di Roberto Gennari
“Do you like basketbol?”
Lo ammetto, odio la Nazionale di pallacanestro delle Filippine. Anzi, la Pambansang koponan ng basketbol ng Pilipinas, come la chiamano loro. La odio, lo ammetto, perché la invidio. Perché nelle Filippine il basketbol è lo sport nazionale e da noi no. Perché i filippini che si presentano al campetto sono alti un metro e mezzo, non la passano mai ma la mettono da otto metri con una facilità irrisoria, come se non avessero mai fatto altro nella vita, e forse in un certo senso è proprio così. Odio la nazionale di pallacanestro delle Filippine perché tutti li amano, e il mio odio è un modo piuttosto puerile di dire che mi voglio in qualche modo distinguere dalla massa. Li odio perché vorrei che giocassero come la serie A2 dell’Armenia, e invece sono anche bravi, e ammetterlo mi costa una fatica del diavolo.
“Nessun uomo è un’isola.”
La Repubblica delle Filippine si compone di 7641 isole. Complessivamente fanno la superficie dell’Italia, grosso modo, ma la popolazione è quasi il doppio della nostra. La squadra nazionale aveva aggiunto il nome del main sponsor al proprio, così da far venire fuori dei nomi stellari, tipo “San Miguel-Team Pilipinas”, a ribadire come il connubio tra le due B (Basket & Birra) sia secondo a pochissime cose, che qui non possiamo nominare, nel cuore di ogni appassionato sincero di pallacanestro. Mettere insieme una nazionale in un contesto del genere è già di per sé una cosa assolutamente meritoria, e lo è ancor più se si considera che in queste 7641 isole sono state censite 175 lingue di cui solo 4 morte. I gruppi etnici principali sono 10, a cui si aggiungono un tot di milioni di mestizosdi origine spagnola, indiana e cinese. Gli abitanti di origine filippina sono quelli che originariamente venivano definiti i “Negritos delle Filippine”, e ad oggi in tutto sono stimati in circa 15000. Su una popolazione che sfiora i 110 milioni. In parole povere, le Filippine sono un porto di mare, multirazziale, multilingua e multiculturale, dove l’idolo nazionale delle masse è Manny Pacquiao, che nella sua vita è stato principalmente un pugile, ma già che c’era è stato anche nominato “membro onorario” dei Boston Celtics e ha giocato qualche partita nella serie A di basket filippino. La cosa ancora più incredibile di tutta la faccenda è che per giocare nella PBA devi essere scelto nel draft, quindi Manny Pacquiao è stato selezionato nel 2014 con l’undicesima chiamata e così ha potuto giocare a basket da professionista nel suo Paese natìo. È difficile trovare un esempio calzante, ma per capirsi potremmo immaginare che Alberto Tomba abbia messo insieme una decina di presenze in serie A con la maglia del Bologna. Le Filippine sono un porto di mare, è proprio il caso di dirlo, che si trova su tutte le principali rotte commerciali del Pacifico da secoli, dove il meticciato è irreversibile, una situazione che manderebbe in tilt il (minuscolo cervello del) razzista di cui abbiamo raccontato la giornata tipo qualche tempo fa.
Ma torniamo a parlare di basket.
Dove si va a vedere la partita?
Nelle Filippine il clima è solitamente caldo e umido. In alternativa può essere molto caldo, molto umido oppure entrambe le cose. Tipo al Taliercio, insomma. Che poi siamo tutti d’accordo che non è che in Italia ci siano 17 impianti da NBA e il Taliercio, quanto piuttosto un insieme di strutture adattate alla bell’e meglio per il gioco del basket. Poi guardi alle Filippine e vedi che le partite della PBA, che peraltro ha un logo – diciamo così – vagamente ispirato a quello della NBA, si giocano in posti tipo lo Smart Araneta Coliseum (25.000 posti a sedere), la Mall of Asia Arena (20.000 posti) o il Cuneta Astrodome di Pasay (12.000 posti).
Le partite di PBA sono delle miniere d’oro per chi ama il gioco intenso, ma al tempo stesso sono piene di aneddoti meravigliosi. Come non citare i due giocatori scesi in campo con maglia identica, il canestro da sdraiato a terra, la stoppata con la scarpa in mano? Ah, e la tripla di Pacquiao, ovviamente. Questo modo di intendere la pallacanestro, un professionalismo così scanzonato, è assolutamente irresistibile. Ah, tornando per un attimo agli impianti, sapete chi organizzerà il prossimo mondiale di basket, insieme al Giappone e all’Indonesia?
La nazionale di tutti i colori.
Per il discorso di cui abbiamo parlato prima, il porto di mare, le 7641 isole eccetera eccetera, la nazionale di basket delle Filippine è una squadra variopinta sotto tutti i punti di vista, anche come cognomi: Alapag, Tenorio, Chan, Castro, David, De Ocampo, Norwood, Blatche eccetera eccetera. I Gilas Pilipinas, così li chiamiamo per brevità, occupano la 31esima posizione nel ranking che la FIBA ha stilato a Febbraio di quest’anno, con un punteggio praticamente identico a quello della Cina che li precede. Sono la seconda nazionale asiatica per numero di titoli continentali con 5, anche qui dietro alla Cina che domina con 16 vittorie. Nel mondiale 2014 a cui noi non abbiamo partecipato hanno portato la Croazia all’overtime, perdendo di 3 e sbagliando sulla sirena la tripla del possibile pareggio. Hanno perso di 12 contro la Grecia, di 4 contro l’Argentina e contro Porto Rico e hanno poi vinto l’ultima partita del girone contro il Senegal, di due, di nuovo all’overtime. Al di là del riepilogo dei risultati, la squadra delle Filippine ha conquistato la simpatia di tutti, vincendo anche un premio speciale riservato ai migliori tifosi del torneo: i supporter filippini presenti sugli spalti del “Palacio Municipal de los Deportes San Pablo” di Siviglia furono infatti appassionati e calorosi dal primo secondo della gara con la Croazia fino a quando il tiro da tre di Ndoye sulla sirena del supplementare fissava il punteggio della partita tra Senegal e Gilassul 79-81 e sanciva la prima vittoria della nazionale asiatica ai mondiali dopo 40 anni.
Il MVF Best Country Award è stato in un certo senso una semplice ratifica di quanto avevamo visto, sul rettangolo di gioco e fuori, nel mondiale spagnolo.
Back in the days.
Non dobbiamo commettere l’errore di superficialità di credere che la passione delle Filippine per la pallacanestro sia una moda passeggera. Nel 1936, ai Giochi Olimpici di Berlino in cui debuttò il basket, i Gilas si fermarono ai quarti contro gli USA poi campioni. Nel 1954, in quella che fu la seconda edizione del mondiale, finirono addirittura sul gradino più basso del podio, un risultato che all’Italbasket manca da sempre, avendo come miglior risultato i due quarti posti del mondiale 1970 (quarti nel girone finale) e di quello del 1978, dove a “scipparci” il bronzo iridato fu Marcel De Souza, che con un canestro quasi da metà campo portò la vittoria della finalina al Brasile, nella suggestiva cornice dell’Araneta Coliseum di Manila. La nazionale italiana guidata da coach Giancarlo Primo viveva così l’ennesima, bruciante sconfitta di un decennio ricco di talenti ma avaro di successi: dal quarto posto alle Olimpiadi del 1972 (66-65 per Cuba nella finalina), alla sconfitta di 1 contro la Jugoslavia che ci preclude l’accesso alle semifinali olimpiche del 1976, al quarto posto ad Eurobasket 1977. Si consumava proprio nelle Filippine, la più bruciante delle beffe per gli azzurri della pallacanestro. Nel mondiale di casa, comunque, i Gilas chiusero con un poco onorevole ottavo posto: la formula del torneo prevedeva che il Paese campione in carica (l’URSS) e quello che ospitava la manifestazione fossero qualificati di diritto al girone finale a otto squadre. La nazionale di casa perse tutte e sette le partite del girone con uno scarto medio di oltre 33 punti e quasi 108 punti subiti a partita. Persero infine (di “soli” 18 punti) anche la finalina per il settimo e l’ottavo posto contro l’Australia, rimediando in totale otto sconfitte sulle otto gare disputate. Credete che questo sia servito in qualche modo a far scemare la passione verso il basket? Neanche per sogno! Bastò il quarto posto nei campionati asiatici di Nagoya dell’anno dopo a riaccendere una passione mai spenta, sin da quel lontano 1913, quando la prima nazionale delle Filippine sfidò (e sconfisse) la nazionale cinese, in quella che risulta essere la prima partita internazionale disputata in Asia.
Negli anni ’60 nelle Filippine pensavano con così tanta insistenza al basket da aver escogitato la proposta di dividere la pallacanestro in due categorie: giocatori fino a 6 piedi da una parte e superiori a 6 piedi dall’altra. Con i canestri a 3 metri e 66 centimetri, e l’invenzione del canestro da 1 per chi segna in tap-in su rimbalzo offensivo. Una partita sperimentale con le regole proposte dai filippini fu disputata il 4 dicembre 1964 nella palestra di Via Gallura a Milano, tra le due squadre milanesi dell’epoca, Simmenthal e All’Onestà. Giocata a porte chiuse, si sa che finì 66-65 per i primi, e che venne giocata su richiesta della FIP. Ma il canestro, come tutti sappiamo, è rimasto a 3.05.
Glorie assortite.
I migliori giocatori della storia del basket filippino hanno nomi esotici e carriere incredibili. Venancio Johnson Paras Jr. per tutti Benjie Paras, detto “The Tower of Power”, centro di 1,94 per 100 kg, attualmente impegnato in un’intensissima carriera come attore.
Se questo non vi basta, sappiate che ha un figlio di nome Kobe Lorenzo Forster, visto per una quindicina di partite in NCAA a Creighton e anche lui nel giro della nazionale. Charles Borck, “The Blonde Bombshell”, anche lui centro di 1,85 (se state pensando alla vostra squadra UISP, beh, anche noi ci abbiamo pensato), nato a Manila da padre tedesco e madre spagnola: nella squadra olimpica del 1936 di cui abbiamo parlato era il più alto dei suoi. Johnny “The Flying A” Abarrientos, un metro e settanta di grinta cestistica, dodici titoli nazionali delle Filippine, leader di ogni epoca della PBA nei recuperi, la sua maglia numero 14 è stata ritirata da due squadre, gli Alaska Aces e i FEU Tamaraws, suo team collegiale. Già, perché dal 1938-39 (vi risparmiamo il calcolo: sono 80 anni tondi tondi) nello Stato-arcipelago si svolge un campionato universitario. William“Bogs” Adornado, MVP della FIBA Asia Cup 1973, quella del quarto titolo continentale per i Gilas. Ha un career high di 64 punti in una partita di PBA stabilito nel novembre del 1980, quando a pochi giorni di distanza ha piazzato anche la sua seconda miglior prestazione individuale a quota 54. Soprannominato “Mr. Nice Guy”, è uno dei soli tre giocatori ad avere vinto il titolo di MVP della PBA per almeno tre volte. A lui è intitolato il premio per il “comeback player of the year”.
Il mortifero tiratore Allan Vito Flores Caidic, detto “The Triggerman”: quando giocava contro la nazionale cinese, i coach avversari e la federazione cinese raccomandavano ai suoi giocatori: “state attenti al filippino col numero 8”, detiene il record di punti segnati in una partita di PBA da un giocatore locale a quota 79, di cui 37 in un quarto (in cui mise a segno la bellezza di 9 triple consecutive) e 53 in un tempo. Anche lui MVP di una FIBA Asia Cup, quella del 1985, ultima vittoria ad oggi per i Gilas, che chiusero la fase finale da imbattuti. Robert Vincent Salazar Jaworski, “The Big J”, miglior assistman di ogni epoca della PBA in cui è entrato non proprio giovanissimo (chiamato nel draft del 1975 quando aveva già 29 anni, anche perché nel 1971 aveva ricevuto una squalifica a vita per aver aggredito un arbitro, salvo poi venire “graziato due anni dopo) ma in cui ha resistito fino a 53 anni (da player-coach), quando ha lasciato la pallacanestro giocata per darsi alla politica. Ovviamente è stato eletto senatore. E ancora, Alvin “The Captain” Vergara Patrimonio, quattro volte MVP della lega, Ramon “The President” Fernandez, top scorer di tutti i tempi della PBA, di cui ha vinto anche 19 (avete letto bene, diciannove) titoli. E infine lui, Carlos “Caloy” Loyzaga y Matute, detto “The Big Difference”, centro di 1,91 scomparso tre anni fa, che guidò la nazionale filippina al bronzo mondiale (quando fu anche inserito nel quintetto ideale della manifestazione) e a due titoli continentali, oltre ad un altro titolo della FIBA Asia come head coach. Al momento in cui scriviamo, secondo alcuni è il più grande giocatore filippino di sempre, ma al tempo stesso risulta assente sia dalla lista dei “40 Greatest” della PBA, sia dalla Basketball Hall of Fame. Se avete contatti con la federbasket filippina chiedete lumi, anche qui siamo curiosi.
Today is the greatest day I’ve ever known.
La prima gara dell’Italia ai mondiali del 2019 sarà contro la nazionale delle Filippine (vi ho già detto che la odio, vero?) alle 13:30. Ma chi si troverà ad affrontare la pattuglia di Meo Sacchetti?
Nella lista dei preconvocati dell’head coach Yeng Guiao spiccano i nomi dei due naturalizzati Jordan Clarkson, reduce da una stagione da quasi 17 punti a partita in 27 minuti nei derelitti Cleveland Cavs, e Andray Blatche, attualmente in Cina dopo aver disputato 564 gare in NBA tra Washington e Brooklyn, oltre alla celebrità locale June Mar Fajardo, 2.08, MVP delle ultime cinque stagioni della PBA in forza ad un’altra squadra dal nome stellare, i San Miguel Beermen, dove gioca insieme all’ex Nebraska e Hawaii in NCAA Christian Karl Standhardinger, che nelle qualificazioni ha giocato solo due partite, in cui però ha messo insieme 47 punti e 20 rimbalzi. Clarkson, probabilmente, non sarà nella lista dei 12 di coach Yeng Guiao, perché il regolamento FIBA parla chiaro in materia di giocatori naturalizzati: sono da intendersi tali tutti quei giocatori che abbiano ottenuto il passaporto di una nazione successivamente ai 16 anni (cosa, questa, che accomuna Clarkson e Blatche), ed è permesso alle nazionali di schierare solo un naturalizzato a referto. Per cui, è altamente probabile che la presenza di Clarkson in questa lista sia stato semplicemente un modo di provare a muovere a pietà la FIBA, che però in prima istanza ha risposto “picche” e non sembra voler ritornare sui suoi passi, se non altro per non creare un precedente.
Se quindi non ci saranno deroghe, il naturalizzato che farà parte dei 12 sarà Andray Blatche. In ogni caso, i Gilasnon sono più una squadra che vive in un mondo a parte, per quanto meraviglioso, ma un team che mette insieme esperienze internazionali. Non sarà della nazionale The Great Filipino Hope, Kai Sotto, 2.18 classe 2002 che si sta allenando ad Atlanta con l’obiettivo di diventare il primo giocatore nato nell’arcipelago ad approdare in NBA, già seguito da Real Madrid, Barcellona, Baskonia e Alba Berlino.
Mentre scrivevo questo articolo, un amico mi ha mandato una foto da un resort di Palawan, Filippine.
C’è passato da poco il tifone Hanna, per cui volo e resort costavano pochissimo. C’è un sacco di fango e tutto attorno allo spiazzo una vegetazione fittissima. Agganciati a dei supporti di legno, ad un’altezza abbastanza random, ci sono due canestri. Ce ne sono in ogni angolo delle Filippine, in ogni villaggio, in ogni isola. Il mio amico me ne ha mandate altre, che indubbiamente rendono l’idea, del contesto e della passione che l’arcipelago nutre per la pallacanestro.
Odio la nazionale di basket delle Filippine, perché tra noi e la seconda fase della FIBA World Cup saranno l’ostacolo principale, perché ci costringeranno ad un esordio ad altissima intensità al mondiale a cui manchiamo dal 2006. Odio la nazionale di basket delle Filippine perché, per quanto mi sforzi, non posso fare a meno di amarla.