Premessa. Difficile scrivere pensierini di analisi dopo una partita, non solo drammaticamente coinvolgente, ma che racconta come dentro i 40 minuti (questa volta 45) lo sviluppo ha tante componenti.
Tecnica da talento. Tecnica in 5. Tattica. Emotiva.
E come gli occhi di ogni protagonista possono cambiare. Bobby Dixon quasi non li alza mai a livello di telecamera nella prima parte, poi i suoi occhi guidano la rimonta e novemila turchi. Di più, prima sembra un po’ piccolo, troppo piccolo, poi le sue diventano grandi giocate e nessuno lo misura più.
Teodosic, le ombre e come attacca la partita. Odio le etichette, vincente o perdente, da stagione regolare o da finale. Servono per fare titoli, più che a raccontare la realtà.
Teodosic parte dalla panchina. Vuole mettere il marchio. Attacca subito. Sceglie di farlo ancora prima che la scelta difensiva del Fenerbahce lo possa aggredire. Come?
Attacca subito in transizione. Vuole usare il blocco per trovare un tiro da 3 punti quando il lungo fa fatica ad avere angolo perfetto per fermare la palla.
Poi la difesa si preoccupa e si sbilancia in due contro di lui. Scarico e due facili.
Attacca subito la taglia limitata di Dixon. Attaccandolo in avvicinamento e costringendo la difesa turca ad un raddoppio. Punito con uno scarico.
Attaccando subito anche quando il blocco in corsa viene dal 4 che va in Pop e il timore di un tiro da 3 crea un linea di penetrazione da aggredire.
Poi nell’ultimo quarto Milos non aggredisce più la partita. Non gioca in anticipo. Subisce ogni volergli negare la ricezione da parte di Dixon. Non uno stopper speciale, ma forse tutti possono essere stopper quando senti di voler vincere. A tutti i costi.
Insomma. Marchio. Poi quasi a piangere tecnicamente il non poter avere la palla in mano. Lieto fine, però.
(per la seconda parte cliccare qui)