Disegno in copertina di Christina Pignoli
Supervisione di Marco Pagliariccio
Articolo di Manuchar Markoishvili
Caro Basket,
ho iniziato più volte a scrivere questa lettera, ora che ho deciso di dire basta. Non sapevo bene da che parte cominciare, non sapevo bene dove voler andare a finire. Ma sapevo benissimo cosa volevo dirti: grazie, semplicemente. Solo che un “grazie”, spesse volte, sembra un punto che chiude una storia in maniera definitiva e non era questo il senso che gli volevo dare. Questo non è un addio, è la fine di un capitolo, di sicuro quello che mi ha segnato di più come persona, iniziato quando ancora ero un bambino.
Non sapevo ancora parlare quando ti ho incontrato per la prima volta. Con un papà allenatore e un fratello maggiore che sin da piccolo scorrazzava per casa con il pallone in mano sei sempre stato un membro della famiglia. Eppure non era scontato che io e te diventassimo amici inseparabili: i miei genitori volevano che diventassi un ballerino, come lo zio, e preferirono tenermi lontano da te per farmi diventare un campione del ballo tradizionale georgiano. Ma me lo ricordo, sai, quando ho capito che eri tu quello che volevo: Giorgi tornò a casa con una coppa, aveva vinto un torneo da capitano della squadra ed era eccitatissimo. Volevo anche io provare quelle emozioni e così decisi che la mia strada sarebbe stata con te. Ovunque mi avrebbe portato.
All’inizio con la squadra di mio fratello, dove ero il più piccolo di tutti, è stata tosta. È stato bravo Zura, il nostro allenatore dell’epoca, a farmi innamorare di te. Avevo 9 anni e non ero certo un fenomeno, mio fratello aveva sicuramente più talento di me. Però giocavo poco e avevo bisogno di avere più spazio. Così sono passato alla squadra di papà, quella dell’Università di Tbilisi, e lì ho iniziato a trovare la mia via. Una via che già a 14 anni mi ha portato lontano da casa per andare a Batumi, sul Mar Nero, a far vedere che potevo starci in mezzo ai grandi della nostra nazione. Mi sembrava già un sogno esordire nella nostra Serie A a 15 anni e giocare con le Nazionali in giro per l’Europa.
Il primo a credere in me fuori dalla Georgia fu Renato Pasquali. Avevamo incontrato l’Italia diverse volte nelle competizioni internazionali e gli ero piaciuto, così mi combinò un provino alla Benetton Treviso. Tutto filò liscio e così a 16 anni mi ritrovai catapultato a migliaia di chilometri da casa, in un paese che conoscevo a malapena, a cercare di convincere uno dei più grandi allenatori europei, Ettore Messina, che lì, in mezzo ai campioni che aveva a disposizione, potevo ritagliarmi il mio spazio.
All’epoca non erano tanti i giocatori georgiani che lasciavano il paese per giocare all’estero e principalmente erano lunghi: Tskitishvili, che iniziò l’avventura a Treviso l’anno prima di me, Pachulia, Stepania, Sanikidze. Gli scout guardavano molto più a quei fisicacci che a ragazzi come me. Allora non mi rendevo conto di quanto era difficile quello che stavo per provare a fare. E infatti i primi giorni furono davvero duri. Ma non smetterò mai di dire grazie a tutti coloro che mi hanno dato una mano a farmi sentire a casa anche alla Ghirada. Capitan Ricky Pittis è stato come un papà per me, ma tutti i ragazzi sono stati meravigliosi, mi hanno insegnato tutti la vita del giocatore, in campo e fuori. Un nome però devo ricordarlo con più affetto degli altri: Kresimir Loncar, grazie per tutte le volte che ti ho scroccato i passaggi da e per il PalaVerde, dato che io non avevo la patente! Mi aspettava sempre se mi fermavo per fare dei lavori extra o delle terapie. Anche Denis Marconato mi scarrozzava spesso, ma a Kreso davvero devo fare un monumento!
Messina è stato il mio primo grande maestro. Da lui capii cosa voleva dire essere un giocatore di alto livello. Con lui per pensare di giocare si partiva sempre dalla difesa: se difendi giochi, altrimenti stai seduto. Inizialmente giocavo davvero pochissimo, ero giovane e c’erano tanti campioni davanti a me. Poi ad un certo punto ebbi l’occasione: a metà stagione se ne andò Istvan Nemeth e così si liberò un posto da straniero in squadra. Il coach mi disse che mi avrebbe promosso e mantenne la promessa, facendomi iniziare a giocare con continuità in Coppa Italia. Ricordo i primi 2 punti che segnai in finale, un’esperienza che ancora oggi mi mette i brividi! L’emozione più forte fu quella di affrontare la Virtus Bologna nelle Top 16 di Eurolega giocando da playmaker, una cosa che poi ho fatto raramente in carriera. E come dimenticare la finale di Eurolega contro il Barcellona. Di quella sconfitta ho un ricordo particolare: sarà che ero giovanissimo, ma ero convinto che avrei avuto modo di vendicarla l’anno successivo o al massimo quello dopo ancora. Credevo talmente tanto nella forza di quella squadra che ero sicuro l’avremmo vinta prima o poi, non mi rendevo conto di quanto fosse difficile arrivare in finale in Eurolega. E infatti dovetti aspettare il 2015 per tornare a vivere l’atmosfera della Final Four. Senza riuscire a vincerla nemmeno quella volta… Se ho un rimpianto nella mia carriera è senza dubbio quello.
Quell’anno però ci togliemmo la soddisfazione di vincere lo scudetto contro la Fortitudo a casa loro. Mi ricordo bene la corsa in spogliatoio a fare festa coi ragazzi e poi a sgattaiolare fuori per tornare alla Ghirada dove ci aspettava tutta la città. Indescrivibile. Tutti sentivano il successo come se fosse davvero il loro. Una sensazione meravigliosa, un supporto che in Georgia non avevo mai percepito. Ricordo che per la cena di celebrazione, qualche giorno dopo, saltò fuori l’idea di farci tutti i capelli biondi. Pittis mi chiamò per dirmelo ma io avevo 17 anni e chiesi il permesso a mio padre per farlo. Queste cose non sono viste di buon occhio in Georgia e anche se glielo spiegai bene mi disse che se lo avessi fatto non potevo tornare in Georgia. Per cui richiamai Ricki e gli dissi: guarda, se mi vuoi vedere qui anche l’anno prossimo è meglio che non mi faccia biondo. Capì la questione e mi graziò.
In Italia si ricordano di me per gli anni di Treviso e Cantù e poi per l’ultimo a Reggio Emilia, ma tu, caro Basket, mi hai dato tantissimo in ogni tappa di quello che è stato un vero Giro d’Europa. Dopo Treviso, a Weissenfels mi regalasti la Fiba Europe Cup, a Lubiana restai per tre anni stupendi e a Kiev, beh, lì ho incontrato la donna della mia vita: mia moglie, colei che mi ha dato i nostri fantastici due figli.
Cantù è stata una tappa speciale, non lo posso negare. Il primo a cui devo tanto è coach Andrea Trinchieri. Io venivo da un paio di infortuni importanti, ma lui ha creduto in me dandomi la chance di tornare bel basket europeo di altissimo livello. Quei tre anni e mezzo sono stati il momento del rilancio della mia carriera, anzi forse di nascita. La forza mentale che non avevo ancora negli anni di Treviso l’ho acquistata grazie a coach Trinchieri che mi massacrava giorno dopo giorno. Ma col senno di poi devo ringraziarlo per quegli insegnamenti e per avermi “sfidato” ogni giorno a fare qualcosa in più. Ma a Cantù non si trattava solo di basket. Eravamo una famiglia e di quello il merito fu prima di Francesco Corrado e poi soprattutto di Anna Cremascoli. Furono anni in cui tutto andava a meraviglia, tutti rendevano al loro massimo e stavano bene insieme, persino mogli e fidanzate stavano sempre insieme. E ancora oggi quando torno in città la sensazione è sempre la stessa: di tornare a casa. Ci sono tifosi che sono diventati amici, una sensazione difficile da spiegare. Ognuno rendeva al massimo per il ruolo che aveva. Purtroppo siamo capitati nel periodo in cui Siena era pressoché imbattibile e perdemmo diverse finali, per questo quell’unica Supercoppa che vincemmo fu così significativa per noi: era un premio per tutto quell’ambiente straordinario che si era creato, un segno che finalmente lasciavamo.
Le amicizie degli anni di Cantù sono legami che sono rimasti vivi al di là del tempo e dello spazio. Giorgi Shermadini, sarà che è georgiano come me, è diventato come un fratello, sento molto spesso Vlado Micov con il quale è rimasto un rapporto molto profondo, ma anche tutti gli altri è un piacere rincontrarli quando passo in Italia: Cincia, Pietro, il Baso (i tiri che faceva a me non venivano nemmeno in mente!), Denis, Marko, Maarty, Nicolas ma è davvero bello vederli e ricordare quei tempi quando possibile.
Lasciare Cantù fu difficile. Il Galatasaray mi aspettava, accettai la loro offerta ma sapevo di avere ancora una partita per imprimere un bel ricordo di me in quella città che tanto mi aveva dato in quegli anni. Giocavamo contro Roma, io sapevo già da qualche giorno che sarebbe stata la mia ultima partita al Pianella. Fu una gara tirata e nei secondi finali ebbi la tripla per pareggiare. La sbagliai e quel tiro resta uno dei ricordi più amari della mia carriera. Avrei voluto salutare Cantù regalandogli un’ultima gioia. Piansi dopo quella partita, ma nonostante quell’errore il calore della città nei miei confronti fu fantastico. È un rimpianto che mi sono sempre portato dietro.
Non ho più trovato quel senso di familiarità che avevamo a Cantù o anche prima a Treviso. Ho fatto parte di grandi organizzazioni come il Galatasaray o il Cska, dove sono sempre stato benissimo. La differenza era che a Cantù c’era un gruppo di giocatori che negli anni è cresciuto insieme, si è cementato e aveva in quella forza di gruppo il suo qualcosa in più. Al Gala c’era Arroyo che era il leader tecnico della squadra, con le sue giocate metteva tutti nelle condizioni di fare il loro meglio e Ataman era tutta un’altra cosa rispetto a Trinchieri: un coach meno tattico e analista, che pretende molto ma che crede molto nei suoi giocatori lasciandoli liberi di fare. Vincemmo il titolo turco e ovviamente fu bellissimo. Ma non era la stessa cosa.
Al Cska tornai ad avere i problemi fisici che mi avevano mollato negli anni precedenti. I medici sbagliarono una diagnosi, mi dissero di rientrare dopo 3-4 giorni per quello che pensavano fosse un problema da niente e invece persi due mesi. Ti direi che sono stato sfortunato ma quando sei al Cska non puoi dire di essere sfortunato. Avevo due anni di contratto ma mi mandarono via a fine stagione perché non riuscii ad esprimermi per quello che ero in grado di fare, ma mi resta il ricordo del titolo in VTB e di essere riuscito a tornare alle Final Four di Eurolega. Ero sicuro che ci sarei tornato, pensavo che lo avrei fatto prima e che lo avrei fatto vincendola. Purtroppo non è andata così, eravamo fortissimi ma non ce l’abbiamo fatta.
Mi hai dato tanto molto presto e molto in fretta, caro Basket. Ma anche se tu sarai sempre una grande parte di me, una parte di me ti odia anche. Perché tutto questo me lo hai tolto troppo in fretta. A Mosca sono iniziati i problemi e me li sono trascinati dietro al Darussafaka. Poi a Reggio Emilia ho voluto provare a tornare in un ambiente che fosse più simile alla “mia” Cantù. E le somiglianze le trovai per davvero, con una società sana e tanti ragazzi giovani che avevano voglia di fare e di allenarsi. Purtroppo però i risultati non arrivavano e non so dirti perché. Soffrivamo il doppio impegno con l’Eurocup, non riuscivamo a giocare due grandi partite in fila. Mi sono innamorato di Reggio e poi si mangia da dio in Emilia!
Il fisico, però, non riusciva più a supportarmi. Ho 33 anni e cinque interventi chirurgici alle spalle, tre alla caviglia e due al ginocchio. Il problema vero è stato quest’ultimo. Dopo la stagione al Darussafaka mi sono operato e sono stato un anno fermo per recuperare bene dal problema alle cartilagini. Ma dopo l’annata a Reggio è ricomparso lo stesso dolore, uguale al precedente, come se non avessi fatto niente prima. Ho rifatto tutti i trattamenti possibili e immaginabili, mi sono ri-operato ma continuavo ad avere problemi e dolori. A febbraio mi hanno consigliato di fare un altro intervento, che avrebbe voluto dire stare fermo un altro anno dopo aver fatto la sesta operazione chirurgica e con due stagioni di stop nelle ultime tre.
Ho capito che era tempo di dire basta. In primis per non distruggere il mio corpo. E poi perché non so chi avrebbe potuto fidarsi di un giocatore in queste condizioni.
Ma dire basta non vuole dire lasciarti. Non ce la potrei mai fare.
Questa estate ho chiesto all’allenatore della nostra Nazionale, Ilias Zouros, di poterlo affiancare come assistente per capire se intraprendere questa nuova strada sia quella giusta per il mio futuro. Mi piacerebbe in futuro essere un buon allenatore. Come Trinchieri. Come Messina. Come mio padre.
Caro Basket, è finito un tratto del nostro cammino insieme. Mi fermo a cambiare le scarpette e poi ripartiamo insieme, mano nella mano. Come abbiamo sempre fatto.