“Quando vengono al mondo i bambini ricchi parlano già quattro lingue, sono abbronzati e hanno le mèches. I bambini poveri fanno una fatica mai vista a farsi capire almeno fino all’età dei sei anni quando incontrano una maestra appena arrivata da Benevento che insegna loro l’amore per il prossimo”.
Prendo in prestito le parole che Beppe Viola scrisse circa quarant’anni fa su Linus, e che in questi giorni sono state ristampate in un bel volume che vi consiglio di leggere, per raccontare di un uomo nato proprio in quegli anni lì: Vincenzo Esposito da Caserta. Alla fine degli anni Sessanta non esistevano più solo le due categorie di bambini descritte da Viola per raccontare di sé e degli anni della guerra, ma si faceva largo la classe media di cui Enzino è figlio (suo padre è stato per anni assessore comunale). Di lingue ne ha sempre saputa una sola, che ha poi screziato con l’italiano e con un pizzico di inglese americanadese: quella della palla a spicchi. E diavolo come si è fatto capire.
Io ad esempio ho un ricordo di Esposito molto chiaro. Ero appena un bambino quel 21 maggio del 1991 in cui la Phonola Caserta si giocava in gara-5 il primo scudetto della sua storia sul parquet della Philips Milano. I campani avevano già perso due finali proprio contro Milano negli anni precedenti. Ora per la squadra guidata dall’ex prof di ginnastica Franco Marcelletti, degli scugnizzi cresciuti in casa e dell’americano più fico che mai sia arrivato in Italia, Charles Shackleford, era arrivato il momento. Per chi tifassi quel giorno non serve dirlo e il ricordo indelebile è questo:
chi nasce tondo
Oggi Esposito fa il coach di mestiere, e lo fa anche piuttosto bene a giudicare dai risultati raccolti in questo primo scorcio di campionato dalla sua Pistoia che si trova nel gruppo delle prime della classe con Milano, Reggio e con altre piacevoli sorprese come Cremona e Trento (che sorpresa lo è un po’ meno ma che meraviglia!) con un gioco che non assomiglia affatto a quello che El Diablo sfoderava ma che ricalca perfettamente l’uomo che è. Grande intensità e difesa, un differenziale tra punti segnati e subiti minimo: 79,9 contro 78,6, a testimonianza del fatto che le partite della Giorgio Tesi finiscono sempre all’ultimo respiro, e oltre. Con una discreta tendenza a portarla a casa (7-3 il bilancio tra vittorie e sconfitte). E soprattutto gioco di squadra quando Enzino era un vampiro di tiri. L’ultima prestazione a Torino è il paradigma di un sistema di gioco: vittoria all’ultimo tiro nel supplementare, dopo una mini rimonta negli ultimi secondi e tutto il quintetto in doppia cifra di punti (questo facile perché la panchina pistoiese è piuttosto corta).
Certo il calendario non è stato particolarmente malevolo con gli uomini di coach Diablo e il livello medio del campionato si sta livellando sempre di più verso il basso, ma questo non toglie che Pistoia abbia una buona amalgama. La squadra di Esposito ha uno scarto di appena 12 punti tra realizzati e subiti (711-699) ma in classifica è solo due gradini sotto gli uomini di Repesa, che invece hanno un range di +114. Questo è puro coach Esposito.
Nella sua seconda vita nel basket riesce a trasmettere agli uomini che allena l’intensità (e pure un pizzico di cazzimma), visto che il talento e la spietatezza al tiro non si passano per osmosi. Riesce ad ottenere dai suoi giocatori una concentrazione che lui stesso, quando indossava canotta e pantaloncini, ha spesso faticato a mantenere nell’arco di una stagione o di una gara.
Uno dei più grandi attaccanti che il basket italiano abbia mai partorito, l’uomo da 13.286 punti in carriera, tre volte miglior realizzatore della Seria A1 e due Mvp del campionato (a Imola), che si trasforma in teorico della difesa? Può succedere ed è successo a Vincenzo Esposito detto Enzino, El Diablo, Spaghetto. In una cosa Enzino non è cambiato: il bisogno di parlare chiaro e dire ciò che pensa, sempre. Perché chi nasce tondo non può morire quadrato. Qui la disamina della sconfitta interna (la prima dell’anno) contro Reggio Emilia.
scugnizzo
Esposito è sempre stato un giocatore con la valigia ma ha lasciato davvero il segno nelle realtà di provincia, nelle squadre che si affacciavano su ribalte importanti per la prima volta, in quelle che lui stesso chiama “società-famiglia”. In fondo Enzo ha cercato in tutte le città in cui ha giocato la sua Caserta, quella in cui il papà faceva l’assessore e lui era lo scugnizzo, il figlio di tutti e il fratello minore del capitano Nando Gentile. La Phonola è la storia più bella degli ultimi trent’anni di basket italiano, così tanto che ancora oggi anche la televisione mainstream ogni tanto se ne ricorda.
La Juvecaserta, nata nel 1952 con i colori bianco e nero e che porta questo nome per il motivo che potete immaginare, incontra nel 1971 (Enzo ha due anni) l’uomo che ne cambia la storia. Giovanni Maggiò insieme al general manager Giancarlo Sarti crea una squadra che il sud Italia non aveva mai visto. Con i soldi dello sponsor forte Indesit viene ingaggiato il coach della svolta: Bogdan Tanjevic. Manca solo un terminale in campo e il coach montenegrino, all’epoca poco noto in Italia, riesce a portare nella città della Reggia il brasiliano Oscar Schmidt, il giocatore che “piangeva e segnava”. Proprio così, piangendo e segnando come se il canestro fosse una vasca da bagno, il carioca aveva strappato al Bosna del Boscia l’Intercontinentale 1979. Un manuale vivente di tecnica di tiro, colui che detiene il record assoluto di punti segnati in carriera con 49.737. In Italia Oscar ha giocato per undici stagioni e ha tenuto una media di 34,6 punti a partita. Nei tre anni a Pavia, subito dopo Caserta, ha superato i 40. Un mostro.
Con lui è cresciuta tutta la società Juvecaserta, che ha cominciato a costruire il roster a partire dalle giovanili, ma pure un intero movimento perché finalmente la palla a spicchi conquista il Meridione ed ha un profeta credibile: O rey. La Juve raggiunge i playoff alla prima stagione, 1982-83, direttamente dalla serie A2 (all’epoca il regolamento prevedeva che le prime due squadre della serie cadetta accedessero alla post season dei “grandi”). Viene sconfitta (2-1) al primo turno dalla Cagiva Varese, ma il cammino è iniziato e comunque a Caserta non passano nemmeno i lombardi.
Con Oscar e Tanjevic è nata una squadra e si sono formati giocatori di livello europeo. Esposito inizia da qui: «Oscar mi ha insegnato moltissimo. Io ero in prima squadra all’età di 15 anni, non potevo guidare e dovevo arrivare al palazzetto che era a 15 chilometri dal centro della città. Il giocatore che abitava più vicino a casa mia era proprio Oscar. Era lui che mi portava al palazzetto». A forza di passargli la palla durante le infinite sessioni di tiro cui il carioca si sottoponeva, Enzo affina la sua tecnica e costruisce il suo di tiro. Che lo porterà lontano.
L’anno successivo arriva la qualificazione ai playoff dalla porta principale e pure la soddisfazione di eliminare in due partite secche Reggio Emilia, prima di venire eliminata da Milano (sempre lei). Inoltre per la prima volta Caserta raggiunge la finale di Coppa Italia, persa di soli due punti (80-78) al Paladozza contro Bologna. La stagione 1984-85 è quella dell’infuocata semifinale scudetto contro la Scavolini Pesaro, persa in gara-3 tra le mura amiche e dopo cazzotti e nervi tesi. Proprio nella folle gara-2 nelle Marche, scende in campo Vincenzino, nella serenità generale.
Segue una serie impressionante di sconfitte che non fiacca i bianconeri ma che porta alla decisione di fare a meno di Oscar, ma non corriamo troppo.
Nella stagione 1985-86 Caserta arriva alla finale di Coppa Korac, persa contro la Virtus Roma ed in finale scudetto, sconfitta dall’Olimpia Milano. Stesso copione l’anno successivo con Franco Marcelletti in panchina contro la Tracer Milano. Nella stagione successiva (1987-88) la Juvecaserta vince il primo trofeo importante dopo cinque finali perse consecutivamente: la Coppa Italia, strappata a Varese. Nel 1988-89, ad Atene è finalista di coppa delle Coppe contro il Real Madrid, ma arriva un’altra sconfitta dopo un tempo supplementare. Una partita epica in cui Gentile ne mette 32 e Oscar 44. Enzo soffre come una bestia e finisce vedendo le streghe in difesa, che non è mai stata la sua passione. Ma quella sera con i blancos gioca Drazen Petrovic, che dice 62 punti.
Finalista anche in coppa Italia persa a favore della Virtus Bologna.
E siamo al giugno 1991, Oscar è emigrato a Pavia ma molto di lui rivive in Nando Gentile, il capitano 24enne della Phonola, in Sandro Dell’Agnello, il livornese adottato dalla gente di Caserta, che in quella serata milanese segna 30 punti, lui che non è mai stato un cannoniere, risultando implacabile proprio nel tiro da tre. E in Vincenzo, che da bordo campo, col ginocchio sfasciato, non sente il dolore ma gioca con i suoi compagni, guida i tiri dentro la retina perché è veramente arrivato il momento di vincere. Certo il declino è dietro l’angolo, tanto che la retrocessione in A2 arriva nel 1994, ma quella vittoria di Caserta rappresenta più di ciò che è sul campo, è la riscossa di una parte d’Italia troppo spesso dimenticata. Ed è la dimostrazione che le vittorie si possono costruire con la volontà e la capacità, che si può tirare su un palazzetto all’avanguardia in 100 giorni (il Palamaggiò) e che si può riempire di gioia.
Lo stesso sapore di quell’estate di 24 anni fa l’abbiamo riassaporata quest’anno, almeno in parte, grazie a Sassari. Un team fatto per lo più da americani fortissimi e con la valigia dietro la porta di casa, nessun atleta di casa, ma la stessa gioia di un popolo che di soddisfazioni ne vive poche solitamente.
Vincenzo inizia la sua peregrinazione, una fuga senza fine durata venti anni e 17 cambi di casacca, tra amori fugaci e molte incomprensioni, le vittorie e le soddisfazioni sono poche e quasi tutte a Imola, piazza minore che è però rimasta nel cuore del nostro per i motivi di cui sopra. Nel 1993 Esposito si trasferisce alla Filodoro Bologna, quando il progetto Fortitudo sta costruendo le fondamenta per le vittorie future, che Enzo vedrà da lontano. Segna a raffica nelle due stagioni in cui frequenta piazza Azzarita (oltre i 24 di media) ma raggiunge al massimo una semifinale nel 94-95. A dominare sono i cugini guidati da Sasha Danilovic. La vittoria nel derby del 4 marzo 1995 è una soddisfazione un po’ magra, ma pur sempre una soddisfazione.
Nel frattempo il suo mentore Marcelletti ha deciso di andare a insegnare basket alla Scaligera Verona e nel 1994 viene votato miglior allenatore della serie A. Per Enzino arriva la chiamata della Nba e non se lo fa ripetere due volte, parte. Crede di andare ai Cavs ma poi si ritrova nei nascenti Toronto Raptors che durante il lock out sono gli unici a poterlo ingaggiare. Per lui conta solo poter provare il campionato americano e accetta. «Un sogno che si avverava – ha raccontato alla Gazzetta dello Sport – Avrei giocato contro gente che avevo visto solo in tv, o su Superbasket», commenta ancora oggi Esposito. Ma il sogno dura poco.
l’america
Fa il suo esordio il 15 novembre contro gli Houston Rockets campioni Nba in carica, quelli di Olajuwon e Drexler. Stefano Rusconi (ai Suns) gli ha soffiato per tre giorni il record di primo italiano su un campo Nba ma Enzo è il primo a segnare, con un tiro libero. Un paio di settimane dopo, il 5 dicembre, arrivano i primi canestri su azione, contro Seattle: in 18′, 7 punti ma anche 6 palle perse. Gary Payton ha un conto da saldare contro i Raptors e Damon Stoudamire, e nella sua vendetta diventa l’incubo dell’ex scugnizzo. «Era la prima partita in cui giocavo con continuità dopo tanto tempo, e in più mi misero a fare il playmaker, ruolo cui non ero abituato. Payton aveva delle calamite al posto delle mani». In spogliatoio lo chiamano “Vince” o “Zito”, da “Esposìto”, con l’accento sulla i.
Quei Raptors, nati dal draft di espansione, sono un cantiere senza fondamenta, «in pratica, anche se è brutto dirlo, quella squadra era fatta con gli scarti delle altre». A parte Stoudamire, giocatori a fine carriera, oppure di talento ma inespresso, come Oliver Miller. «Aveva mani da playmaker, tiro e visione di gioco. Ma era un bambinone di 150 chili, immaturo, che nei timeout faceva riempire le borracce di Coca-Cola e a fine gara pagava un ball-boy perché gli portasse subito hot-dog e ali di pollo». E poi quelli un po’ più turbolenti. «Alvin Robertson venne arrestato la sera prima dell’esordio per una rissa in un bar. John Salley invece per Capodanno affittò un hotel per un party di 3.000 persone che finì con una sparatoria. Persino Isiah, suo compagno nei Bad Boys, dovette cacciarlo».
La sua serata di gloria El Diablo la vive in aprile, al Madison Square Garden: 18 punti in 30 minuti. E un aneddoto da ricordare: «Al mio primo canestro dietro la nostra panchina si sollevò un po’ di stupore. C’era questo tifoso, di mezza età, che rideva e urlava qualcosa. Giocando poco non potevo fare troppo il presuntuoso, ma io non le ho mai mandate a dire. Così iniziai a dedicargli i miei canestri, indicandolo: si creò questo simpatico teatrino, e a fine partita mi aspettò per farmi i complimenti e darmi un cinque». Nelle settimane seguenti arrivano offerte dall’Italia e dall’Europa, ed Enzino rinuncia ad altri due anni di contratto ed anche ad esplorare la possibilità di una trade con Philadelphia. Pesaro mette sul piatto un bel po’ di soldi ed è chiaro che la Nba non ha bisogno di lui e non fa per lui, quindi chiusa la valigia Enzo torna in serie A.
La sua totale anarchia tattica in campo (quanto è diverso oggi come allenatore non finiremo mai di dirlo), la scarsa predisposizione alla difesa (eufemismo) e un fisico che non gli permette di opporsi alle guardie americane, mentre da play la sua gara si trasforma in una inutile sofferenza, sono gli ingredienti che portano alla decisione di lasciare la lega americana senza troppi rimpianti. Eppure sarà proprio la Nba a ricercarlo dieci anni dopo e l’aneddoto è piuttosto sapido: «New Jersey cercava una quarta guardia, con esperienza e tiro. Rich (Dalatri, assistente per anni ai Nets e ai Cvs) me la buttò lì. Io non volevo giocare la Summer League: a 36 anni non dovevo dimostrare nulla a nessuno. Ma avevo casa a Las Vegas, e accettarono di farmi un workout privato. Mi proposero di fare il veteran camp, ma alla fine per un incrocio di situazioni contrattuali non se ne fece nulla». Incredibile come un 36enne che non trovava squadra in Italia sarebbe potuto finire in quella Nba che lo aveva snobbato da giovane.
falsa partenza
Purtroppo quando arriva alla Scavo trova una squadra in declino, costruita senza acume tattico e figlia di molti errori di gestione accumulati negli anni, con il picco del grottesco raggiunto nel farsi sfilare Carlton Myers da Rimini un paio di stagioni prima, che manda tutto a rotoli. Pesaro esce al primo turno dei playoff 96-97, eliminata dall’astro nascente Mash Verona, quella che “papà” Marcelletti ha costruito e lasciato in mano ad Andrea Mazzon, che in un paio d’anni raggiungerà una semifinale scudetto (e una finale di Eurocoppa) e vincerà Supercoppa Italiana e Coppa Korac.
Enzino è un uomo alla ricerca imperterrita di stimoli, di luoghi di cui innamorarsi e gente da far innamorare, sostenitori alla ricerca di conferme e detrattori da far ricredere. Nel 1997 il suo allenatore a Pesaro, Dusko Vujosevic, durante una partita gli urla contro di difendere, di applicarsi anche nella propria metà campo: «Maradona mica fa il terzino» gli risponde Esposito.
I biancorossi allineano una serie di eliminazioni al primo turno tra coppe italiane ed europee, il Palas nuovo di zecca appare sempre più un hangar vuoto dove rimbombano i fischi alla squadra e a Vincenzo in particolare, che proprio non entra nei cuori della curva. Lui soffre ed è nervoso, ma vale anche il viceversa. Non si sente a casa ma è comunque il miglior realizzatore della stagione con 25.3 di media. L’amore però è un’altra cosa.
Esposito dopo la sera del match con Reggio Calabria resiste altri otto mesi, poi dice addio a Pesaro. Il divorzio non è affatto pacifico, si accapiglia con Valter Scavolini per una questione di soldi ma poi si decide ad andare a Pistoia senza buonuscita. Nessuno è contento ma tutti sembrano soddisfatti. Nella prima conferenza stampa in Toscana El Diablo torna a pungere: «Sono strafelice di essere qui, spero che il modo di giocare rispecchi il mio stato d’animo. So di poter tornare quello che ero. Chiedo solo di essere giudicato per quello che farò in campo. Come un giocatore e basta. Non per dettagli che non contano nulla ma che a Pesaro ognuno commentava. Forse si aspettavano che, arrivato io, cambiasse tutto in meglio: ma nel basket solo Michael Jordan può tanto».
erase & rewind
Enzo non è uomo da autocritica ma nemmeno uno che campa di rendita visto che a Pesaro avrebbe avuto altri due anni di contratto blindati. Sceglie la Mabo e la porta ai playoff, la Scavolini invece retrocede. L’anno dopo firma con la neopromossa Imola, che supera al primo turno dei playoff Cantù e trascina fino a gara-4 la Fortitudo. Per il nostro titolo di miglior marcatore ed mvp del campionato. Per chi lo dava finito a 29 anni è una bella risposta sul campo. Nel 1998-99 stessa musica: mvp e capocannoniere con una media realizzativa che sfonda il trentello. Purtroppo Imola incontra agli ottavi una formazione che farà parlare di sé negli anni successivi: la Mens sana Siena.
Al terzo anno Vincenzo è ancora il miglior realizzatore del campionato (28 a partita) ma Imola si salva solo perché Montecatini fallisce e così la valigia è di nuovo pronta: direzione Udine, dove riabbraccia il capitano Nando Gentile a dieci anni dal miracolo di Caserta. La magia non si ripete e quando i friulani vengono sconfitti al primo turno della post season da Siena, Esposito è in Spagna a Gran Canaria. Da quel momento in poi cambia una squadra all’anno, quasi due, partendo e tornando a Imola. Da giocatore, allenatore e giocatore-allenatore.
Infatti dopo essere stato a Casale Monferrato e Capo d’Orlando, Murcia e Gragnano, Enzo dice basta a Ozzano (due passi dalla sua casa bolognese), dove in due anni diventa il capocannoniere della B1 e l’idolo del palazzetto. Dopo 762 partite giocate è ora di sedere in panchina, ma con la camicia e la cravatta. E via di nuovo a fare su e giù per lo stivale: Trento, Agrigento, Imola e Caserta (da vice e poi da capo allenatore, con la quasi salvezza sul campo divenuta effettiva al tavolino dei conti in rosso della Virtus Roma.
Il 23 dicembre 2013 a Imola arriva un regalo inaspettato, Vincenzo Esposito torna in campo perché c’è una squadra da salvare. Quel giorno al Palaruggi arriva l’Orlandina dei due ragazzini terribili Gianluca Basile e Teo Soragna e la partita è uno spettacolo di classe e nostalgia. Purtroppo il numero 5 di Imola resiste un paio di mesi e 6 partite, prima di alzare bandiera bianca di fronte ad un infortunio che costringe coach Esposito a fare a meno del suo talento. I romagnoli retrocedono a fine stagione.
Il 19 giugno 2015 arriva la firma sul contratto con Pistoia. L’ennesimo ritorno del giocatore che ha sempre cercato una famiglia prima ancora che una squadra in cui fare basket. Certo non è più l’Olimpia del 1998 e i colori sono il bianco e il rosso, come nella dolce Imola e nell’amarissima Pesaro. A Pistoia ci sono tanti ingredienti per fare bene: una squadra cresciuta col tempo, che quest’anno vuole ancora i playoff, una dirigenza competente e unita, con il totem Giacomo Galanda a vigilare su tutto.
Vincenzo Esposito non ha perso un grammo di voglia di fare basket e polemizzare. Non ha ancora finito di girare e un giorno allenerà a Bologna potete scommetterci, magari sulla rinata sponda fortitudina. Ora godiamoci gli orsi toscani e quell’Alex Kirk che è la perfetta incarnazione dell’Esposito-pensiero, così diverso dall’Esposito giocatore. Perfetto perché opposto dell’uomo che ha giocato sempre in fuga da sé stesso e che oggi cerca una casa. La caccia è ancora aperta.
Grande Enzino!!!
Fenomenale!!!
Che dire!!!! A Caserta si piange!!!