I quarteruoli, le corfe, gl’inumani saltamenti, li turbini, le pugnate, l’infocate sfere io canto…
Oggi il nostro personaggio di partenza è piuttosto atipico per queste pagine: non ci sono statistiche su di lui né da giocatore né tantomeno da allenatore, non è sicuro arrivi a toccare la retina saltando e difficilmente disegnereste uno schema su di lui per il tiro della vittoria.
Stiamo parlando di Mark Turmell.
Siete giustificati nel caso non vi suonino campanelli nella memoria, specie se appartenete alla fascia di lettori più giovane, eppure a una nicchia di appassionati videoludici il nome suonerà già familiare.
Visionario designer di videogames proveniente da Detroit, Turmell nel 1981 guadagnava una decina di migliaia di dollaroni al mese lavorando per Sirius Software, grazie alle royalties derivanti dall’ideazione di Sneaker (un clone sostanziale di Space Invaders) per Apple II. Quanti altri sedicenni avrebbero potuto dire lo stesso?
Ai tempi un nerdaccione introverso e taciturno, capace di concentrarsi per 20 ore al giorno di lavoro, venne presto preso sotto l’ala protettiva di Jobs e Wozniak e rifiutò la proposta di lavoro di un giovane Bill Gates.
Dal 1989 passò a Midway, dove la sua mente vulcanica diede origine alla mattanza di proiettili di Smash TV e del suo seguito spirituale, quella meravigliosa scatola di truculenza digitale battezzata adeguatamente Total Carnage.
Fu nel 1992 che Mark propose un concept più folle degli altri: portare nelle sale giochi un’estremizzazione al limite del parodistico della già di per sé spettacolare concezione del basket a stelle e strisce, e volle farlo con tutte le licenze e i permessi da parte della lega con il logo di Jerry West.
Un progetto con premesse così audaci e potenzialmente fallimentari da rivelarsi infine funzionante. Eccome, se ha funzionato.
Andremo così a saperne di più sul primo titolo destinato agli arcade con nomi e loghi reali di una federazione sportiva maggiore.
Rimaniamo altri 3 minuti davanti alla scritta Insert Coin lampeggiante ed entriamo nel corretto mood con un reperto audio di quel periodo.
Su da quelle sedie, chi non salta è perduto.
OH, OH, OH, I’M ON FIRE.
Pac-Man, Space Invaders, Street Fighter II (e relativa espansione Champion Edition), Ms. Pac-Man.
Nella gloriosa e oggi decadente storia dei coin-op, i passatempi videoludici ingoiaspiccioli, questi mostri sacri sono stati gli unici ad aver fatto incassare ai gestori più monete (adeguando opportunamente l’inflazione) di quanto non sia stato capace NBA Jam.
Un titolo approdato negli arcade nel 1993 che, perlopiù durante il primo biennio di vita, si stima sia stato alimentato dai videogiocatori con gettoni, 25 Cent, 200 Lire etc. per l’equivalente di un miliardo e 100 milioni di dollari, sfiorando il nono zero di fatturato già dopo 12 mesi.
Se la cifra (che attualizzata aumenterebbe ulteriormente del 50%) vi sembra spaventosa, beh, lo è. Volendo mischiare un po’ le mele con le pere si può considerare che Jurassic Park, un evento ancor prima che un film, nello stesso periodo incassò al botteghino attorno ai 985 milioni, comprendendo tutte le terre emerse.
Questa somma già di per sé strabiliante è stata poi arrotondata con gli introiti generati dalle conversioni per il mercato casalingo, di cui faremo menzione in seguito.
Pensare che tale splendore sarebbe potuto rimanere solo su carta: il primo progetto presentato alla lega (contenente anche varie feature poi abbandonate, come un replay in prima persona dei canestri più spettacolari o il coinvolgimento dei coach) venne difatti seccamente scartato.
L’NBA, interpellata per ottenere le necessarie licenze, storse non poco il naso alla prospettiva di distribuire un prodotto così dissacrante ed esagerato; l’ostacolo maggiore consisteva però nelle grandi perplessità legate alla cattiva fama che aleggiava attorno alle sale giochi in alcune zone degli States, spesso parcheggio per spacciatori e altri soggetti loschi.
La perseveranza di Turmell che arrivò, nel suo lavoro di dissuasione, a mandare VHS di cabinati piazzati in ridenti locali per famiglie, finì per trionfare, portando nelle tasche di Stern e soci una parte dei cospicui ricavi, la proprietà del marchio NBA Jam e 100 dollari per ogni cabinato installato.
NBA Jam è il fratellino sboccato e con il berretto all’indietro di un titolo Midway pubblicato nel 1989, Arch Rivals. Altre produzioni hanno influenzato indubbiamente le meccaniche al nocciolo di NBA Jam: da prodotti semioscuri come Basketbrawl fino al delirante Punk Shot di Konami, in cui un paio di gang avversarie si rullano di kartoni, spostandosi conveniente in differenti playground cittadini dopo ogni quarto di gioco.
Spiegare a grandi linee il funzionamento di NBA Jam è in verità piuttosto semplice: sfide 2 contro 2, con lo stretto indispensabile numero di giocatori a rappresentanza di ciascuna franchigia (aggiornati alla stagione 1992/93), ognuno dei quali definito attraverso linee indicative di velocità, 3 punti, schiacciate e difesa.
Una volta scelta la squadra si può iniziare la scalata al titolo, sfruttando un sistema di iniziali e date che permette di registrare i progressi. In alternativa è ovviamente possibile collaborare o, soprattutto, scontrarsi con altri players.
Un tris di bottoni permette di effettuare tutte le azioni disponibili: uno per il tiro (o solo una finta, se sfiorato) e la stoppata, un altro per il passaggio e il tentativo di rubata.
Il terzo pulsante è il Turbo: tenuto premuto drenerà una barra ricaricabile posta sotto il cognome del nostro atleta, che potrà nel mentre godere di maggiore velocità negli spostamenti; in combo con gli altri tasti è possibile rendere più efficace la difesa, tramutando delicate smanacciate in energici strattoni ed incrementando ulteriormente l’elevazione dei salti intimidatori.
Allo stesso modo, i benefici offensivi sono assist al fulmicotone e maggiore precisione nelle conclusioni. Ma soprattutto loro, il motivo per cui si paga il biglietto (o in questo caso il gettone): le Jam, le schiacchiate.
[Qui in combo con un brano da Space Jam: così tanti anni ’90 insieme che il vostro smartphone potrebbe trasformarsi in una scheda telefonica]
La grande creatività spesa nel fornire una vasta scelta di slam dunk (differenti a seconda di posizione in campo, turbo o meno, qualità dell’esecutore) ha ripagato in appetibilità agli occhi degli avventori del macchinario, disposti a infilare la bellezza di 4 gettoni (uno a periodo) pur di acquistare una partita intera.
Da questa parte dell’Atlantico specialmente, dove per i ragazzi di terza classe l’America magari non costava più dolore e spavento, ma attingere al basket degli dei rimaneva comunque comunque un’impresa.
NBA Jam era un non-stop di courtside countdown da NBA Action, quei conti alla rovescia di 2 minuti e mezzo che valevano un cerchio rosso sui Sabati pomeriggio. Laddove le videocassette, le riviste di settore, il televideo e le partite trasmesse in chiaro lasciavano un vuoto allo stomaco, il languore veniva colmato con un joystick e 3 bottoni colorati.
I giovani difatti si accalcavano attorno ai monitor che proiettavano uno show mai visto prima, ansiosi di poter spendere le paghette specialmente in duelli fratricidi, fino ad arrivare al pandemonio con 4 giocatori in contemporanea.
Tomahawk, windmill, reverse, helicopter e molte altre di complicata definizione perché impossibili da replicare nella realtà, ce n’è per tutti i gusti.
A forza di tempestare con schiaccioni il canestro avversario, non è raro che durante l’ultima frazione di gioco una dunk di troppo provochi l’esplosione del tabellone, polverizzato sul parquet in milioni di frammenti cristallini.
Nba Jam calcò pioneristicamente la mano su questo aspetto, rendendo la cura di esso un elemento necessario per realizzare un degno videogame sull’argomento.
Altra particolarità destinata a divenire un trademark della serie è l’“on fire”, idea partorita dallo stesso Turmell, richiamando un’adolescenza da dichiarato piromane: laddove un giocatore segni 3 canestri consecutivi durante la partita ecco che il pallone nelle sue mani diventa incandescente, innalzando le percentuali sui tiri in sospensione, garantendo Turbo inesauribile, neutralizzando la penalità di goal tending e spalmando un ulteriore dose di Flubber sotto le sue suole, con salti che possono portarlo a lambire il soffitto del palazzetto.
Sta agli avversari cercare di interrompere la striscia mettendo punti a referto, onde non soccombere sotto una gragnola di canestri.
Le regole sono ridotte all’osso: gli unici limiti imposti sono quelli dello shot clock a 24 secondi, onde evitare che la squadra in vantaggio si cimenti in torelli interminabili in attesa della sirena, e quello del goal tending, per scongiurare la presenza di un gigante radicato sotto il proprio canestro pronto a cancellare impunemente qualsiasi tiro in sospensione.
Il resto vale tudo, anzi lo scontro a forza di spintoni e gomitate altezza naso viene spesso premiato con il recupero o il mantenimento del pallone; il rettangolo di gioco è contornato da pareti invisibili che mantengono la sfera arancio sempre giocabile, salvo per le rimesse in gioco dopo ogni canestro.
Si può prendere il controllo solamente di un cestista durante l’incontro, l’altro viene gestito dalla CPU, anche se quando il partner si trova con il possesso palla esegue fedelmente ogni “consiglio” di tiro o passaggio impartito.
L’ampia libertà lasciata ai 4 giganti in campo dà comunque vita a sfide molto più profonde di quanto non possa apparire di primo acchito.
Gli approcci alla partita possono difatti essere molteplici: si può passare dall’estremo di mitragliare il canestro dalla distanza, sacrificando i rimbalzi a quello di prediligere solo conclusioni ravvicinate, con zilioni di sfumature a separarli.
Si può altresì scegliere di rincasare in difesa il prima possibile per stoppare o intercettare, altrimenti si può adoperare un mastino per riprendersi il pallone a suon di sberle appena questo viene rimesso in campo (e in questo caso si alzano osanna per squadre come i Knicks di Ewing e Oakley).
Praticamente ogni singolo cestista virtuale venne analizzato dagli appassionati in un’era pre-internautica, con lo scambio continuo di pareri e considerazioni empiriche più o meno attendibili, come per esempio (assistiti da un cheat che permette di vedere le percentuali di realizzo) la differente efficacia di un giocatore, dipendente anche dalle zone del campo in cui effettua le sospensioni: Reggie Miller, per citarne uno, è noto goda della fama di infallibilità a livello papale sui tiri dalla distanza che partono dagli angoli.
Curiosamente l’attributo meno importante, a detta dei giocatori più esperti, è proprio il tiro da 3: viene considerato più remunerativo avere in squadra “picchiatori” che possano sgraffignare la palla ricorrendo alle cattive maniere, oltre che atleti implacabili quando si tratta di aggrapparsi al cerchio o di portare a terra rimbalzi.
Il duo più letale, come pronosticabile, viene considerato quello degli Utah Jazz: la velocità e la pericolosità perimetrale di Stockton unita alla forza d’urto di Malone li rendono i nemici pubblici n.1.
Per mantenere le partite serrate si verifica spesso e volentieri l’effetto di Intelligenza Artificiale “a elastico”: nei match contro la CPU non è raro che il giocatore meno capace si trovi a fronteggiare una coppia di gonzi; laddove l’umano progredisca e inizi a padroneggiare degnamente il suo team, ecco che anche gli avversari saliranno di livello.
In particolare ciò avviene nel caso in cui si riesca a costruire un discreto vantaggio con poco tempo rimasto sul cronometro, a quel punto c’è da aspettarsi non più una partita di basket ma una lotta per la sopravvivenza contro un paio di criminali, capaci di picchiare con la rabbia di Lennox Lewis quando si chiude un dito nella portiera dell’auto e, nondimeno, cecchini infallibili da oltre l’arco (si tratti pure del Mutombo di turno).
Stesso fenomeno che avviene anche nei duelli tra giocatori: persone con tempo libero da adoperare hanno stimato come circa il 70% dei buzzer beater vada a segno, compresi i ganci disperati da 25 metri, favorendo il termine di amicizie e l’aumento di concatenati improperi verso figure sacre o meno.
[Moses Malone Mode: Activated]
Dei 54 giocatori presenti salta all’occhio un grande assente, il 23 dei Bulls: Ai tempi Jordan, forte di un notevole potere contrattuale, era già legato da anni a un contratto di esclusiva con Electronic Arts (che ne sfruttò la licenza per esperimenti non sempre felici, come nel pur avveniristico 3D di Michael Jordan In Flight e nello strampalato platform Chaos In The Windy City). A fornire supporto a Scottie Pippen ecco arrivare così i muscoli e gli occhiali protettivi di Horace Grant.
A livello grafico NBA Jam impressionava grazie alla scelta peculiare da parte di Midway di riprendere ogni singolo fondamentale eseguito da atleti reali, per poi digitalizzarne le animazioni. Una scelta in voga ai tempi per i picchiaduro, che la stessa software house già stava adottando per il primo capitolo di Mortal Kombat (solo uno dei tanti incroci tra questi best seller videoludici).
I corpi si differenziano quindi unicamente per carnagione e taglia (“XS o XL, le abbiamo entrambe”), oltre ai volti di ogni star “incollati” sul collo.
La fluidità nonostante i ritmi di gioco forsennati, finezze come la prospettiva dinamica, il contorno imbellettato con flash di fotografi, cheerleaders e telecronisti, ma soprattutto l’enorme gamma di schiacciate: ogni partita a NBA Jam era un vero e proprio tripudio visivo.
Un altro aspetto fondamentale nella conduzione di NBA Jam a uno stato di semi-immortalità è il comparto sonoro, non tanto per i comunque validissimi motivetti funkeggianti di accompagnamento, quanto per una telecronaca indimenticabile.
Il commentatore ha un nome e cognome: Tim Kitrzow, mancato attore comico arrivato a New York dal Wisconsin, che per anni sbarcò il lunario con lavori saltuari, fino ad arrivare alla Midway, cui prestò i suoi talenti vocali inizialmente per alcuni flipper (lo si può riconoscere mentre imita Rod Serling nel fortunatissimo pinball dedicato ad Ai Confini Della Realtà).
La possibilità di magnificare le gesta dei supercestisti venne accolta con entusiasmo da Tim, che per la sua prestazione divenuta iconica ricevette appena 900 $, frutto di 18 ore passate in sala di registrazione.
Kitrzow non se ne rammaricò più di tanto, soprattutto perché riuscì a costruirsi una carriera ritagliandosi un ruolo nei panni dello speaker sportivo iperesaltato.
Da annotazioni più o meno pertinenti come “He’s on fire!”, “From downtown” e il fomentantissimo “Reeeejected”, fino a esclamazioni rasenti il nonsense come “Razzle-Dazzle” e “Boomshakalaka!”, non ci si fece mancare nulla.
Una manica di smanettoni si dedicò anni fa a smembrare ogni singolo byte della versione SNES del gioco, trovando delle registrazioni poi non utilizzate, in cui Kitrzow propone alterazioni di alcune frasi note, condendole con parolacce.
Il capolavoro è stato compiuto implementando tali estratti audio nel gioco; la rom è perfettamente funzionante e la si può trovare titolata NBA Jam XXX. Qui di seguito un assaggio (ovviamente NSFW, a meno che non lavoriate per la Muthafacka SRL):
Questo aneddoto esemplifica come una delle ragioni per cui l’amore verso NBA Jam si sia protratto nei decenni sia da ricercare in ciò che non è immediatamente visibile: c’è tutto un insospettabile mondo, sommerso tra le righe di codice, che è stato scoperto passo passo da provetti Schliemann informatici, anche se pare ci sia ancora da scavare.
Per dirla citando la Cantantessa di Catania:
LA BELLEZZA DELLE COSE AMA NASCONDERSI
Una volta spremute energie in un titolo del genere, che male ci può essere a inserire un doppelganger pixellato di sé stessi, da richiamare solo attraverso un’esclusiva password composta da 3 lettere iniziali e una precisa data?
Buona parte del team Midway (in primis Turmell, autocertificatosi con qualità da campione) decise così di inserirsi nel gioco, seppur in questa maniera molto discreta.
L’NBA sulle prime ebbe a ridire per queste innocue buffonerie, sollecitandone la rimozione, ma la storia le darà clamorosamente torto.
Difficile in questi casi comprendere da dove partì il tamtam che portò gli habitué delle sale giochi a svelare l’esistenza di questi cestisti della domenica, di sicuro c’è che da quel momento le voci di altre easter eggs si rincorsero instancabili, plastilina nelle mani dei miocuggini di turno: rumors sulla presenza di Beavis & Butthead, vari personaggi di Mortal Kombat, una cheerleader (la modella Kerri Hoskins, poi interprete di Sonya Blade in Mortal Kombat 3), il dinosauro Barney, addirittura Bill Clinton.
L’onda venne cavalcata, con una crescita esponenziale di personaggi nascosti già dalle conversioni casalinghe (comprese proprio alcune di quelle presunte guest star di cui si vociferava), per poi sbracare definitivamente con i successivi titoli.
Altri misteri hanno richiesto anni per essere scovati, come il tank game gratuito (inteso come carroarmati e non come Timberwolves).
Solo nel 2008 inoltre lo stesso Turmell, fan sfegatato dei Pistons, ammise la manomissione di alcune variabili per fare in modo che, qualora il giocatore scelga i Bulls (possibilità da non scartare, visto che si trattava della squadra più popolare), durante le fasi finali nei match tra i rossi e Detroit (e solo contro di loro), Pippen e Grant diventino vittime del “braccino”, fallendo molte più realizzazioni di quanto non capiti loro solitamente.
Altre voci galleggiano in una sorta di purgatorio, in attesa di concrete conferme che forse non arriveranno mai: pare certo che Gary Payton, escluso dal fare coppia con Shawn Kemp nei Sonics (a favore di Benoit Benjamin prima e Detlef Schrempf poi) per vincoli contrattuali, abbia contattato Midway, disposto a qualsiasi cifra pur di comparire nel gioco; The Glove arrivò a spedire varie foto che lo ritraevano in fasi di gioco pur di agevolare l’opera. Non pago di ciò, l’ex play di Seattle agì pure da ambasciatore per l’inserimento nientemeno che di Michael Jordan.
Il desiderio venne esaudito: attraverso 50 copie rarissime del gioco da sala in cui compaiono sia Jordan che Payton; i già citati problemi di sfruttamento dell’immagine ne impedirono difatti una distribuzione più capillare.
Oltre al paio di cabinati consegnati ai campioni si racconta che, a parte quelli trattenuti da membri dello staff, un’altra quarantina di restanti esemplari abbiano trovato alloggio nelle ville di altrettanti facoltosi videoludomaniaci, gente che probabilmente si accende i sigari bruciando Wall Street Journal arrotolati, freschi di consegna da Paperboy.
…AND JAMSTICE FOR ALL
Per chi volesse evitare di ricorrere a sacrifici di bestiame pur di pagarsi match su match in sala giochi, ecco che Midway commissionò ad Acclaim durante il corso del 1994 conversioni casalinghe per praticamente tutte le maggiori console dell’epoca.
Miracolosi in particolare gli adattamenti per i portatili Game Boy e Game Gear, che pur tarpate conservarono pure un buon numero di cheat.
Sui 16 Bit l’ennesimo confronto tra Super Nintendo e Mega Drive si concluse con un sostanziale pareggio, laddove la palette di colori più sgargianti favoriva l’allora pezzo forte della grande N, che d’altro canto mancava inspiegabilmente di una colonna sonora durante gli incontri.
In entrambi i casi venne ritrasmesso egregiamente il feeling provato in sala giochi, garantendo una riproduzione di tutto rispetto e soprattutto un gameplay sostanzialmente inalterato, con il comprensibile ridimensionamento in termini di dimensioni degli sprite e più in generale di dettagli grafici.
I roster in questo caso vennero parzialmente revisionati (come accaduto anche negli update del cabinato), in particolare a causa delle tragedie che coinvolsero Reggie Lewis e Drazen Petrovic; Shaquille O’Neal, nonostante si fosse assicurato 2 cabinati del videogame originale (uno in casa, l’altro seguiva le trasferte dei Magic; sì, avete letto bene), non permise che il suo alter ego digitale fosse presente nelle versioni casalinghe.
Shaq concesse difatti i suoi diritti in esclusiva a Electronic Arts, che non solo scelse l’immagine di The Big Diesel per decorare la copertina del loro NBA Live ’96 su PC e PSX, ma ebbe così occasione di regalarci l’immondo Shaq Fu.
Su console venne rimosso anche Charles Barkley: Sir Charles firmò nel mentre un contratto di esclusiva con Accolade, la quale partorì Barkley Shut Up And Jam!, sempre 2-on-2 ma più ruvido e ambientato quasi interamente nei playground, con una serie di baskettari fittizi da selezionare oltre al leader dei Suns. Esperimento non proprio riuscito e fin troppo ostico al joypad. Il secondo capitolo, sensibilmente migliore, se lo filarono in pochini.
Sull’onda lunga del successo clamoroso riscosso in termini di monete inghiottite dal cabinato, Midway terminò le conversioni per le home console e si gettò a capofitto nella produzione di un seguito, denominato NBA Jam: Tournament Edition.
Il titolo risultò in fondo come un more of the same: più cestisti disponibili per ogni squadra, più personaggi nascosti, più categorie di valutazione per ogni giocatore, compresa la forza fisica, una divisione in stoppate e palle rubate rispetto a un generico valore di difesa e il clutch, per conoscere l’affidabilità nei momenti clou dell’incontro.
La possibilità di effettuare sostituzioni tra un quarto e l’altro, oltre al conteggio degli infortuni subiti (che limitano progressivamente velocità e precisione delle vittime) aggiunsero un minimo di spessore tattico che non guastava.
Anche in questo caso Acclaim si prodigò nel maggior numero di conversioni possibili senza dover gridare WOLOLO!: vennero inclusi anche il Sega Saturn, lo sfortunato Atari Jaguar e la neonata PSX, hardware che supportavano repliche 1:1 del gioco da sala senza grossi sforzi. Tra gli innesti rispetto all’originale degni di menzione i randomici power-up e gli hot spot attivabili per ottenere più punti.
Il ferro era bello che rovente, così non sorprese l’arrivo di NBA Hang Time, altra azzeccata creatura Midway, appartenente a un filone parallelo a quello di NBA Jam; saltano all’occhio un look più fumettoso e la possibilità di creare un proprio atleta, ricevendo punti con cui aumentarne le abilità in conseguenza delle vittorie.
Altra feature degna di nota la possibilità di eseguire con relativa facilità gli alley oop (contrariamente a NBA Jam, in cui tale manovra era effettuabile solo da una coppia di giocatori particolarmente rodata) e spettacolari slam dunk combinate.
La legacy di NBA Jam si espanse ben oltre il proprio albero genealogico (annoverante anche il pigro College Slam dedicato all’NCAA): nacquero come funghi cloni più o meno spudorati prodotti da altre software house.
Per citare i più significativi si può cominciare dalle semi-consanguinee di Midway: Acclaim con il suo snervante tie-in di Space Jam per 32Bit e PC, mentre Sculptured Software mandò in produzione sempre sullo stesso tema il nettamente migliore Looney Tunes B-Ball su Super Nintendo.
Già citata la sventurata saga di Barkley: Shut Up And Jam (che ha trovato continuazione in uno splendido gioco di ruolo fan-made; cercheremo di approfondire prossimamente) , non riuscì a emergere neppure Jammit by GTE, poverissimo 1vs1 senza ragion d’esistere.
Altro titolo su licenza è l’inguardabile Rap Jam: Volume One per SNES (1995), con una rosa di, appunto, rapper piuttosto in voga ai tempi, di ambo i sessi. Un’invereconda tavolozza di tonalità camouflage e niente musica (!!!) durante gli incontri; restiamo ancora in attesa del Volume Two.
Impensabile lasciare fuori il mitico Street Hoop di Data East del 1994, nelle case dei fortunati possessori Neo Geo ma anche e soprattutto nella forma di un arcade gettonatissimo: 3-on-3 a nazionali confezionato al meglio, con una soundtrack originale da urlo.
HANG BY A 3D
Come altre saghe videoludiche acclamate nella prima metà degli anni ’90, da Road Rash a Bubsy fino a Earthworm Jim, anche NBA Jam pagò il salasso di uno scadente episodio in 3D, chiamato Nba Jam Extreme.
Raffazzonato e rilasciato senza un’adeguata fase di testing, lasciò scoperto il fianco a una serie di errori di programmazione talvolta imbarazzanti.
Ulteriori 4 seguiti con il suffisso dell’anno, a partire dal mediocre NBA Jam 99, uscirono esclusivamente su console Nintendo, con le versioni a 64 bit in uno snaturato 5vs5, con incedere molto più ragionato, falli e veri e propri schemi.
Acclaim si prodigò di resuscitare NBA Jam nel 2003 con una sorta di reboot per PS2 e X-Box: un 3-on-3 annegato in un ammasso di trovate strambe, su tutte le paradossali schiacciate da 3 punti. Il tiepido entusiasmo con cui venne accolto fu un colpo di grazia, la storica soft house andò tristemente gambe all’aria solo qualche mese dopo.
Con il fallimento anche di Midway durante la primavera del 2009 il brand passò poi nelle mani di Electronic Arts, che nel 2010 mandò nei negozi anch’essa un titolo omonimo del capostipite, con Turmell tornato al ponte di comando, strizzando l’occhio stavolta anche al mercato degli smartphone.
Riabbracciato in pieno lo spirito e il format di sport a coppie, a livello di feedback degli utenti si tratta nettamente del migliore risultato da Tournament Edition, il che fa sospettare il rilascio di futuri capitoli nonostante mancanza di annunci a riguardo.
Pochissimi giorni fa è stata resa disponibile una versione hackerata di NBA Jam TE per Super Nintendo, modificata con gli aggiornamenti alla stagione attuale, oltre a un roster di nuovi personaggi sbloccabili tale da sentirsi costretti a riprendere in mano il pad e rivedere quel pallone ormai logoro e bruciacchiato, le cui fiamme però non vogliono proprio sapere di spegnersi.
[Per sbloccare Harambe occorre seguire precise istruzioni disponibili da mesi su Twitter]
Grandissima rassegna, complimenti! Segnalo solo un altro videogioco per PC ufficiale NBA su cui sono letteralmente morto da piccolo “NBA Playoff” della EA del 1989 (qua un video https://www.youtube.com/watch?v=tHw9Xu89jEM)…spettacolo puro!!!