se l’è dovuta fare nella vita di tutti i giorni. A 15 anni ha salvato dal suicidio il padre, che soffriva di depressione ed abuso di svariate sostanze. Ci vuole fegato, carattere, sangue freddo quando sei solo un adolescente. Caratteristiche che poi hanno contraddistinto il suo modo di giocare. Chiusi i quattro anni ai Cardinals, cui è rimasto talmente legato da sposarsi nell’arena dell’ateneo, la sua carriera ha preso la piega che temevo: una scelta nelle retrovie al draft (alla 56) e Peyton rimane invischiato tra panchine desolate e D-League.
Finisce ai Pistons, dove diventa presto compagno di merende di Gigi Datome, con il quale si specializza nello sventolamento degli asciugamani (2,3 punti e 1,4 assist in 24 partite disputate nel 2013/2014). Lo scorso anno una buona stagione in D-League agli Erie Bayhawks (13,9 punti e 6,8 assist di media), ma a 25 anni è ora di far vedere il valore che ha in un contesto più competitivo del pascolo della lega di sviluppo americana. Carisma in quantità, gran difensore, tiratore da 3 discontinuo, sarà il generale in campo che dovrà tenere le briglie alle bizze di Micah Downs e al talento offensivo di Cinciarini e Amoroso.
Auguri.
DEXTER PITTMAN (Obiettivo Lavoro Bologna)
Pivot veri, dalle nostre parti, se ne vedono sempre meno. Uno così, poi, è praticamente unico. Amico di KD (insieme hanno giocato ai Longhorns di Texas al college) e Lebron (cui deve l’anello 2012), all’high school lo chiamavano “Big Pitt”. Con poca fantasia, visto che sfiorava i 182 kg. Roba da far impallidire lo Shaq di metà luglio. Arrivato a Texas, però, si mise d’impegno, iniziò ad allenarsi duro, prese uno chef personale e scese fino ai 136 kg. Tanto che da “Big Pitt”, nel campus, iniziarono a soprannominarlo “Sexy Dexy”. Non indagherò oltre sui motivi del nickname.
I centimetri non sono tanti per giocare pivot in NBA (208 ufficiali), ma la stazza e le qualità tecniche in post basso (semigancio affidabile, gioco sul perno, ottime letture offensive) ne fanno un ottimo completamento per i Miami Heat, che nel draft 2010 se lo portano a casa con la chiamata numero 32 perché ci vedono qualcosa di meglio del buon Joel Anthony. Giochicchia a malapena nell’anno del titolo (3,0 punti in 35 partite), ma per i pro americani il fisico non è quello giusto.
Ha dichiarato di voler essere un “point center alla Marc Gasol”, ma con la tendenza shaquillesca di frantumare tabelloni (“Ne ho rotti già 5 in carriera”, annunciò poco prima di far fuori il 6° nell’amichevole di Ozzano). Se gli nascondono i tortellini in brodo può essere un’arma devastante per la nuova Virtus. Nel vero senso della parola:
WELCOME BACK
JARVIS VARNADO (Banco di Sardegna Sassari)
Il neo sassarese viene chiamato al draft 2010, quello di Pittman, solo 9 posizioni più in basso, alla 41, sempre dai Miami Heat che evidentemente piuttosto che far giocare Joel Anthony avrebbero tesserato anche Pol Bodetto. Quel che è certo è che a soprannomi non erano messi malissimo: da “Sexy Dexy” al “Tornado”…
Varnado, però, non sboccia a Miami ma negli anni di college a Mississippi State, dove il suo soprannome cambia da “The swat”, come lo chiamavano all’high school, a “Tornado”, per motivi analoghi: un atletismo fuori da ogni norma. Al college batte il record di stoppate della NCAA: ben 564 nei 4 anni di frequentazione, infrangendo anche il record sulla singola partita con le 8 stampate in faccia ad Alabama.
In Italia, con fiuto mica male, ce lo porta Pistoia, all’epoca in Legadue, che lo piazza insieme a Joe Forte. Poesia. E il Tornado si abbatte subito sul campionato.
Una furia che non ha eguali al piano di sotto, tanto da esordire con 9 stoppate alla prima giornata contro Casale. Record italiano, per la cronaca. In Toscana fa l’alieno (15,8 punti, 8,9 rimbalzi, 2,8 stoppate di media), ma la serie A se lo lascia scappare. Va in Israele, all’Hapoel Gerusalemme, poi e a Roma da gennaio 2012 con buon impatto (10,4 punti, 6,5 rimbalzi, 2,1 stoppate). Miami prova allora a dargli una chance, fa in tempo a mettersi un anello al dito al fianco di Lebron nel 2013 pur giocando meno di Magro (40 minuti complessivi), due anni fa intravede il parquet coi disastrati 76ers dove forse avrei potuto fare qualche minuto anche io e poi lo scorso anno tanta D-League e un po’ di Portorico.
A 27 anni la grande chance: fare l’Eurolega, provare a vincere lo scudetto. Se, come evidente, Sassari cerca la cosa più simile possibile a Shane Lawal, l’obiettivo sembra ampiamente centrato.
MAARTEN LEUNEN (Sidigas Avellino)
Farà specie vedere uno dei giocatori più amati della storia canturina recente vestire la maglia della Scandone. Cinque anni vissuti intensamente, con le tante battaglie per cercare di strappare qualcosa all’Invicibile Armata senese culminate nella Supercoppa vinta nel 2012 hanno lasciato il segno nei cuori brianzoli.
Se Pittman vuole diventare un “point center”, un po’ di appunti potrà prenderli live dal lungo color fior di latte nato a Vancouver. Il gioco ha iniziato ad apprenderlo nell’azienda agricola di famiglia, nel campetto sul retro del capanno degli attrezzi dove con i fratelli aveva appeso un canestro.
Intelligenza cestistica superiore, visione di gioco dal post alto con pochi eguali nel ruolo, tiro da 3 chirurgico (mai sotto il 38% in carriera), la tempra del leader silenzioso che, prima di lui, a Cantù ricordano con Shaun Stonerook, è un giocatore che ogni allenatore vorrebbe avere ai suoi ordini. L’Italia gli è entrata sotto pelle e infatti dopo un annata così così in Germania, a Ulm, rieccolo dalle nostre parti, anche se agli antipodi rispetto al profondo nord canturino. Guarda caso, ce lo ha rivoluto quel Pino Sacripanti ai cui ordini ha disputato la sua ultima annata italiana. Sarà il direttore d’orchestra occulto di una Sidigas tutta nuova ma con tanto talento da maneggiare.
MIKE GREEN (Umana Venezia)
Se parliamo di direttori d’orchestra, Mike Green è uno che ha pochi eguali dalle nostre parti. Uno che si è fatto da sé, partendo da un piccolo college, Butler, snobbato dalla Nba e arrivato ai vertici del basket europeo dopo una tortuosa gavetta.
Con il Leunen di cui sopra ha formato una coppia di sopraffina intelligenza cestistica nella splendida stagione canturina del 2010/2011, finita sì a bocca asciutta, ma con le due finali di Coppa Italia e campionato raggiunte al cospetto della Montepaschi. Il che, di quei tempi, voleva dire prendersi il titolo di primi degli umani.
Talento e “cojones” non si discutono, ma alle sue squadre è sempre mancato 1 per far 31. Dopo Cantù, la semifinale di A2 (poi mi spiegherà che ci è andato a fare) a Barcellona Pozzo di Gotto, poi il passaggio all’odiata Varese che conduce al primo posto in regular season ma fuori in semifinale con la solita Siena.
A quella beffarda gara 7 si è interrotta la sua carriera italiana, proseguita con una stagione deludente al Khimki quando poteva dare una svolta ai massimi livelli europei alla sua carriera ed una ancora più anonima al Paris-Levallois, in Francia. Dove comunque trova modo di mettere qualche zampata delle sue:
A Venezia Green arriva per riprendere quel feeling che sembra aver smarrito negli ultimi anni. Dalla sua vena passano molte delle fortune dell’Umana.
WE ARE YOUNG, WE RUN FREE
STEFANO TONUT (Umana Venezia)
Restiamo in Laguna con un ragazzo che è giovane fino ad un certo punto (classe 1993) ma che è alla prima volta in serie A. Benché sia figlio d’arte (papà Alberto fu oro europeo a Nantes ’83), Stefano si è dovuto costruire da sé.
Le giovanili a Monfalcone, dove lo nota Trieste e se lo porta a casa crescendolo passo dopo passo fino all’oro europeo Under 20 di due anni fa, dove peraltro la sua stella era offuscata da quella di un altro giovane terribile in rampa di lancio: Amedeo Della Valle. La stagione passata è stata quella della consacrazione: trascina di peso Trieste ai playoff di serie A2 con una squadra tutt’altro che di alto livello e firma un’annata a 19 punti a partita.
Ora arriva il difficile per Tonut junior: dimostrare di poter fare quello che ha fatto anche al piano di sopra. La concorrenza, in una squadra dalle grandi ambizioni come la Reyer, è spietata, con davanti tre esterni come Goss, Jackson e Bramos. Ma Recalcati ha sempre dimostrato di non avere preclusioni, come ha già fatto lo scorso anno con Ruzzier, suo coetaneo e anch’egli scalpitante sulla panchina del Taliercio. Una bomba pronta ad esplodere.
TOMMASO LAQUINTANA (Betaland Capo d’Orlando)
A Capo, quest’anno, hanno fatto le cose senza mezze misure. Da un lato i veteranissimi, Basile, Ilievski, Jasaitis e Nicevic, dall’altra un manipolo di giovanissimi. Ai primi due, in particolare, toccherà vegliare sulle speranze future per la cabina di regia azzurra: Tommy Laquintana.
Pugliese, esplode giovanissimo in B1 a Ruvo prima e Bari poi e lì Capo d’Orlando lo pesca. In Sicilia mette lo zampino sulla promozione in A dell’Orlandina con il Pozz come mentore (vabbé-2), che però lo giudica acerbo per lanciarlo subito tra i grandi. L’anno scorso un anno a farsi le ossa a Biella tra A2 ed Eurochallenge, dove si prende il lusso di firmare la migliore prestazione di un italiano in Europa con la maglia dell’Angelico: i 22 punti contro Anversa superano i 19 di un certo Pietro Aradori:
E’ pronto, dice Sindoni. Il talento non manca, chissà se il Baso riuscirà ad infondergli l’arte del tiro ignorante e il Conte Vlado quella di uccidere le partite?
DIEGO FLACCADORI (Dolomiti Energia Trento)
A differenza del “gemello” Mussini, con il quale ha messo a ferro e fuoco i tornei giovanili (la vittoria azzurra a Mannheim dello scorso anno porta anche la sua firma), Flaccadori è voluto rimanere in serie A, nella fucina di Trento a giocarsi le sue carte prima di pensare in grande. Dalla squadra di casa sua, Bergamo, è sbarcato in Trentino l’anno passato, iniziando ad assaggiare la serie A, centellinato da coach Buscaglia per non bruciarlo ma capace già di far vedere lampi di un talento che tengono d’occhio anche in America (il sito specializzato Draft Express lo piazza al 3° posto tra i prospetti internazionali della sua annata e all’ultimo Eurocamp è stato inserito nel miglior quintetto).
Troppo spesso oscurato dalla hype intorno al suo coetaneo Mussini, Flaccadori è una guardia con enorme senso del canestro, capace di concludere al ferro o colpire dalla distanza. Deve imparare a disciplinarsi tatticamente e a gestire meglio le scelte, ma se si tratta di metterla dentro state citofonando alla casa giusta. Non c’è più una calamita come Tony Mitchell davanti, Sanders e Lockett sono più giocatori di sistema, una grande chance per il “Flacca”.
(disegno di copertina a cura di http://fanciullodelghetto.blogspot.it/)