Si sa che la vita è fatta di sliding doors, di treni presi o persi. L’ha detto molto meglio di quanto avremmo mai potuto fare noi William Shakespeare in quell’operetta minore chiamata Giulio Cesare: “C’è nelle cose umane una marea che colta al flusso mena alla fortuna: perduta, l’intero viaggio della nostra vita si arena su fondali di miserie.” E ovviamente questo è un concetto che si applica alla perfezione al basket.
Il 26 giugno 2003, al The Theater del Madison Square Garden si è scritta una parte consistente del passato recente e del presente della NBA. Tanto per dirla in cifre, da quel draft sono stati tirati fuori NOVE all-star e quattro All-NBA, oltre ovviamente ad una serie abbastanza usuale di giocatori tra il medio e il discreto, alcuni dei quali comunque in grado di costruirsi una carriera dignitosa come pro, di qua o di là dall’Atlantico. Come Reece Gaines e Troy Bell, visti anche da noi tra Biella, Milano, Treviso (il primo) e Reggio Emilia (il secondo). Ma non è certo per Gaines e Bell, con tutto il dovuto rispetto, che un draft passa alla storia. E neanche per Big Sofo Schortsianitis, che comunque tra Maccabi, Panathinaikos, Olympiacos e nazionale greca qualche soddisfazione se l’è anche tolta, in carriera come a tavola. Il draft NBA di cui ci accingiamo a parlare inizia il 16 aprile. Con due contendenti: i Denver Nuggets di coach Jeff Bzdelik (e già qui si aprirebbe un mondo: questo ha fatto da head coach di una squadra NBA per quasi 200 partite, che voi ci crediate o meno) hanno una striscia aperta di sette sconfitte, fate otto dopo la sconfitta coi Rockets, record di fine stagione 17-65. Un paio d’ore prima, i Cleveland Cavaliers guidati (si fa per dire) da Keith Smart, avevano chiuso la stagione vincendo la seconda delle ultime tre. O se preferite la terza delle ultime sette. Record di fine stagione 17-65, alla faccia del tanking e di chi ama vivere pericolosamente. Insomma, il giorno in cui si tirano su le palline dall’urna, Cleveland e Denver hanno esattamente lo stesso numero di probabilità di chiamare alla 1.
SPOILER: nessuna delle due sceglierà un bidone. Diciamo solo che a una delle due andrà un pochino meglio, rispetto all’altra. William Shakespeare, appunto. E insomma, come avevamo già fatto qualche tempo fa per il draft 2009, ci siamo divertiti a rimettere in fila le scelte del 2003, stavolta però partendo dalla 30 alla 1, così, perché ogni tanto le carte vanno anche rimescolate. Allacciate le scarpe, o le cinture, o entrambe: si parte.
30. Darko Milicic (posizione reale: 2)
Ok, è abbastanza ovvio che qualsiasi GM di una squadra sceglierebbe più volentieri Big Sofo, piuttosto che lui, col senno di poi. Però perdonateci, qui si entra direttamente nel mito. Già dal soprannome, The Human Victory Cigar. Alle 468 partite NBA giocate. Al titolo NBA vinto nell’anno da rookie, giocando cinque minuti in totale nelle finals. All’addio al basket a 29 anni per tentare con il Kickboxing. Due riprese, sconfitto per KO tecnico. Al nuovo tentativo col basket, anzi no. Fino al gran finale: adesso ha un’azienda di frutta. Di mele, per la precisione. Se questa cosa di una specie di società di frutta vi sembra di averla già sentita in un famoso film, non fa niente, è normale.
29. James Singleton (posizione reale: non draftato)
Dopo aver collezionato doppie doppie in NCAA a Murray State e non essere stato scelto al draft, ha cominciato un tour mondiale che lo ha visto indossare le maglie di due squadre italiane (Jesi e Milano), tre NBA (Clippers, Mavs e Wizards), una spagnola, tre cinesi, una venezuelana, due israeliane, una coreana. Se vi serve una guida turistica, l’MVP dell’All-Star Game italiano del 2005, nonché attuale assistant coach degli Austin Spurs in G-League, è il vostro uomo.
28. Keith Bogans (posizione reale: 43)
So che vi può sembrare incredibile, e in effetti lo sembra anche a me mentre lo scrivo, ma il 28 settembre 2014 Keith Bogans è stato introdotto nella Hall of Fame della Kentucky University. Dove ha militato per quattro onestissimi anni, a cui ha fatto seguire 11 stagioni in NBA di cui probabilmente la migliore è stata quella ai Bulls, dove è partito in quintetto per tutte e 82 le partite ed è arrivato alle finali di conference. La stagione da record, invece, è stata l’ultima: nel 2013-14 ha ricevuto 91.967,24 dollari per ogni minuto giocato con la maglia dei Boston Celtics. Eroe.
27. Sasha Pavlović (posizione reale: 19) Una delle storie più belle del draft 2003 è che la squadra da cui sono stati chiamati il maggior numero di giocatori non è un college, come di solito accade, né una potenza del basket europeo, ma bensì il Budućnost Podgorica, da cui vennero scelti ben tre giocatori. Oltre a Žarko Čabarkapa e Slavko Vraneš, le cui carriere NBA furono tutto sommato trascurabili, vale la pena di ricordare come nei Cleveland Cavs che persero malamente le Finals del 2007 lui fosse il quinto realizzatore, giocando quasi 23 minuti a partita, e partendo in quintetto in tutte le partite dei playoff. Poi è tornato di qua, e ha vinto il campionato serbo col Partizan e la coppa di Grecia col Panathinaikos.
26. Jason Kapono (posizione reale: 31) Con quella faccia un po’ da Bruno Cerella d’oltreoceano, il campione 2007 e 2008 del 3-Point Contest era lo stesso che avevamo visto sin dal primo anno in NCAA, e cioè un tiratore mortifero. E poco altro, ok. Però ci sono un sacco di storie fantastiche su di lui, tipo che raccontava che quando era a Miami gli avversari salutavano i giocatori degli Heat dicendo “hey, Shaq”, “hey, Dwyane”, e quando arrivava lui gli dicevano “hey, um, dude”. Oppure quando all’All-Star Weekend 2007 raccontò che non era stato invitato alla festa di Alonzo Mourning, e che quindi avrebbe provato ad autoinvitarsi. Nell’estate del 2001 partecipò a un allenamento pre-draft con Brian Scalabrine, uno degli esercizi consisteva nel tirare dei jumper in step-back. Fece 24-25 e il White Mamba non la prese benissimo. Ha chiuso a 32 anni, con un titolo di campione NBA e uno di campione di Grecia.
25. Willie Green (posizione reale: 41)
Sì, è lo stesso Willie Green che attualmente fa parte del coaching staff dei Golden State Warriors – e di cui si dice che un giorno potrebbe essere il capoallenatore, qualora Steve Kerr dovesse decidere di dire basta. Se una cosa è stata chiara in questo draft, è che a un primo giro che ha fatto la storia del gioco, ha fatto seguito un secondo decisamente “consistente”. E Willie Green in questo senso incarna alla perfezione il discorso: già non è facile arrivare in NBA partendo da Detroit-Mercy, un ateneo che ha vinto TRE partite in totale al torneo NCAA nella sua storia. Poi, una volta arrivati, non è detto che si riesca a restarci. Willie, zitto zitto, ha giocato più di 700 gare in NBA, di cui quasi 300 in quintetto, aggiungendo nel corso della carriera un tiro da tre che da rookie non aveva assolutamente e che lo ha portato a diventare un cecchino nella parte finale della carriera, dopo aver terminato la fase in cui faceva dei canestri tipo questo.
24. Carlos Delfino (posizione reale: 25)
Partiva dalla Fortitudo degli anni d’oro, quella che arrivò in finale 10 volte in 11 campionati. Lui ne disputò due in due anni, perdendole entrambe contro la Benetton Treviso. Arrivò in NBA un po’ a fari spenti, non in molti credevano in lui, ritenuto un po’ troppo lento per giocare guardia e un po’ troppo piccolo per fare la small forward. Quattro stagioni nell’anonimato e il ritorno in Europa, al Khimki, con un supercontratto. Poi uno dice ok, in NBA è andata così così, in Europa ti trattano da re, questo di sicuro resta. E invece no: arriva la chiamata dai Milwaukee Bucks, e per Delfino ci sono quattro stagioni da protagonista vero, praticamente sempre in quintetto, tutti i career high ritoccati con la celebre doppia doppia ai Knicks con 30 punti e 11 rimbalzi seguita dall’altro trentello contro i Kings. In 5 giorni mise insieme 96 punti. Adesso dovremmo vederlo a Torino, allenato da Larry Brown. Qui è dove cerco di far capire quando usare il condizionale, diciamo così.
23. Mickaël Piétrus (posizione reale: 11)
La cosa più spettacolare di Piétrus sono probabilmente il nome per esteso, Mickaël Marvin Soriano Piétrus – un incrocio tra un pirata creolo e un centrocampista incontrista argentino – e i suoi soprannomi: a parte il più banale MP, tra i nicknames che gli sono stati affibbiati nel corso della carriera ci sono robe tipo “Puma”, “Air France” e il mio preferito, “Euro Jordan” (vai a capire perché). C’è stato un periodo nella sua carriera in cui sembrava davvero che MP potesse diventare un giocatore NBA. Soprattutto se guardiamo alle medie “per 36 minutes”. Solo che poi “36 minutes” non li giocava mai. Difensore più che buono, rivedibile al tiro soprattutto dalla lunetta, si è costruito comunque la sua bella carriera da specialista, nonostante le aspettative fossero altre.
22. Dahntay Jones (posizione reale: 20) Le credenziali con cui arrivò in NBA non erano male: cugino di Al Harrington (e va beh), reduce da una stagione più che discreta a Duke, dove riuscì a vincere il torneo ACC e portare i Blue Devils alle Sweet 16 come miglior marcatore e secondo rimbalzista di una squadra che poi ne avrebbe mandati altri cinque in NBA in anni diversi. La cosa bella della carriera di Dahntay Lavall Jones è che delle sue 624 partite nella Lega, ne ha giocata UNA nei Cleveland Cavs 2015-2016, che lo avevano firmato il 13 aprile, e ha poi giocato una cinquantina di minuti totali nei playoff, per cui è formalmente un campione NBA. Ora, lo so che detta così sembra una barzelletta, comunque Dahntay aveva già a curriculum tre stagioni discrete, una in maglia Grizzlies, una ai Nuggets e una ai Pacers (a 10.2 punti di media a partita). Ha raggiunto il livello di Eroe Omerico quando ha raccontato che durante un prepartita coach K cercò di motivare i suoi entrando negli spogliatoi con una lancia fiammeggiante.
21. Travis Outlaw (posizione reale: 23)
Quel periodo meraviglioso in cui nelle partite tra squadre NBA un Outlaw (Bo) ne marcava un altro (Travis, appunto). Praticamente una sfida all’OK Corral. Uno dei cinque giocatori che quell’anno vennero chiamati al draft direttamente dall’High School, e come a molti accadde (non a tutti, ok) la sua prima stagione fu assolutamente da dimenticare. I Blazers lo schierarono per DICIANNOVE minuti totali. In tutta la stagione. Poi le cose andarono un po’ meglio, Travis imparò a giocare e pur rimanendo un mezzo rebus tattico, troppo poco rimbalzista per giocare da 4 e troppo poco tiratore da fuori per essere un 3, riuscì a mettere insieme delle discrete cifre, tanto da convincere i Nets ad allungargli un contratto da 7 milioni per una stagione. Attualmente si trova in libertà vigilata (fino a maggio di quest’anno) per possesso di marijuana. Non male per uno che di cognome si chiama Outlaw.
20. Kendrick Perkins (posizione reale: 27)
Se non siete dei comics addicted, potete saltare le prime righe di questa parte. Se non sapete cosa voglia dire comics addicted, idem. Ora, non siamo a livello di Robin Lopez, assiduo frequentatore del ComicCon di San Diego, però la cosa bella è che Perkins era soprannominato Swamp Thang, che se siete degli amanti del genere, ecco, sono abbastanza sicuro che vi dica qualcosa. Ma il nome di Perkins, e qui torniamo sul rettangolo di gioco, potrebbe dirvi qualcosa se vi diciamo Rondo-Allen-Pierce-Garnett-Perkins, che se il vostro cuore sanguina di verde sicuramente avete già capito di cosa stiamo parlando. E come spesso accade nella NBA, una volta che si pensa che uno possa diventare un giocatore, ecco che viene scambiato, o succede qualcos’altro. Così la miglior stagione di KP, a 10.1 punti e 7.6 rimbalzi, coincide con l’ultima stagione giocata per intero ai Celtics. Quello che abbiamo visto dopo, ai Thunder, ai Pels e ai Cavs, non è più stato lo stesso.
T.J. Ford (posizione reale: 8)
Se dovessimo sintetizzare la sua carriera in una frase, direi che è stato bello finché è durato. Con quel fisico e quella rapidità, tra Milwaukee (dove saltò una stagione intera per infortunio alla schiena), Toronto e il suo primo anno ai Pacers, stavamo parlando di un giocatore che aveva in canna quasi quindici punti a partita e che aveva passato tre stagioni nella top 20 degli assist. Appunto, finché è durato. La situazione della sua schiena, nonostante l’intervento chirurgico che lo tenne fermo per tutto il suo secondo anno, riprese ben presto a peggiorare. Nonostante i premi individuali vinti al suo ultimo anno universitario (Wooden e Naismith Award) T.J. Ford scelto così alto fu un azzardo – perché già ai tempi del college aveva avuto problemi di schiena – e col senno di poi possiamo dire che non ha pagato. Ma “del senno di poi si può sempre ridere e anche di quello di prima, perché non serve”.
18. James Jones (posizione reale: 49) Se uno si limitasse a guardare solo le sue cifre individuali in carriera, magari andrebbe fatto scendere di qualche posizione. Poi uno guarda meglio e vede che ha vinto la gara del tiro da 3 nell’All-Star Game del 2011, e soprattutto che di questo draft così ricco di talento, sono solo in tre ad aver vinto tre titoli NBA, e lui è uno di questi, anzi, è l’unico di quelli scelti al secondo giro ad esserci riuscito. Dopo aver disputato una carriera liceale mostruosa (nel suo ultimo anno faceva 25+12 con 6 stoppate a partita), ha capito che la sua unica chance era quella di costruirsi una carriera come arma tattica, ché in NBA serve sempre. Missione compiuta. Uno parecchio famoso in NBA ha detto di lui “he’s my favorite player of all time”. A voi scoprire di chi si tratta.
17. Luke Ridnour (posizione reale: 14)
Arrivato in NBA con l’etichetta – pesantissima – di “Pac 10 player of the year”, che se sei un play può voler dire anche Gary Payton, Terrell Brandon, Jason Kidd, Mike Bibby, tanto per dire quelli che l’hanno vinto prima di lui. Nonostante il fisico non esattamente alla Zion Williamson, comunque, arrivò in NBA disputando buone stagioni in maglia Sonics, soprattutto nel 2006 quando finì nella top 20 sia per assist a partita (nono) che per recuperi (diciassettesimo). Da sempre tiratore di liberi affidabilissimo (86,23% in carriera, solo 36 giocatori meglio di lui nella storia della NBA). Non male per uno che viene da un posto sperduto nell’Idaho che si chiama Coeur d’Alene (cuor di lesina). A giugno 2015 è stato scambiato 4 volte in una settimana, a inizio luglio tagliato dai Raptors. Luke, che è sempre stato un ragazzo sveglio, capisce che in NBA non metterà più piede, e annuncia prima un anno sabbatico, quindi il ritiro.
16. Steve Blake (posizione reale: 38)
Nelle sue 870 presenze in NBA è riuscito a giocare con Lakers, Warriors e Pistons senza vincere neanche lo straccio di un titolo. Sesto ogni epoca nella Division I della NCAA per assist totali, nei suoi quattro anni collegiali ha guidato, insieme a Juan Dixon, Maryland all’unico titolo vinto finora dall’ateneo. Il suo momento massimo di popolarità social è stato quando hanno iniziato a circolare aneddoti che lo dipingevano come una persona orribile, tipo . Ovviamente poi è partita una serie di storie in stile Chuck Norris facts, per cui è difficile distinguere quelle vere da quelle inventate. E un’infinità di meme, ovviamente. Però il fatto tecnico è che comunque stiamo parlando di un giocatore che ha segnato oltre 1000 triple con un rispettabilissimo 38,3% ed ha avuto un rapporto di 2.8 assist per turnover.
15. Zaza Pachulia (posizione reale: 42)
Già il fatto che in NBA esista una “Zaza Rule” (coniata dopo il suo famigerato intervento che causò l’infortunio di Kawhi Leonard durante le finali di conference del 2017 tra San Antonio Spurs e Golden State Warriors), potrebbe darci motivo di includerlo in questa lista. Arrivato in NBA da diciannovenne dopo essere cresciuto cestisticamente in Turchia dove venne arruolato, quindicenne, dall’Ulkerspor, appartiene adesso a quella ristretta lista di giocatori che hanno disputato almeno 1000 partite in NBA: per dire, oggi sono solo quindici i giocatori attivi ad aver raggiunto questo numero. In tutto questo tempo, si è messo al dito un paio di anelli dando un contributo non solo di facciata alle vittorie del 2017 e 2018 dei Warriors, anche se la cifra più clamorosa di questo giocatore è un’altra: 14227. Sono i voti che gli sono mancati per partire titolare all’All-Star Game del 2016, quando il popolo georgiano tutto decise che voleva massimizzare il principio molto in voga secondo cui ”uno vale uno”, e Zaza finì come ottavo giocatore più votato in totale.
14. Kirk Hinrich (posizione reale: 7)
Terzo nella storia dei Chicago Bulls per partite giocate, dietro ai soli Jordan e Pippen, terzo per assist e recuperi dietro ai soliti due. È stato secondo quintetto difensivo NBA nel 2007 ed è nella top 100 della Lega per assist totali. Una volta, prima di una partita dei Bulls contro i Suns, campionato 2008-2009, coach Del Negro gli fa “Kirk, tu sei il nostro miglior difensore sui pick and roll, prendi Nash”. Interviene Derrick Rose e fa “No, Nash lo prendo io.” Del Negro gli fa: “No, Kirk difende meglio di te sui pick and roll, tu prendi Barbosa”. Andò a finire con Rose su Nash, prevedibilmente, e con la vittoria dei Bulls. Ma comunque Hinrich non ha mai avuto problemi a farsi rispettare dagli avversari, chiedete ai Miami Heat per ulteriori delucidazioni.
13. Leandrinho Barbosa (posizione reale: 28)
Con buona pace di Giusy Ferreri, questo viene davvero dalle favelas. In un post su TPT, parlando della sua infanzia, Leandro dice: “Sono cresciuto in una favela di San Paolo. Era un posto tosto. Se foste entrati da quelle parti senza conoscere nessuno, non ne sareste usciti”. A otto anni rimane folgorato dalla visione di una partita di Michael Jordan, e con la potenza con cui solo i bambini sono capaci di sognare, stabilisce “I have to get to the NBA no matter what”. Per sé stesso, e ancora di più per la sua famiglia. Quanto può essere lunga la strada dalle favelas di San Paolo a Phoenix, Arizona? Una storia stupenda, coronata dal premio di Sesto uomo dell’anno nel 2007 e il titolo NBA nel 2015.
12. Nick Collison (posizione reale: 12)
Un po’ per il rendimento avuto, un po’ perché la sua carriera non andrebbe modificata di una virgola, è giusto che Nick Collison si trovi dove è stato scelto. Una carriera iniziata nella squadra NBA che ci manca di più, i Seattle Sonics, e della quale ha catturato l’ultimo rimbalzo della quarantennale storia. La sua maglia numero 4 verrà ritirata il 20 marzo dagli Oklahoma City Thunder, seguendo l’esempio dei Kansas Jayhawks. E badate bene, se in NCAA magari i suoi numeri avrebbero anche potuto giustificare il ritiro da soli (oltre 2000 punti e 1000 rimbalzi in quattro stagioni di basket collegiale), il fatto che anche i Thunder faranno lo stesso per un giocatore che ha avuto meno di 6 punti di media in carriera non è affatto banale. È un riconoscimento – doveroso e meritato – al suo ruolo di leader silenzioso, di capitano che non abbandona mai la nave. Cosa niente affatto scontata nel mondo dello sport odierno, ancor di meno oltreoceano. La sua numero 4 non sarà più di nessun altro ed è giusto che sia così.
11. Chris Kaman (posizione reale: 6)
Il soprannome più bello della storia della NBA (“The Caveman”, ossia “l’uomo delle caverne” o più semplicemente “Il cavernicolo”) non basta a giustificare la presenza del tedesco per modo di dire in questo re-draft. Casomai il fatto che dopo un inizio abbastanza in sordina, Chris ha saputo lavorare molto a testa bassa, al punto da essere il centro titolare dei primi Los Angeles Clippers capaci di vincere una serie di playoff, nonché di venire convocato per l’All-Star Game nel 2010. Il passaporto tedesco fece sì che le sue strade si siano incrociate anche con quelle della nazionale italiana, in una partita per gli azzurri tutt’altro che memorabile: il cavernicolo scrisse 17+17, mettendo, insieme a WunderDirk, una mezza pietra tombale sull’avventura della nazionale che per la prima volta aveva a disposizione tre giocatori NBA. Curiosità: il 6 marzo del 2016, mentre vestiva la maglia dei Blazers, al ventiquattresimo tentativo ha segnato la prima tripla della sua carriera NBA. Poi non ne ha più tentate.
10. José Calderón (posizione reale: non draftato)
Miglior percentuale da tre dell’intera NBA nel 2013. Miglior percentuale ai liberi del 2009, quando tirò con un irreale 151-154. Quasi 900 partite giocate, con un rapporto di quasi 4 a 1 nella casella “assist per turnover” (3,84 al momento in cui scriviamo) e questo sì, è un dato veramente impressionante, considerando che è parametrato su un impiego medio di 26.5 minuti a partita e che comunque stiamo parlando di uno dei soli 65 giocatori nella storia della NBA ad aver superato quota 5000 assist. Peraltro nell’indifferenza generale, purtroppo per lui. Ma se si considera che fino al 2005 ha giocato nel Saski Baskonia (all’epoca Tau Ceramica) dopo essere stato passato da tutti al draft, direi che c’è da fargli tanto di cappello.
9. Boris Diaw (posizione reale: 21)
Già la pronuncia del nome ci dice qualcosa sul giocatore, magari non è sufficiente per una scelta così alta, ma la cosa bella del francese è che in ossequio a cotanto cognome, ha mostrato dei momenti di autentica onnipotenza sul parquet, nel senso che è difficile trovare qualcosa che non sapesse fare. Al suo primo anno ai Suns ha giocato più o meno in tutti i ruoli, ma diciamo che dopo un inizio agli Hawks in cui veniva schierato come guardia tiratrice è poi diventato un “4 tattico”. Nelle finals del 2014, è stato una delle chiavi della vittoria dei San Antonio Spurs contro i Miami Heat, limitando il loro giocatore più forte molto più di quanto non ci abbiano detto le cifre. Ma niente sarà mai bello come la copertina del National Geographic Kids con la sua foto e il titolo “Hoops to Hippos”.
8. Mo Williams (posizione reale: 47)
Quando si parla di giocatori “miracolati da un compagno di squadra”, Mo Williams è il primo nome che viene in mente. È però forse una visione un po’ riduttiva della carriera del play che veniva da Alabama e iniziò la sua carriera NBA senza neanche mezzo riflettore puntato addosso (per dire, venne chiamato dopo Sani Becirovic, che in Europa ha fatto cose grosse ma oltreoceano non ha mai giocato). A parte aver disputato un All-Star Game nel 2009 ed aver chiuso la carriera in gara-7 delle NBA Finals del 2016, il tutto in maglia Cavs, Maurice ha comunque fatto delle ottime stagioni a Milwaukee e non ha certo sfigurato né in maglia Clippers né nelle altre squadre in cui ha girovagato. Per le pieghe dei regolamenti NBA, si è portato a casa 2.2 milioni di dollari dopo aver annunciato il ritiro. Not bad.
7. David West (posizione reale: 18)
Anche qui, facile giocare accanto a Chris Paul, direte voi. Ma oh, alla data del ritiro lui può vantare 2 presenze all’All-Star Game (che sono due in più di me e di voi, per dire), 2 anelli di campione NBA (idem), un migliaio di partite giocate. Ha saputo convertirsi da grande finalizzatore (quando giocava con CP3, per l’appunto) in solido cambio per i lunghi: un anno con Pop, due con Steve Kerr: in queste tre stagioni, nelle quali gli si chiedeva qualcosa di diverso rispetto alle sue stagioni con Hornets e Pacers, ha tirato con il 55% abbondante dal campo e aveva delle statistiche Per 36 Minutes tra le migliori nella sua carriera a rimbalzo, negli assist, nelle stoppate e nei recuperi. Il tutto, lo ricordiamo, fatto da un 2.06 di 113 kg che tirava con l’81,7% dalla lunetta.
6. Josh Howard (posizione reale: 29)
Al netto delle ammissioni – anche piuttosto candide, a dire il vero – relative al fare uso di marijuana in offseason (e non solo, dicono le malelingue), fino al 22 febbraio del 2010 era stato un giocatore da 15 e 6 rimbalzi a sera. Non proprio sveglissimo, ai test attitudinali per entrare a Wake Forest doveva fare almeno 950, ma il punteggio fu, come dichiarato da lui stesso, “somewhere in the 500s”. Questa cosa, unita a quella di prima, è la spiegazione del perché venne chiamato alla 29 nonostante l’ottima carriera a Wake Forest, dove hanno anche ritirato la sua numero 5. Ma questo non gli impedì di disputare alcune stagioni da solidissima shooting guard/small forward in una squadra con ambizioni da titolo, quei Dallas Mavs che arrivarono a un Dwyane Wade dal vincere l’anello nel 2006. Come molto spesso accade, poi, dopo che è saltato un crociato, quello che si vede dopo non è quello che si era visto prima. Purtroppo.
5. Kyle Korver (posizione reale: 51)
Sapete quanti sono i giocatori nella storia della NBA ad aver realizzato almeno 2300 triple? Vi risparmiamo la fatica di cercare. Sono quattro: Ray Allen, Reggie Miller, Steph Curry e Kyle Korver. Restringiamo ancora un po’ il campo? Ok. Solo lui e Steph Curry hanno realizzato almeno 2300 triple tirando con il 43% da oltre l’arco. Mica male, per uno che veniva da Creighton ed è stato chiamato alla 51. Siamo di fronte ad uno dei più grandi tiratori da fuori di tutti i tempi? “La risposta è dentro di te.” E però non è sbagliata.
4. Carmelo Anthony (posizione reale: 3)
Se da una parte piange il cuore metterlo così in basso, purtroppo è da rimarcare come il giocatore strepitoso visto a Syracuse (dove ha portato l’unico – ad oggi – titolo NCAA della storia) e poi a Denver, si sia poi lentamente affievolito negli ultimi anni senza mostrare grossi sussulti d’orgoglio. Non funzionò l’accoppiata con Allen Iverson ai Nuggets, né fu sufficiente sostituirlo con Chauncey Billups, né cambiare conference per tornare a casa ai New York Knicks. ‘Melo è sempre rimasto quello che abbiamo potuto vedere nel bene e nel male: un grande, grandissimo solista, un attaccante a tratti inarrestabile (suo il record di punti in maglia Knickerbockers, 62): di lui, Paul “The Truth” Pierce ebbe a dire “If I had to single one guy out who is the most difficult player to guard in the league, it would have to be Carmelo.” Non valgono troppo come consolazione i tre ori olimpici: la sua carriera non è stata quella che avremmo tutti sperato, lui in primis.
3. Chris Bosh (posizione reale: 4)
Su lui e Carmelo Anthony le opinioni possono essere discordanti, ne siamo consapevoli. Però a far pendere l’ago della bilancia dalla sua parte sono state le 4 finali NBA giocate, i due titoli vinti, il rimbalzo offensivo più assist a Ray Allen per quel canestro di una certa rilevanza nelle finali del 2013, la sua maglia ritirata dagli Heat, l’epilogo sfortunato di una carriera che stava ancora dicendo qualcosa, anzi, più di qualcosa: il giorno della sua ultima partita, il 9 febbraio 2016, CB non aveva ancora compiuto 32 anni, e nelle due stagioni ai Miami Heat in cui era diventato giocoforza la prima opzione offensiva aveva giocato 97 partite a 20 punti e 7.2 rimbalzi di media.
2. Dwyane Wade (posizione reale: 5)
Su di lui, diverse cose le avevamo già dette qui. Se mai ci fosse ulteriore bisogno di giustificare la sua posizione reale nel draft, ci ha pensato Adam Silver convocandolo d’ufficio per l’All-Star Game 2019 come tributo alla carriera. Messaggio pop per gli haters: “ogni cosa giusta rivela il suo contrario, e se non sei d’accordo mi dispiace per te.” Citazioni hip-hop a parte, la sua capacità di innalzare il livello del gioco e mantenersi in trance agonistica che abbiamo ammirato nelle Finals 2006 lo aveva già consegnato alla leggenda. Ad appena 24 anni.
Abbiamo ripercorso insieme a voi un draft che in molti hanno etichettato come “era-defining”, anche giustamente. Non a caso, ci sono stati 15 giocatori scelti quell’anno che hanno tirato su almeno 50 milioni di dollari di salari, e sì, uno dei 15 è il lottatore di kickboxing/contadino, in caso ve lo steste chiedendo (52.323.642 $ stando a Basketball Reference è la cifra esatta, che al cambio odierno sono poco più di 46 milioni di euro). Come dite? Manca una scelta? La numero 1? Ah sì, quella manca perché è stata rapita dai Monstars, e comunque scusate, c’è qualcosa su di lui che non sia già stato detto? E pensate che sia stato facile fare un intero pezzo sul draft del 2003 senza mai neppure nominarlo? A parte gli scherzi, diciamo un’ovvietà ma la scelta numero 1 del draft 2003 non può che essere LeBron James (posizione reale: 1). Stiamo parlando del giocatore che ha segnato più punti nei playoff nella storia della NBA e che si trova al quinto posto all-time per punti, al decimo per assist. Di un giocatore che non rinuncia mai a manifestare pubblicamente le proprie idee per calcoli mediatici (ricordate quello che disse “republicans buy shoes, too”?).
Di lui, Kareem Abdul-Jabbar ha detto “è più grande del dibattito su chi sia il migliore di sempre, è un eroe dei nostri tempi”. Per noi può bastare così.
Josh Howard prima di David West non si può vedere!
Solo una breve correzione, Delfino perse la seconda finale scudetto con Siena, nel 2004 Treviso fu eliminata 3-0 in semifinale. Per il resto ottimo lavoro e ricordi belli che tornano