grafica di Anna Iannucci
articolo di Marco Pagliariccio
LIE-TU-VA
LIE-TU-VA
LIE-TU-VA
Se nella vostra vita avete avuto la fortuna di assistere ad una gara dello Zalgiris, sarete sicuramente stati colpiti dal fatto che i tifosi biancoverdi intonano spesso questo coro all’indirizzo della propria squadra del cuore.
“Lietuva” significa Lituania. Come se dalle nostre parti allo stadio si gridasse “I-TA-LIA” alle partite della Juve. Impensabile. In Lituania il basket non è il primo sport. È la religione di stato. Per questo quando lo Zalgiris, contro ogni pronostico, fece sua la finale di Eurolega 1999 una nazione intera si strinse intorno ai suoi nuovi eroi. E non è un eufemismo, in questo caso: il 23 aprile 1999, all’indomani del sacco di Monaco di Baviera, in 40 mila si fecero trovare all’aeroporto di Vilnius. Venne proclamata festa nazionale, con scuole, fabbriche ed uffici chiusi, e con un diretta tv nazionale venne organizzato una mega party direttamente a bordo pista con sul palco gli Zas, la band che andava per la maggiore all’epoca in patria, ad intonare live un pezzo preparato apposta per l’occasione: ecco a voi il video di “Eurolyga”, la hit che vi tormenterà nelle prossime settimane.
[EUROLY-GA-GA, EUROLY-GA-GA]
Ma quella coppa alzata al cielo dalla truppa di coach Jonas Kazlauskas non fu solo l’emozione di un popolo, un’emozione probabilmente inferiore solo all’indipendenza dall’Unione Sovietica e al bronzo olimpico del ’92 proprio ai danni dell’odiata ex madrepatria. Fu anche l’inizio di una rivoluzione tecnica per il basket europeo: una ventata di brio che, a cinque anni di distanza, spazzò via il non-basket del Limoges di Boza Maljkovic mostrando come il run and gun che Mike D’Antoni aveva iniziato a predicare in Europa qualche anno prima potesse essere davvero vincente.
Warm-up
Erano anni buoni, anzi buonissimi sotto il profilo economico per lo Zalgiris, che aveva staccato il pass per l’Eurolega grazie alla vittoria in Eurocoppa della stagione precedente, primo titolo europeo della storia del basket lituano. Nel 1996, infatti, la squadra era sull’orlo della bancarotta, ma poi entra in scena Shabtai Kalmanovich, controverso uomo d’affari di origine ebraica con un passato nel Kgb, ucciso nel 2009 con 20 colpi di pistola vicino al quartier generale di Vladimir Putin. Questa, come si suol dire, sarebbe un’altra storia. Ma sta di fatto che lo Zalgiris, dall’avere un piede nella fossa, torna ai livelli di un decennio prima, quelli di Sabonis e Kurtinaitis.
Ai nastri di partenza della stagione ’98-’99, i lituani comunque si presentano con un roster che, nel suo nocciolo giallo-verde-rosso, ricalca pressoché in toto quello che ha fatto suo la vecchia Coppa delle Coppe stracciando in finale la Stefanel Milano qualche mese prima: Stombergas (giustiziere dell’Olimpia con 35 punti in finale), Adomaitis, i fratelli Zukauskas, Masiulis, sono tutti lì, solo Praskevicius emigra in direzione Besiktas. Cambia di fatto solo il pacchetto stranieri, nel quale il veterano Ennis Whatley decide di appendere le scarpette al chiodo e anche il totem Franjo Arapovic, alla soglia dei 33 anni, ha ormai imboccato inesorabilmente il viale del tramonto. Il lockout Nba aiuta e allora la pesca la si fa tutta tra i pro americani. Dai Knicks torna in Europa Anthony Bowie, uno che l’Europa “vera” l’aveva assaggiata con le maglie di Varese e Milano; dai Sonics, invece, opta per il ritorno in Europa il centrone ceco Jiri Zidek, che in Nba ha trovato poca fortuna ma che si improvvisa talent scout di discreto livello. “Marciulionis mi chiamò dicendomi che avevano bisogno di un centro, ma che cercavano anche una point guard e allora feci il nome di un ragazzo che avevo avuto come compagno a UCLA”. Il ragazzo si chiama Tyus Edney e in California era stato uno degli eroi del titolo Ncaa 1995 dei Bruins, mentre tra i pro americani faticava a trovare la sua dimensione. “Jiri era una persona importante per me, siamo cresciuti insieme, eravamo coinquilini – ricorda il folletto americano in un’intervista alla testata lituana Krepsinis – abbiamo fatto tante esperienze insieme, io gli ho insegnato l’inglese. Sapevo mi avrebbe consigliato il meglio. Non sapevo cosa aspettarmi all’inizio, ero preoccupato”.
Non lo sapeva forse nemmeno il resto del team all’inizio, ma lo Zalgiris fa vedere di poter essere più di una outsider sin dal via della stagione, arrivando a chiudere la fase a girone con il record di 12-4: solo Panathinaikos e Olimpia Lubiana fanno meglio. Le folate a mille all’ora di Edney sono un rebus per le difese di mezza Europa e la sua capacità di mettere in ritmo i tanti tiratori appostati sull’arco fa il resto. Nelle Top 16, l’Ulker non oppone resistenza, poco meglio fa l’Efes nei quarti, ma quattro vittorie su quattro sono comunque un biglietto da visita di tutto rispetto per la prima (e, ad oggi, ancora unica, capito Saras?) qualificazione di una squadra lituana alle Final Four di Eurolega. Le avversarie si chiamano Olympiacos Pireo (campione 1997), Kinder Bologna (campione 1998) e Teamsystem Bologna, chiaro che l’aereo che viene dal Baltico sia il meno considerato, come ricorda Saulius Stombergas. “Alla fine del meeting pre-gara [della semifinale contro l’Olympiacos, ndr], il nostro addetto stampa ci disse che il coach dell’Olympiacos Dusan Ivkovic aveva fatto una dichiarazione nella quale ci descriveva come gli underdogs della manifestazione e che lui era focalizzato solo sulle chance della sua squadra di arrivare in finale. “Noi underdogs?! Adesso gli facciamo vedere chi è l’underdog qua”, disse Bowie”. E fu di parola: l’ala americana si abbatte come una furia sugli ellenici e la vittoria è un gioco da ragazzi per lo Zalgiris, che in finale si ritrova davanti la Kinder Bologna di Ettore Messina.
I bianconeri sono reduci dall’ennesima sfida di fuoco contro la Fortitudo targata Teamsystem. Un derby storico, che ha portato in Baviera 10 mila bolognesi, divisi praticamente in maniera equa tra guelfi e ghibellini felsinei. Lo vince in maniera netta la Virtus, dominando dall’avvio con un Nesterovic incontenibile sotto le plance e resistendo alla rimonta biancoblu guidata dalla classe di Jaric. Lo vince con Danilovic che zittisce le frustrazioni fortitudine alzando al cielo un fumogeno che gli cade ai piedi a pochi secondi dalla fine del match. Un’icona della Basket City di vent’anni fa.
La Kinder approda in finale con i galloni della strafavorita: coronare la campagna europea con il back-to-back del titolo di Barcellona ’98 sembra un epilogo già scritto. Eppure la truppa di coach Messina qualche scricchiolio l’aveva fatto risuonare nei quarti di finale, quando, priva di Sasha (una caviglia in disordine lo tormenta da settimane), aveva rimediato una magra figura nel catino di Pau in gara 1 della serie. Ma proprio la forza di cancellare una serata-no facendo propria gara 2 a Casalecchio e poi chiudendo i conti d’autorità in Francia (col rientro di Sua Maestà) dava ulteriore fiducia alla Invencible Armada bianconera. Che però all’ingresso dell’Olimpiahalle il 22 aprile 1999 ha tutti contro: lo Zalgiris, il ribollente tifo lituano e pure quello fortitudino, rimasto in Germania per togliere l’amaro dalla bocca vedendo almeno gli odiati cugini finire nella polvere.
Palla a due
Quello che va in scena il 22 aprile 1999 all’Olimpiahalle è uno scontro tra civiltà. Da una parte c’è l’impero virtussino, costruito sulla classe di Danilovic, sul talento di Rigaudeau e su una difesa che sa stritolarti con le spire di Abbio e Sconochini dietro e di Nesterovic e Frosini sotto le plance. La Kinder messiniana non è a caso la miglior difesa d’Europa con appena 61,8 punti a partita, ma è anche pericolosamente il 20° attacco con appena 69,8 punti realizzati di media e la miseria di 9,0 assist a partita (23° sulle 24 al via dell’Eurolega di quell’anno).
Dall’altra parte c’è il basket eretico della Edney’s Band, che fattura 79,5 punti a gara (miglior attacco) col 43,4% da 3 (1° posto per distacco) frullando un basket a ritmi insostenibili per tempi nei quali difesa e controllo del ritmo sembrano dogmi inamovibili per chi vuole vincere. Lo aveva insegnato il Limoges un lustro prima e pareva essere lezione da tenere bene a mente. E pazienza se allora i punti concessi sono 73,2, quasi 12 in più rispetto alla Virtus: sono punti figli dell’insistita ricerca del contropiede e del tiro migliore nel minor numero di secondi.
Alla palla a due nessuna sorpresa nei due quintetti, qualcuna (relativa) negli accoppiamenti difensivi: Kazlauskas ovviamente ha il problema di nascondere le difficoltà fisiche di Edney e allora lo dirotta sull’esterno (teoricamente) meno pericoloso, Abbio, il quale è anche il deputato a prendersi cura di lui nella propria metà campo. Evitare problemi con la stazza di Rigaudeau, che potrebbe disporne a piacimento portandolo in post basso, è il mantra e sul francese allora si spediscono i muscoli di Bowie, mentre Stombergas va ad appiccicarsi alle braccia di Danilovic. Sotto le plance per arginare Makris (Nesterovic giocava con sulla canotta il cognome assunto una volta preso il passaporto greco) servono i tentacoli chilometrici di Eurelijus Zukauskas, mentre Frosini e Masiulis sono i deputati al lavoro sporco.
La Virtus fa ciò che è nelle proprie corde in avvio: addormenta la partita e prova a cercare sempre il gioco interno poggiandosi al post basso di Nesterovic. Obiettivo primario: trovare punti facili per non mostrare il fianco al micidiale contropiede lituano. Ma Kazlauskas ha le idee chiare: intasiamo l’area e che ci stronchino col tiro da fuori. Il pivot sloveno si trova sempre due uomini in verde addosso, con Masiulis che arriva appena necessario a dar man forte a Zukauskas rischiando qualcosa da Frosini, ma anche quando i piccoli provano a mettere il piede in area i biancoverdi alzano le barricate.
La partita è una tonnara nei primi 5’: la Kinder la butta sul fisico, ma lo Zalgiris ribatte colpo su colpo, ogni canestro strappato arriva dopo colpi proibiti da tutte le parti. La macchia originale della Virtus sta nella mole enorme di tiri sbagliati, tanto dentro l’area quanto coi piedi sull’arco, che vanifica l’enorme lavoro difensivo di Abbio su un Edney stranamente fuori giri tra palle perse e falli in attacco. Nell’attesa, è Bowie a ricordare perché nei Magic di Penny e Shaq che arrivarono ad un passo dall’anello la sua leggiadria ed il suo tiro elegante erano doti ben accette in uscita dalla panchina. E perché BHD (il nickname che Shaq gli affibbiò all’epoca senza mai spiegarne il perché…) non era solo l’uomo che si disegnò un timeout per completare una tripla-doppia, ma un vincente vero: transizione offensiva, esitation a piantare sul posto Frosini e morbido appoggio al vetro+tripla da 8 metri dietro al blocco di Zidek=primo strappo dei baltici.
La diga bianconera frana d’improvviso. I virtussini non vanno più in cerca di fortuna nel pitturato ma si accontentano di prendersi frettolosi tiri da 3 che non fanno altro che aprire il contropiede dello Zalgiris. Lo zoppicante Danilovic evidentemente sente la fatica di una condizione fisica tutt’altro che eccelsa ed esce pian piano dalla partita (ammesso che ci sia mai entrato) e i soli lampi di Rigaudeau sono troppo poco: all’intervallo lungo lo Zalgiris sembra aver già messo una mano sulla coppa: 45-30.
Il poster a Hugo, la coppa a Tyus
“Riguardandomi indietro, vedo che eravamo una squadra difficile da decifrare per gli avversari. Le squadre che hanno un budget elevato possono comprare le stelle, ma poi devono trovare l’equilibrio tra di loro e spesso devono perciò giocare un basket controllato. Noi invece giocavamo a viso aperto, non avevamo paura di rischiare, eravamo imprevedibili e giocavamo sempre veloci. Siamo stati davvero fortunati”. No, niente fortuna, al contrario di quanto sostiene coach Kazlauskas ripensando al grande capolavoro della sua carriera da allenatore. Un capolavoro visionario, ma non nel senso onirico del termine. Visionario perché frutto di una visione di gioco calibrata sul materiale umano a sua disposizione: difesa aggressiva per trovare in contropiede il canestro più velocemente possibile.
Una visione seguita con ostinazione tale da spingere Messina a tentare di inseguirla in corso d’opera. E così in avvio di ripresa il coach della Kinder si gioca la carta del quintetto piccolo, sacrificando Frosini per mandare un pimpante Sconochini nel ruolo di finto 4 e provare a confondere le idee a Edney alternando uomo e zona 2-3. La mossa pare non dare frutti nell’immediato, anche perché lo Zalgiris ha il sangue agli occhi in difesa: persino Edney si traveste da Mutombo cancellando un Picchio Abbio cui concede almeno 15 centimetri.
Il folletto da UCLA è una furia e mette sul campo tutto il suo arsenale: rimbalzi (sì, avete letto bene: col tritolo che aveva nelle gambe), contropiede, penetrazioni (con o senza scarico). La Kinder va in tilt, asfittica in attacco ma soprattutto fatta a fette in difesa e tocca il fondo precipitando a -20 (68-48): con 9’ da giocare sembra già il canto del cigno.
Ma mai sottovalutare il cuore dei campioni. La carica la suona ancora una volta Antoine Rigaudeau: ci vuole tutta la sua eleganza per piazzare un palleggio-arresto-tiro da 7 metri che fa solo swish per un innocuo 53-68 che in realtà innocuo non è. Perché poi Abbio e Sconochini decidono di metterla sulla rumba e i lituani traballano. Le triple del francese aprono crepe nella muraglia biancoverde, Picchio e Hugo spengono la luce a Edney e Bowie e seppur valga solo il -11 (76-65 con meno di 4’ da giocare) la schiacciatona dell’argentino in testa al piccoletto in verde è la scarica di energia di cui ha bisogno la Virtus per cercare un’impresa che la consegnerebbe alla leggenda.
Alzando il ritmo in maniera innaturale, la Kinder rosicchia terreno, punto dopo punto, più forte di un Danilovic insolitamente ectoplasmatico, più forte delle maledizioni fortitudine che arrivano dagli spalti. La scucchiaiata in penetrazione di mano destra di un immenso Rigaudeau porta i bianconeri appena a due possessi di distanza quando da giocare non resta che un minuto e mezzo di gioco (77-72). Ma proprio nel momento cruciale del match si risveglia un Bowie fin lì spettatore non pagante nel secondo tempo: Stombergas (dopo una più che dubbia infrazione di passi non ravvisata dagli arbitri) cerca la penetrazione ma è chiuso bene da Crippa, solo che il ritardo nel close-out che sigilla la nefasta serata di Danilovic apre l’arco alla pantera da Tulsa, che piazza la tripla che vale una carriera (80-72 a 1’01” dalla sirena).
8 punti in un minuto sono una montagna irta da scalare, ma la parola fine non sarebbe ancora scritta. Se non fosse che ancora l’ex Varese e Milano, che forse avrebbe meritato l’Mvp più di un comunque determinante Edney, legge l’apertura dell’attacco virtussino intercettando il lancio baseball per Danilovic e chiude di fatto la contesa. Finisce 82-74, la favola dello Zalgiris si chiude con il lieto fine.
La diaspora
“Allo Zalgiris vanno le mie congratulazioni, ma posso promettere che saremo alle Final Four del 2000“.
Profezia quanto mai nefasta quella di coach Messina nelle interviste post partita. La Virtus, infatti, non solo non arriva alle Final Four, ma non si qualifica nemmeno per l’Eurolega (vi accedono Varese, vincitrice dello scudetto, Treviso, finalista, e Fortitudo Bologna perché meglio piazzata in regular season rispetto alla Virtus). La beffa sarà uno dei motori che porterà i bianconeri, nel 2001, ad un’irripetibile threepeat.
Non è andata meglio con le dichiarazioni a Saulius Stombergas: “Voglio ringraziare i tifosi: quelli lituani che sono arrivati fin qui da lontano, ma anche quelli della Teamsystem che ci hanno sostenuto per tutta la gara”.
Pochi mesi dopo, il cecchino lituano vestirà la maglia della Kinder. Con risultati piuttosto dimenticabili.
Con Stombergas arriveranno in Italia nell’estate che seguirà la coppa anche Edney, che conserverà per il terzo anno filato il biancoverde (dopo Celtics e Zalgiris) consacrandosi a star europea con la maglia di Treviso, e Adomaitis, che non lascerà ricordi indelebili in quel di Montecatini. Anche Bowie ritornerà di passaggio in Italia (alla Fortitudo), ma non prima di aver messo in bacheca una Saporta con la maglia dell’Aek. Nonostante restino Zidek (fino a metà stagione), i fratelli Zukauskas e Masiulis, oltre ad un giovane Slanina, a Kazlauskas non riuscirà di ripetere la pesca miracolosa in terra americana e i pover Chris Garner e Mitchell Butler non sono certo tra i giocatori che il pubblico lituano ricorda con maggiore piacere.
Da quell’irripetibile ’99, lo Zalgiris non ha più superato le Top 16 di Eurolega.
“Quei ragazzi non si rendono ancora conto di quello che hanno fatto” – Arvydas Sabonis dopo la vittoria dello Zalgiris sulla Kinder