Non sono assolutamente dispiaciuto perché sono certo di non aver perso una partita di basket.
È stata una partita in cui c’era da prendere quel che si poteva.
Questo basket io non lo so insegnare.
Come avevo già detto, se la Benetton vuole vincere in queste condizioni, si trovi un altro allenatore.
Io credo che il basket sia morto stasera.
 
Pero Skansi dopo Limoges-Benetton
 
 
Il 1993 è stato un anno decisamente particolare per il basket mondiale. La morte di Drazen Petrovic. Il primo, improvviso ritiro di Michael Jordan. La cenerentola Germania campione d’Europa. E la Coppa dei Campioni (non ancora Eurolega) non poteva essere da meno.
 
Se ne sono dette tante sulla clamorosa vittoria del Limoges, ma l’immagine che è passata alla storia di quello che, ancora oggi, è l’unico team francese ad essere salita sul tetto d’Europa è quella di una squadra fondamentalmente brutta, che ha vinto un titolo giocando e facendo giocare non male, di più. Ho preso l’assunto per buono per tanto tempo, limitandomi a ripescare qualche cronaca e qualche spezzone di video dell’epoca, ma mai avevo visto per intero la partita. Avevo 10 anni quando al Pireo la Benetton Treviso di Toni Kukoc, 48 ore dopo il Real di Arvydas Sabonis, restava stritolata nella morsa dei gialli della città delle porcellane. Ho deciso di colmare la lacuna.
 
 
Riscaldamento
 
Alle Final Four 1993, in programma dal 13 al 15 aprile alla Peace and Friendship Arena del Pireo, arrivavano fondamentalmente le quattro squadre che più avevano impressionato nel corso della stagione. I galloni della favorita numero uno ce li aveva il Real Madrid, che arrivava in Grecia con 16 vittorie su 18 partite disputate nella propria campagna europea e una coppia come Arlauckas-Sabonis che non aveva eguali nel Vecchio Continente. Paok e Treviso stavano un gradino sotto: i greci col trio Levingston-Barlow-Prelevic, l’esperienza di Fassoulas e la spinta dei 10 mila giunti da Salonicco facevano paura, mentre la Benetton era tutta costruita intorno al talento sconfinato di Toni Kukoc, che voleva lasciare l’Europa per approdare nella Windy City con argomenti buoni in curriculum da presentare a Scottie Pippen. Il Limoges di Maljkovic era sì partito a fari spenti ad inizio stagione, ma con una difesa impenetrabile (61,8 punti concessi a partita, con la 2°, il Paok, che ne lasciava agli avversari 71), il cervello di Jure Zdovc e la mano morbidissima di Michael Young aveva saputo chiudere la fase a gironi al secondo posto, pescando però un incrocio tutt’altro che agevole nei quarti di finale con l’Olympiacos. I biancorossi vedevano a portata di mano il sogno della prima Final Four della loro storia da giocare davanti al proprio pubblico, ma non avevano fatto i conti coi limosini e soprattutto con Zdovc, che consegna il pass per le Final Four ai suoi così:

Le semifinali vedono contrapporsi da una parte Benetton e Paok e dall’altra Real e Limoges. Quella italo-greca, come da pronostico, è partita sul filo del rasoio, ma i trevigiani la spuntano nel finale con un eroe a sorpresa: è Riccio Ragazzi, infatti, su perfetto ribaltamento di Kukoc, a siglare il canestro che vale vittoria e finale a 2” dalla sirena. Nell’altro incrocio, sembra tutto apparecchiato per la passeggiata dei “galacticos”. Che invece sbattono e forte contro la muraglia alzata dalla truppa di Maljkovic: il 62-52 finale per il Limoges è eloquente. “Eravamo arrivati ad Atene con 150 persone, ma non giovani fans: gente che era venuta per vedere l’Acropoli e visitare una bella città”, racconta qualche anno dopo il santone serbo. Fosse mai che in mezzo ci rimediano pure un titolo europeo…

 

Palla a due

71 punti. Li firmo subito. A 71 punti si vince la Coppa“.

Pero Skansi, l’allora coach della Benetton, l’aveva fiutata giusta quella strana finale davanti ad un palazzone svuotato dall’amarezza dei fans del Paok rientrati a Salonicco prima del preventivato. Non che ci volesse molto, in linea teorica. Ma voleva dire segnare 10 punti in più di quelli che abitualmente concedeva la trincea del Limoges. Come stanare questa “squadra di minatori”, come la chiamava il suo stesso condottiero Maljkovic? “Non voglio che i miei buoni corrano dietro ai loro mediocri”.

Il peccato originale: presunzione.

In generale, guardare con gli occhi di oggi una partita europea di un quarto di secolo fa è straniante. Più lento (con i 30” per azione e cronometro che ritorna a 30” dopo ogni rimbalzo d’attacco), con aree più intasate, con meno blocchi sulla palla. E il Limoges di quella stagione massimizzò le possibilità offerte da questo basket così lontano da quello contemporaneo.

Alla palla a due i francesi partono con il talento di Jure Zdovc in cabina di regia, il mastino Jimmy Verove e il cecchino Michael Young ai suoi lati e nel pitturato i muscoli di Jim Bilba e Willie Redden. I verdi rispondono con Marco Mian nel ruolo di play “ufficiale”, Toni Kukoc in quello di creatore di gioco, la guardia Usa Terry Teagle ha licenza di uccidere mentre sotto canestro al fianco della classe cristallina di Stefano Rusconi c’è quella operaia di Alberto Vianini. Gli accoppiamenti difensivi di Skansi non lasciano sorprese: Kukoc può “riposarsi” su Verove, Teagle va sulle tracce di Young, Mian su quelle di Zdovc. È vero, il Limoges non è squadra così temibile offensivamente, perché è vero che Zdovc sa costruirsi tiri imprevedibili e Young è una macchina da canestri, ma il resto è davvero poca cosa. Maljkovic però ha costruito da lì quel sistema perfetto, dimostrando grande adattabilità al materiale umano a disposizione. Altro che i “7 seconds or less”, che verranno un decennio dopo, o al sistema perfetto della sua Jugoplastika; qui siamo al “25 seconds or more”: attaccare sfruttando esasperatamente tutti i 30” a disposizione è il primo modo per addormentare la partita, costringendo l’avversario di turno a inseguire, correre, scivolare e quindi consumare energie che, alla lunga, mancano nell’altra metà campo.

All’elemento strutturale, si deve aggiungere quello “personale”. Maljkovic e Zdovc conoscono Kukoc fin troppo bene. Bozo ha plasmato sotto le sue mani il talento di Toni negli anni della Jugoplastika, vincendo insieme due Coppe dei Campioni. La terza in fila la Pantera Rosa di Spalato la sfilò dalle mani proprio del Barcellona di Maljkovic due anni prima di rincontrarsi al Pireo. Jure, invece, di Toni era compagno di Nazionale quando ancora i venti di guerra non avevano iniziato a spirare. Fino alle semifinali degli Europei di Roma ’91, quando lo sloveno venne richiamato in patria proprio alla vigilia della finale contro l’Italia, i due combatterono sotto lo stesso vessillo: quello della Jugoslavia unita.

Bozo sa cosa può dargli Zdovc, che è sublime difensore oltre che regista con gran visione di gioco, e ha visto come il Paok sia uscito con le ossa rotte dalla decisione di sacrificare un lungo come Ken Barlow sulla tracce di Toni (quasi tripla-doppia da 15+8+10 nella semifinale contro i greci). Decide così di incollarci il suo computer in campo, sacrificando verosimilmente ulteriore quantità del già esiguo talento offensivo a disposizione per arginare la fonte primaria del gioco trevigiano. Perché di fatto Mian supera la metà campo, ma è Toni a dare il la ai giochi. Kukoc svetta di una decina di centimetri sul suo amico sloveno, per cui potrebbe comunque giocarsela sempre in avvicinamento al ferro. L’ordine è ovvio: fiondarsi in raddoppio sul croato sfidando gli altri a fare canestro.

Il piano del Limoges nel primo tempo, però, non funziona un granché. In primis perché l’abulia offensiva è ai limiti dell’atarassico, con 22 punti segnati in 20’. Roba da Prima Divisione. In difesa, invece, Zdovc fa un gran lavoro su Kukoc escludendolo a livello realizzativo, ma Toni trova scarichi perfetti per un Terry Teagle che è semplicemente meraviglioso: 15 dei 28 punti del primo tempo trevigiano sono dell’americano strappato l’estate precedente ai Lakers per dimenticare la partenza di Vinnie Del Negro e che, se messo in ritmo, sapeva fare roba che ciao:

Il rammarico col quale i trevigiani vanno negli spogliatoi è che una partita del genere, con 3-4 canestri in più, sarebbe non in cassaforte ma quasi.

 

Nella ragnatela limosina

Il coach nell’intervallo ci disse solo che se avessimo giocato e difeso al nostro massimo, con organizzazione e senza farci sopraffare dalla pressione, l’avremmo potuta portare a casa”, ricorda Richard Dacoury, un’icona del basket francese degli anni ’80-’90, che da Bozo a inizio stagione era stato convinto a non andarsene proprio per dare quel pizzico di esperienza che poteva risultare determinante in momenti come quello.

Il paradosso, però, è che le parole di Maljkovic sbloccarono il Limoges non tanto in difesa, quanto in attacco: i 37 punti dei francesi nel secondo tempo sarebbero 74 proiettati sui 40’, oltre 8 la media abituale di Zdovc e compagnia, 3 più di quei 71 che Skansi indicava come soglia per la vittoria della sua Benetton.

Ma Pero aveva detto anche un’altra cosa presentando il match: “andremo più con quattro esterni che con due lunghi”. Lo chiameremmo small ball oggi, all’epoca non andava ancora di moda, ma avere Kukoc come point forward vicino a Rusconi non era proprio una pessima idea. E infatti il coach croato si gioca la carta in avvio di ripresa. Maljkovic non fa una piega: tiene Zdovc a sgomitare con lo spalatino e manda Jim “Tonic” Bilba, un lungo che avrà avuto mani da carpentiere e statura da ala piccola (198 i centimetri ufficiali) ma anche la dinamite nei polpacci, ad accoppiarsi con Mian. Lo stesso Bilba è il designato a fiondarsi in raddoppio quando la palla va a Toni in post basso e con Verove investito del compito di togliere dalla partita Teagle, il rischio calcolato da correre è quello che possa venir fuori qualche eroe a sorpresa tipo l’uomo da Motta di Livenza, che qualche anno dopo sarà il primo italiano ad usufruire della legge Bosman sbarcando ad Antibes.

Rischio molto molto basso, al netto della bomba di qui sopra.

Il problema a quel punto diventa difensivo per Treviso, perché Kukoc fatica nel pitturato con Bilba e il solo Rusconi (che pure in quella partita ne porta già 15 di rimbalzi) non può bastare, specie se in attacco Iacopini non porta niente alla causa. Skansi, allora, torna sui suoi passi, rimanda Vianini sotto canestro ed il canovaccio torna quello del primo tempo.

Ma con due differenze belle grosse: Teagle e Young. Se il trevigiano aveva imperversato nella prima metà di partita, nel secondo tempo sparisce completamente dai radar, un po’ perché ignorato dai compagni, molto per lo strepitoso lavoro alle calcagna di Verove, che lo insegue pure quando è al cesso. Il limosino, braccio destro di Hakeem Olajuwon nella storica finale Ncaa 1984 persa da Houston contro la Georgetown di Pat Ewing, viene invece fuori con la rabbia di chi non ci stava a perdere un’altra finale di questo peso. E, approfittando della marcatura non certa asfissiante di un Kukoc cui difensivamente Skansi non trova più una collocazione precisa quando anche Verove lascia spazio al tascabile Frederic Forte, prende di peso un Limoges ancora a -9 a 12’ dalla fine per riportarlo dentro la partita.

I francesi sorpassano per la prima volta nella serata qualche minuto più tardi, ma l’equilibrio di fatto non si spezza perché Kukoc ha un paio di lampi dal pick and roll che generano altrettante triple: prima punisce un cambio difensivo in ritardo, poi semina uno Zdovc che gli concede per la prima volta giusto un millimetro inseguendolo sul blocco come stesse giocando in cortile coi bambini:

E’ il canestro del 55-55 con 1’ a separare le due squadre dalla coppa più ambita. Limoges ha palla in mano ma va vicinissimo a perderla con un passaggio azzardato di Forte a Bilba (oggi sono rispettivamente presidente e viceallenatore della squadra…), il quale però subisce il fallo di Kukoc mentre cerca posizione in area. Il pivot bonsai fa 2/2: 57-55 Limoges a 41” dalla fine e palla che torna, ovviamente, nelle mani di Toni. I fari del Limoges, della Peace and Friendship Arena, dell’Europa tutta sono su di lui. Il palleggio insistito lo porta sulla fascia sinistra del campo, sempre con Zdovc alle calcagna. Ecco Iacopini che arriva una prima volta, poi una seconda per posizionare il blocco centrale e provare ancora una volta a recidere i fili appiccicosi della ragnatela limosina con la lama dell’abbacinante talento croato. Forte sembra sbucare con un attimo di ritardo quando Kukoc cambia passo verso destra per crearsi lo spazio per il tiro da tre del potenziale sorpasso con una ventina di secondi da giocare. Ma la mano malefica del regista di scorta subentrato nel finale al posto di uno stremato Verove è lì in agguato. Il tocco è deciso ma sulla palla, che sfugge dalle mani del #7 trevigiano.

Tutto regolare, i francesi si involano in contropiede e trovano il fallo su Zdovc. Lo sloveno è glaciale, 2/2 per il 59-55 con una decina di secondi da giocare. Teagle rimedia un fallo anche lui, ma suggella il suo disastroso secondo tempo sbagliando già il primo libero dell’1+1 concesso dagli arbitri ed affossando le ultime speranza dei “casual”.

È il canto del cigno per i sogni della Benetton, che proprio dal Pireo iniziò una maledizione europea che la porterà a giocare altre tre Final Four senza mai andare oltre la medaglia d’argento. È il saluto all’Europa senza gloria per Toni Kukoc, unico giocatore della storia a prendersi il titolo di Mvp delle Final Four senza aver vinto il trofeo (perché non darlo a Young?). Toni in lacrime a fine partita regala la canotta alla figlia del suo vecchio maestro Maljkovic, torna in Italia con il resto della squadra per ingoiare un altro rospo amaro nelle finali scudetto che incoroneranno la Knorr Bologna campione d’Italia con un secco 3-0 sulla Benetton e salpa verso Chicago pensando a quando sederà vicino a Michael Jordan. Non sapendo ancora che ciò non accadrà prima di un paio d’anni. E’ anche il punto di massimo splendore per il basket di club francese, che ha barattato una crescita che a livello di club si stava tracciando (il Limoges tornerà alle Final Four nel ’95 e ci era già approdata nel ’90, il Villeurbanne seguirà l’esempio nel ’97) con i grandi successi dei suoi grandiosi singoli in Nazionale e con le maglie più prestigiose del mondo.

Ma è soprattutto il grande capolavoro di Bozidar Maljkovic, che seppe dimostrarsi, dopo il miracolo Jugoplastika ma soprattutto dopo il fallimento Barcellona, insuperabile nel plasmare una squadra esaltandone i punti di forza e nascondendone i difetti. Bozo centrerà la sua quarta Coppa dei Campioni (con tre squadre diverse) tre anni dopo al Panathinaikos, prima greca di sempre a salire sull’Olimpo d’Europa proprio come il suo Limoges e riuscendo laddove poi fallirà la Fortitudo: fare di Dominique Wilkins un vincente e trascinatore.

 

Io questa partita volevo vincerla. 

Avendo giocatori scarsi in attacco, o mettevo in piedi una difesa tremenda giocando ogni palla al limite dell’esaurimento psicofisico facendo andare fuori di testa gli avversari o perdevo.

Ci ho provato e mi è andata bene.

Però dico all’amico Pero: se mi dà Kukoc in cambio di un qualsiasi mio giocatore a scelta vedrà che anche noi in questo caso sapremmo giocare a basket.

Bozidar Maljkovic dopo Limoges-Benetton

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

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