illustrazione di Paolo Mainini
articolo di Davide Giudici
Michael Anthony Mitchell, in arte Mike “Il Professore”, sbarca per la prima volta in Italia nell’estate del 1988. L’Olimpia Milano, dominatrice in Italia e in Europa, ha appena conquistato la sua terza Coppa dei Campioni. Rickey Brown, compagno di reparto di Meneghin, accetta la ricca offerta di Malaga, lasciando libero lo slot del secondo straniero al fianco di Bob McAdoo. Il GM meneghino Tony Cappellari ha due opzioni: Bill Martin, un’onesta ala piccola con qualche comparsata tra i professionisti con le maglie di Indiana, New York e Phoenix, e Mike Mitchell, una stella ripudiata dalla NBA per problemi di droga e disponibile a ripartire dal basso, ovunque esso si trovi. Milano punta dritto sul primo (che verrà sostituito a stagione in corso a causa dello scarso rendimento) lasciando libero Mike che viene proposto a Brescia, in A2. La firma del contratto per procura tra l’avvocato Federico Buffa e i dirigenti bresciani avviene in una notte di giugno all’hotel Sigma di Cantù.
Già da qualche anno è l’Europa la terra delle opportunità per gli ex-NBA, che giunti a fine carriera iniziano a sorvolare l’Atlantico verso Est attratti dai ricchi contratti offerti dalle squadre del Vecchio Continente. Stelle del calibro di George Gervin, Bob McAdoo, Darryl Dawkins e Michael Cooper, chiuderanno le proprie carriere nel Belpaese godendosi la Dolce Vita italiana. Ma la storia di Mike è diversa…
Infatti, in quella calda estate, Mike arriva a Brescia in prova, come uno dei tanti giovani talenti americani scartati dalla NBA. Arriva in prova nonostante sia stato una prima scelta del draft del 1978. Nonostante gli oltre 15.000 punti realizzati in 10 stagioni tra Cleveland e San Antonio, a una media di quasi 20 punti a partita, 19.8 per l’esattezza. Nonostante l’All Star Game giocato nel 1981 in cui realizza 14 punti in 15 minuti dando spettacolo tra gente del calibro di Kareem, Larry Bird e Doctor J. Nonostante la stagione ’84-’85, quando con 22.2 punti di media è il top scorer dei suoi San Antonio Spurs, interrompendo l’egemonia dello stesso George Gervin, Hall of Famer e da sempre leader incontrastato dell’attacco degli Speroni, nonchè top scorer NBA per ben 4 stagioni. La storia di Mike è diversa perchè Mike si sta rialzando, dopo essere caduto nella polvere, la polvere bianca…
Tutti i canestri di Mike in occasione del 31° All Star Game, organizzato a Cleveland nel 1981.
Gara 4 delle Finali di Conference del 1983, Mike segna 34 punti contro i Lakers di Magic e Kareem.
Nella stagione ’93-‘94 Mike è al suo secondo anno con la maglia di Reggio Emilia. Dopo una partita giocata a Reggio Calabria, in assenza di un volo serale i giocatori sono liberi fino al mattino seguente, quando un aereo li riporterà al nord. Mike quella sera non ha voglia di uscire e, quasi per caso, inizia a raccontare qualche aneddoto sulla sua carriera NBA a Luca Usberti, uno dei tanti gioielli del vivaio biancorosso. Gli altri juniores, tra cui Alessandro Davolio e Gianluca Basile, si stanno preparando per la classica serata post partita: cena, discoteca, poi chissà. Rapito dai racconti di Mike, anche Usberti decide di non uscire e a ruota lo imitano tutti gli altri, che nel frattempo entrano timidamente nella camera e prendono posto sulla moquette, lasciandosi incantare dalla voce calda e profonda di quell’uomo incredibilmente carismatico, perchè “When Mike talks, people lìsten”. La stanza cambia aspetto, diventa il focolare intorno al quale riunirsi. Altro che discoteca. Quella notte Mike si confida come mai aveva fatto. Parla delle sue origini poverissime nel ghetto di Atlanta. Della sua esplosione al college di Auburn, del successo effimero dell’NBA, della pioggia di soldi che lo ha investito all’improvviso rovinandogli la vita, invece che migliorargliela.
Ricorda i falsi amici che avevano iniziato a ronzargli intorno offrendogli le prime sniffate di coca, spalancandogli le porte di quell’abisso chiamato tossicodipendenza. Confessa senza vergogna di aver passato notti intere seduto con il fucile in mano pronto a fare fuoco al primo rumore sospetto, quando la paranoia ormai gli si era conficcata nel suo cervello intorpidito. Gianluca Basile ricorda perfettamente quella notte: “Dai suoi racconti dovevi saper leggere il bene e il male dello sport. Non ti diceva mai cosa dovevi o non dovevi fare, dovevi capirlo da solo.”
Sarà la moglie Diana a salvarlo, convincendolo a chiedere finalmente aiuto. A chi? Alla stessa NBA. Mike capisce che il capolinea di quella discesa inesorabile è ormai vicino, si decide a chiamare quel famoso numero di telefono attivo 24 ore su 24 dedicato ai tanti giocatori professionisti con problemi di droga e alcol. Dopo 3 minuti viene richiamato e invitato a raggiungere rapidamente l’aeroporto di San Antonio, dove c’è già un biglietto prepagato e un aereo pronto a trasportarlo in Colorado, presso una clinica specializzata per il recupero dall’abuso di sostanze. Dopo poche settimane Mike uscirà completamente ripulito e, grazie a quell’esperienza, la stessa NBA lo coinvolgerà spesso negli anni a venire, portatore sano di un messaggio di prevenzione per i rookie. Mike racconta il proprio percorso, mettendoli in guardia contro le tante, troppe tentazioni frutto della fama improvvisa e dei fiumi di denaro. Quella sulla cocaina è stata la vittoria di cui è sempre andato più orgoglioso.
Torniamo a Brescia, quando durante il periodo di prova Mike finisce i pochi soldi a disposizione e non senza vergogna chiede un prestito di 500 mila lire al suo coach Virginio Bernardi. In cambio, alla prima amichevole di precampionato contro Cantù, Mike offre una prestazione a dir poco imbarazzante, chiudendo con appena 2 punti a referto, un po’ pochino per coach Bernardi, che rivolgendosi a Buffa seduto a bordo campo gli domanda, con il suo marcatissimo accento campano: “Ma chìst’ o’ fa canestro?”
Alla fine di quella sua prima stagione chiuderà con 38.5 punti di media (sì, avete letto bene, 38.5 punti di media) conditi da 8.3 rimbalzi. Coach Bernardi deve aver pensato che “Sì, chill’ fa canestr assai!”
Nella stagione successiva viene ovviamente riconfermato da Brescia, i punti di media scendono a 32.4 ma le sue performance sono una garanzia, ecco perchè a fine campionato segue lo sponsor Filodoro, che interrompe il sodalizio con Brescia spostandosi a Napoli, in A1. Nonostante l’ottimo campionato di Mike, la squadra partenopea retrocede in A2, togliendosi però la soddisfazione di asfaltare nel derby campano la Phonola Caserta, che proprio quell’anno si laureerà campione d’Italia. Al termine della stagione il telefono di Buffa squilla. Nessuna squadra di provincia né tantomeno periodi di prova. A chiamare è il Maccabi Tel Aviv, una delle squadre più forti e blasonate d’Europa, che vuole Mike per continuare a dominare in patria. Con la mitica maglia gialloblu alza l’unico trofeo della propria carriera, contribuendo alla conquista del 33° titolo israeliano.
Estate 1992, anno dell’Europa unita. Coach Virginio Bernardi arriva a Reggio Emilia per riportarla velocemente in A1: serve una stella e il nome di Mike è il primo della lista. Quando entra nella sede della Pallacanestro Reggiana per firmare il contratto si ferma a osservare la gigantografia di un giocatore che non ha mai visto. Bianco, biondo e baffuto. “Who is this player?” … “Mike, questo è Bob Morse”. Se in Italia (e in Europa) l’Angelo Biondo è una leggenda, negli Stati Uniti è un perfetto sconosciuto. La risposta di Mike la conoscono tutti: “Un giorno su quella parete ci sarà la mia foto”. E così è stato.
L’allora Sidis domina il campionato e centra la promozione. Il pubblico di via Guasco non crede ai propri occhi, Mike è semplicemente inarrestabile. La sua precisione al tiro è pari solo all’eleganza dei suoi movimenti. In poco tempo i reggiani capiscono di avere un supereroe in città, capace di trasformare le sonnolente domeniche di provincia in appuntamenti unici e indimenticabili. Anche Bob Morse e Joe Bryant furono molto amati, ma Mike ha qualcosa in più, il suo carisma silenzioso, la sua classe sopraffina e il suo sorriso dolce creano in poco tempo un legame profondissimo con tutto l’ambiente. Qui, mai come altrove, sarà “Il Professore” e i suoi alunni sono davvero tutti, nessuno escluso: compagni e avversari, dirigenti e staff tecnico, tifosi di casa e non. Al termine di quella sua prima stagione trionfale, tutti ne danno per scontata la partenza, è semplicemente troppo forte per non accettare le offerte di società più ambiziose. Tra l’altro, il ricco sponsor Sidis non rinnova il contratto e il budget ridotto permette di allestire una squadra formata per lo più da giovani di belle speranze. Ma Mike è “Il Professore” anche nelle scelte di vita e dopo aver sbandato pericolosamente in gioventù capisce che il suo posto nel mondo è in provincia, circondato e protetto dalla proverbiale bonarietà dei reggiani. Dopo aver rinnovato il contratto, continuerà a impartire lezioni di basket, e di vita, per altre 6 stagioni, lasciando un ricordo indelebile nel cuore dei tifosi.
Gli juniores, e i ragazzi delle giovanili aggregati alla prima squadra, sono sempre stati i suoi compagni preferiti. Ecco perchè ogni anno Mike invita proprio i più giovani a casa sua per festeggiare il Thanksgiving Day. Immaginate la scena di questo supereroe gigante che indossando il grembiule d’ordinanza serve in tavola un tacchino mastodontico, a cui ha dedicato almeno un paio di giorni di preparazione. È con loro, piuttosto che con gli altri veterani, che Mike passa la maggior parte del suo tempo. La missione di educare e proteggere i giovani dagli errori che lui stesso ha commesso è sempre al centro dei suoi pensieri, senza mai perdere la voglia di divertirsi.
Nei post partita casalinghi Mike si diverte eccome, nel locale più in voga del momento fa a gara con i soliti juniores su chi regge meglio la tequila. Offre un giro, poi un altro e un altro ancora. Qualcuno inizia a vacillare, qualcuno si addormenta, qualcuno alza le mani in segno di resa. Mike li guarda divertito, quei pivelli non si sono accorti che nel suo bicchiere non è mai stato versata una sola goccia di liquore, ma solo acqua fresca. E il suo sorriso risplende nel locale molto più della strobosfera.
Ma non fatevi ingannare da queste goliardate. Mike a Reggio Emilia si fa apprezzare soprattutto per essere un grande professionista. Al termine di un’amichevole in cui si accorge di non aver dato il meglio s’infila nella doccia con l’immancabile sigaretta al mentolo, tenuta a debita distanza dal getto d’acqua, e una volta asciutto e vestito se ne va senza salutare. Il giorno seguente, quando i compagni iniziano ad arrivare in palestra, trovano Mike in un bagno di sudore al termine di una sessione di tiro individuale di un paio d’ore. Salta spesso e volentieri le sedute mattutine di pesi e in un primo momento tutti pensano che sia rimasto a letto. Niente di più sbagliato, è semplicemente chiuso in un’altra a stanza a correre sul tapis roulant o a saltare la corda. Anche nelle ultime giornate di una stagione sfortunata, quella del ’94-’95 che vede Reggio retrocedere in A2 con diverse giornate d’anticipo, Mike continua a dare l’esempio a tutti con un’impareggiabile etica del lavoro allenandosi duramente fino alla fine. Il coronamento di questi sacrifici arriva al termine della stagione ’97-’98, quando a 42 anni (si, avete letto bene anche questa volta, a 42 anni), vince la classifica dei cannonieri in Serie A1, trascinando Reggio Emilia fino alla semifinale scudetto dopo aver eliminato le corazzate Milano e Treviso.
Nel 1992, oltre a Mike, arriva a Reggio anche Vincent Askew, un attaccante fenomenale proveniente dai Golden State Warriors, con qualche lacuna di bon ton. Roberto Casoli, altro gioiellino del vivaio biancorosso e reggiano doc, invita i due nuovi americani a cena da mamma e papà. Mike, da uomo di mondo, dopo aver inquadrato rapidamente il connazionale, si presenta a casa Casoli con due “pensieri”. Uno da parte sua e uno da parte di quel galantuomo di Askew, che ovviamente si era presentato a mani vuote. L’italiano di Mike è ancora zoppicante, i coniugi Casoli non spiccicano una parola d’inglese. Eppure quando sono tutti seduti, Mike tiene banco, ci tiene a conversare e a farsi capire dai suoi anfitrioni. A metà cena è persino costretto a sferrare un calcione sotto al tavolo al povero Askew, colpevole dell’ennesima mancanza di savoir-faire. Negli anni a seguire, ogni volta che incontra Roberto da avversario, non manca mai di mandare i suoi saluti, anche a nome di “Lord” Askew.
Proprio Askew, dopo appena due partite da grande protagonista, un bel giorno fa le valigie e senza salutare nessuno se ne torna in NBA. Per sostituirlo in fretta e furia il GM Mario Ghiacci propone due opzioni: il giovane funambolo Henry Turner e il trentaduenne Tony Brown. In quegli anni, giocatore americano era sinonimo di realizzatore, o al limite di dominatore del pitturato. Ecco perchè tutti concordano che sia Turner, che l’anno precedente aveva segnato 52 punti contro il Barcellona, il sostituto ideale di Askew. Tutti tranne Mike: “I punti in squadra non mancano, serve un giocatore duttile e intelligente, un play aggiunto che passi bene la palla e difenda forte”. Detto, fatto, perchè non dimenticate: “When Mike talks, people lìsten”. E così Turner finisce a Firenze e retrocede in B1 (nonostante i 30 punti di media), mentre Tony Brown arriva a Reggio e diventa un idolo pur segnando poco, perchè è impossibile non capire quanto importanti siano le sue giocate difensive o i suoi passaggi. La coppia di americani Mitchell-Brown trascina Reggio in A1 e, riconfermata a furor di popolo, ottiene un’insperata salvezza la stagione successiva, restando nei cuori dei tifosi reggiani per sempre.
Il rispetto che i compagni di squadra portano a Mike è pari solo a quello degli avversari. Durante un’amichevole contro Firenze, il centro americano Winfred King, non esattamente un chierichetto, “apre la portiera” in faccia al mitico Angelo Reale, per tanti anni vera mascotte del PalaBigi più per la simpatia che per le gesta in campo. Mike vede e “registra” l’accaduto. Passano pochi minuti e sferra un colpo violentissimo al connazionale, che piegato in due dal dolore, si rialza con gli occhi iniettati di sangue pronto a scatenare la rissa. Ma dopo aver constatato da chi è arrivata la gomitata abbassa le orecchie e con un filo di voce pronuncia: “Sorry Mike, I’m ok…” e se ne va con la coda tra le gambe.
Tra i giovani di quegli anni, come detto in precedenza, c’è Alessandro Davolio, a cui Mike resta molto vicino dopo un brutto infortunio al volto che lo costringe a giocare per un lunghissimo periodo indossando una scomoda maschera protettiva. Non è facile, specie per un giovane playmaker sulla rampa di lancio verso il professionismo, ma Mike ha la soluzione: “Alle, non ti preoccupare, ti aiuto io. Come? Una palla la passi alla squadra, e due palle le passi a me. Facile!” E in effetti, come ricorda Basile, con lui al fianco era facile uscire dalle situazioni difficili, dopo un attacco mal riuscito o una grande difesa avversaria: bastava fargli arrivare la palla, al resto pensava lui.
Una carrellata di canestri, alcuni davvero impossibili, con la maglia di Reggio Emilia.
Con passo lento e dinoccolato entrava in palestra (per ultimo) e per prima cosa chiamava un under, solitamente quello meno coinvolto e più in disparte, e lo posizionava sulla linea da tre punti con le braccia alzate come a disturbare un tiro. Mike, freddo come un ghiacciolo, prendeva il pallone e scoccava una tripla in faccia al malcapitato. Nell’istante in cui il pallone veniva rilasciato dai suoi polpastrelli magici si girava e, dirigendosi verso la panchina, sentenziava sorridendo: “Face!”. Il giovane di turno non poteva fare altro che andare a raccogliere il pallone che puntualmente scendeva dalla retina. E dopo questo rito propiziatorio l’allenamento poteva iniziare.
Durante una seduta di atletica all’aperto, il preparatore propone una gara di 110 a ostacoli ma Mike in un primo momento si rifiuta categoricamente di partecipare. Vedendo un’ombra di delusione sul volto dei compagni, dichiara che gareggerà solo alla fine con il vincitore. Le gambe di David Londero in quegli anni sembrano fatte di dinamite e nessuno crede che lui, vecchio, acciaccato e appesantito, possa impensierire il giovane friulano, dominatore delle “batterie”. Ebbene Mike lascia tutti di stucco, volando leggero sulla pista d’atletica e staccando di un paio di metri il giovane compagno.
Sempre ai giovani, al termine dell’allenamento, chiede spesso di rovistare nelle tasche della sua giacca e allungargli la sua amata sigaretta al mentolo. Se il giovane mostra dimestichezza nel tenere la sigaretta tra le dita, Mike lo bacchetta bonariamente davanti a tutti accusandolo di fumare, in caso contrario elargisce un gran sorriso e pacche sulla spalla. Questo teatrino una volta vede protagonista Marco “Lupo” Carra, che per impressionarlo osa accendere e dare un tiro alla sigaretta. Mike non la prende bene e obbliga il futuro capitano biancorosso a una sessione di piegamenti in mezzo allo spogliatoio. A proposito di sigarette, durante l’intervallo delle partite Mike non è particolarmente interessato ai discorsi dei coach, specie se si tratta di sfuriate. Preferisce di gran lunga sfilare la sua amata Marlboro verde dal pacchetto, attraversare lo spogliatoio e accendersela, prima di accomodarsi delicatamente sul wc per “scaricare la tensione”. Questo suo modo di isolarsi per prepararsi psicologicamente a dominare nel secondo tempo, in barba alla tattica e ai rimproveri, ha funzionato quasi sempre.
Già dai primi allenamenti si presenta in palestra con penna e taccuino. Su di esso annota i debiti, pochi, e i crediti, molti, che accumula scommettendo con i compagni più giovani su chi segna un canestro da 9 metri, un gancio da 3 punti, ma anche sui punti realizzati durante il 5 contro 5 o chi insacca il canestro della vittoria. A fine stagione Mike passa a riscuotere il gruzzolo che prontamente reinveste in sigari pregiati.
Dopo gli anni bui vissuti negli Stati Uniti, in Italia il suo rapporto con il denaro cambia drasticamente. In controtendenza con la filosofia americana, smette di interessarsi eccessivamente ai propri guadagni, dà molta più importanza all’equilibrio e alla qualità della vita, sua e della sua famiglia. Devolve in beneficenza importanti somme, organizza cene e partite per raccogliere fondi da destinare alle comunità di recupero di Reggio Emilia, mentre oltreoceano si fa carico di alcuni parenti con problemi finanziari. Dopo il suo ritiro, quando torna a vivere a San Antonio, si presta gratuitamente a promuovere la franchigia e a incontrare giovani con problemi di tossicodipendenza. Questa sua grande generosità verrà riconosciuta e ricambiata nel momento del bisogno da Greg Popovich e R.C Buford, rispettivamente head coach e GM degli “Speroni”, che lo aiutano a pagare parte delle costose cure contro il male incurabile che gli viene diagnosticato nel 2009.
Mike se ne va nella notte del 9 Giugno 2011, a soli 55 anni. La notizia inizia a circolare in Italia e i suoi tanti, tantissimi ammiratori si sentono crollare il mondo addosso. A Brescia, Napoli e Reggio Emilia, Mike ha incantato tutti con i suoi canestri impossibili, i gancetti immarcabili, le triple centrali quando arrivava trotterellando a rimorchio o le rare ma entusiasmanti schiacciate. A Brescia, Napoli e Reggio Emilia, Mike ha lasciato il ricordo di uomo buono con cui potevi parlare di tutto, non certo solo di basket. Un gigante bellissimo e carismatico, capace di sconfiggere i propri demoni arrampicandosi a mani nude fuori dal tunnel della droga. Una persona dallo spessore infinito che ha aiutato tanti giovani a riabilitarsi, ad allenarsi, a diventare uomini e a volte campioni.
Nel 2001, due anni dopo il suo ritiro, la Pallacanestro Reggiana festeggia il suo supereroe organizzando il Mitchell Day, una passerella di ex-compagni accompagnata da filmati esclusivi che emozionano i tanti tifosi accorsi a rendere omaggio al più grande giocatore, ma soprattutto al più grande uomo che abbia mai indossato i colori biancorossi.
Ho semplicemente pianto.. Lo ricordavo come giocatore fin da Brescia e la sua grandezza cestistica sarebbe superfluo sottolinearla, ma questa sua umanità e il suo essere semplice ma grande mi hanno fatto commuovere. Quando ti accorgi che un grande campione nel campo lo è ancora di più nella vita non puoi che levarti il cappello e nel mio specifico commuoverti. Chapeau!