A due settimane da Italia-Serbia, che ha sancito la fine del buon cammino europeo della nostra Nazionale, il testimone da CT è a tutti gli effetti passato nelle mani di Meo Sacchetti. Neanche il tempo di pensare e riflettere sulla sua ultima esperienza da capo allenatore azzurro, Ettore Messina è volato subito a San Antonio per riprendere il suo importante ruolo di primo assistente di Gregg Popovich nello staff degli Spurs. Come quando lo siamo andati a trovare sul suolo texano (video), abbiamo fatto una chiacchierata con lui, nonostante un oceano di distanza. E, come al solito, le sue parole sono sempre illuminanti.
Cosa ti ha sorpreso di più e cosa ti ha deluso di più della Nazionale agli Europei?
Deluso niente, assolutamente. Mi ha sorpreso invece la rapidità con cui questo gruppo ha trovato una grande coesione. Io ho solo cercato di non complicargli la vita e di essere chiaro nelle cose da fare per poter essere competitivi in un torneo come gli Europei. Hanno fatto tutto loro, io c’entro poco. Da allenatore gli ho solo messo a disposizione quello di cui hanno bisogno, come un consiglio, un rimprovero o una parola di conforto. Il merito di tutto ciò, ribadisco, va a loro.
Come hai lavorato per cercare di dare un’identità difensiva ben precisa alla squadra?
In realtà non abbiamo fatto nulla di diverso da quello fatto precedentemente. Nel momento in cui i giocatori più importanti fanno propria l’idea di come la squadra deve giocare e stare in campo, a quel punto sono gli stessi giocatori a fare il grosso del lavoro. Se i giocatori più importanti non si fossero sentiti a proprio agio nel sistema, non saremmo mai riusciti a tramutare sul campo quello che abbiamo fatto per due mesi in palestra.
Il commento del tifoso medio “abbiamo perso con la Serbia perché gli altri erano più alti e più grossi”. Quanto c’è di vero in questa affermazione?
Beh secondo me c’è molto di vero. Il dato a rimbalzo è stato francamente imbarazzante, se non sbaglio 44-19. In quel dato c’è tutto. Ed è normale che l’immagine di Marjanovic (222 cm) in campo e mentre prende posizione in area, sia qualcosa che colpisca per forza di cose. E non è solo una questione di Marjanovic, ma di tutta la squadra serba.
Dalla Croazia del preolimpico, alla Serbia nei quarti di finale. Qual è il cambiamento, non solo tecnico, che ha fatto questa Nazionale che ti è piaciuto di più?
Abbiamo avuto la possibilità di stare insieme due mesi anziché quindici giorni. Banalmente si potrebbe sintetizzare PreOlimpico “tutto schifo”, Europeo “molto meglio”, ma non è così. Al PreOlimpico la squadra ha sbagliato la partita con la Croazia, quella decisiva, altrimenti avrebbe giocato le Olimpiadi e probabilmente avrebbe anche potuto giocare una buona Olimpiade. La squadra degli Europei ha giocato in una situazione completamente diversa, con assenze pesanti, ma tanta personalità e coraggio. PreOlimpico e Europei sono due cose completamente diverse e non confrontabili. Non sono un percorso logico paragonabile per momento, situazioni e uomini diversi.
La Nazionale è in parte lo specchio del movimento cestistico di un paese. In cosa siamo più indietro rispetto agli altri?
Nella coesione. A me ha colpito molto il fatto che quando abbiamo giocato contro la Serbia, a bordo campo c’erano Obradovic, Ivkovic, Danilovic, Tomasevic e tanti altri. Un gruppo di “grandi” storici che era lì ad un evento importante per il proprio paese. Da noi la Nazionale viene da sempre vissuta come un male necessario. Salvo poi essere tutti contenti in quelle occasioni in cui la Nazionale vince qualcosa. Ma per 10-15 giorni, dopo si ritorna al solito discorso. E non parlo del tifoso, anzi, i tifosi sono molto appassionati e attaccati alla Nazionale ed è stato bellissimo vederli arrivare fino a Tel Aviv per sostenere la squadra. Ma è inutile girarci intorno, il movimento, da nord a sud, vive la Nazionale come un male necessario.
L’esperienza da assistente ha cambiato il tuo modo di stare in panchina da capo allenatore in Nazionale? Ha ampliato il tuo modo di pensare e di dare, magari, un peso diverso ai tuoi assistenti?
Ho sempre dato molto spazio ai miei assistenti in Nazionale dove ho avuto la fortuna di averne addirittura 4 di altissimo livello. E’ stata per me una grande opportunità, perché ognuno di loro ha dato un’importante contributo utile a tutti. Tre anni di esperienza con Popovich e lo staff degli Spurs ti permettono di migliorare in tanti aspetti, soprattutto nella capacità di ottimizzare il tempo, finalizzando il lavoro agli obiettivi prefissati.
Sulle qualificazioni ai mondiali hai già espresso e motivato il tuo no. Ma le competizioni internazionali fanno comunque spesso i conti con assenze dettate dalla NBA. Svetislav Pesic ha proposto di tornare alla vecchia collocazione tra fine giugno e inizio luglio anziché a settembre. Pensi possa cambiare qualcosa?
Potrebbe. Quanto meno sarebbe un’idea sulla quale fare un’importante riflessione. L’aspetto peggiore di tutti è che ad esempio nessuna squadra di Eurolega può fare una preparazione. Alcune società investono 20/30 o 40 milioni di euro per programmare la stagione di Eurolega, e il tuo allenatore o i tuoi giocatori più importanti non si allenano mai insieme, se non per pochissimi giorni prima dell’inizio della stagione. Il che mi sembra una contraddizione clamorosa. Una volta l’inizio della preparazione era un momento in cui l’allenatore poteva provare, correggere, conoscere la squadra. In questo momento non è più possibile.
Credo che uno dei più grandi problemi del nostro rapporto con lo sport stia alla base. In Italia lo sport non viene considerato come elemento fondamentale per la crescita dei ragazzi, a scuola si fa pochissimo sport. Sei d’accordo?
Abbiamo un grosso gap nei confronti degli Stati Uniti e di tanti altri paesi, ma non penso sia un problema risolvibile, almeno nel breve periodo. In Italia lo sport non è per tutti. E non è un problema solo di Federazione ma della società. Perchè la Federazione, da sola, non ce la può fare.
Parliamo del mercato degli Spurs, con un Rudy Gay in più. Mossa in ottica di un quintetto “basso” con Gay o Leonard da 4?
Rudy Gay giocherà anche da 4 e sicuramente giocheremo con l’obiettivo di avere spesso in campo un quintetto “piccolo”. Andiamo in contro alla pallacanestro di oggi dove i 4 e i 5 devono saper fare tante cose e avendo noi dei 5 con caratteristiche ben precise, nello spot di 4 cerchiamo di avere giocatori che possano allargare il campo, e correre il campo, proprio come Rudy Gay.
Cosa ne pensi del fatto che molte squadre NBA cerchino con insistenza di formare il “superteam”? Che effetto può avere sulla lega?
Gli effetti che i superteam possono avere sulla lega onestamente non li so. Certamente è qualcosa di interessante soprattutto per il pubblico. I tifosi si dividono in coloro che sono pro-superteam perché sono entusiasti dalla possibilità di vedere nella stessa squadra tanti grandi campioni, e quelli contro i superteam che sperano facciano dei disastri. Sicuramente stimola curiosità tra tifosi, e il dibatto aumenta l’interesse. Da allenatore, sinceramente, preferisco la possibilità di lavorare nel medio/lungo periodo con un gruppo di giocatori ben definito, cercando di farlo crescere e migliorare nel tempo facendo degli aggiustamenti di anno in anno. Il superteam in certi casi ha un orizzonte temporale limitato perché i giocatori hanno contratti di un solo anno.
Cosa ne pensi dei giocatori, delle leghe o delle squadre che stanno boicottando Trump? Credi che un giocatore in quanto tale non abbia il diritto di esprimere un’opinione così importante che esca dall’argomento basket?
Sono profondamente convinto che un giocatore possa e debba esprimere la propria idea ed opinione anche su argomenti che escano dal contesto pallacanestro. Il concetto per cui “il giocatore deve pensare a fare il giocatore e basta” non mi piace per niente. Nella vicenda Trump non so se l’NBA farà qualcosa per gestire questo problema. Mi reputo spettatore e aspetto di vedere come si evolveranno le cose.
Hai mai pensato, anche solo per un momento, di smettere di allenare?
Qualche volta. Il fatto che ci abbia pensato non è mai stato legato a motivi che hanno a che fare con la pallacanestro ma con la vita al di fuori di essa.
In cosa ti ha cambiato, anche come allenatore e nel lavoro di tutti i giorni, la nascita di tuo figlio?
Un figlio non ti cambia nel lavoro ma ti cambia nella vita in generale. Per chiunque, non solo per chi allena. La nascita di un figlio penso sia un qualcosa che cambia radicalmente prospettive, idee, posizioni che hai avuto fino ad allora, le convinzioni che pensavi potessero rimanere sempre tali. Ognuno di noi la vive in maniera diversa, ma è per tutti un profondo e naturale cambiamento.
L’avvento dei social network e il cambiamento che hanno portato nella comunicazione. Che effetto fa leggere pubblicamente le opinioni di tutti?
I social hanno rappresentato un cambio epocale. Un cambio al quale bisogna essere preparati. Un cambio che purtroppo, a volte, non è stato sempre positivo. Mi riferisco ai tanti commenti, spesso offensivi, di profili anonimi o messaggi dietro a pseudonimi. Se io leggo una critica, anche offensiva, che ritengo ingiusta, e non so nemmeno che faccia abbia chi me la fa, è qualcosa che non può farmi piacere. Con i social bisogna cercare anche di sviluppare una capacità di rimanere al di fuori di essi, senza farsi condizionare troppo. Perchè quello che conta veramente è quello che pensano i tuoi compagni di squadra, il tuo allenatore, i famigliari e non quello che dice qualcuno che non si firma.
Se un giorno tuo figlio ti dicesse “Papà, voglio fare l’allenatore di basket”, qual è la prima cosa che gli diresti?
Voglio capire innanzitutto se lo fa perchè gli piace veramente poter intraprendere questa strada, o perché vuole emulare il papà oppure perché è semplicemente condizionato dall’essere cresciuto accanto a me. Come in qualsiasi altra scelta della vita, vorrei che fosse una scelta non condizionata. Non avrei nessun problema se mio figlio volesse fare l’allenatore.
Ti senti più fortunato ad essere il primo assistente di Popovich o più sfortunato perché questo genio del basket non si decide ad andare in pensione e lasciarti il posto?
Questa è una “storiella” che non ha fondamento. Purtroppo, o per fortuna, Gregg Popovich non ha nessuna intenzione di lasciare la panchina. E comunque ci sono altri 10 mila pretendenti a quel posto…
(foto di FIBA)