Metà marzo, domenica mattina. Il cielo grigio minaccia pioggia sulla Puglia. Sono nella redazione di Bisceglie in Diretta, quotidiano locale di informazione il cui caporedattore, Vito Troilo, è anche dirigente della locale squadra di basket che milita nel campionato di serie B. La squadra della quale sono addetto stampa, la Poderosa Montegranaro, gioca oggi pomeriggio al PalaDolmen contro la squadra locale. Sulla panchina dell’Ambrosia siede da qualche mese un personaggio che Kobe Bryant definì “il mio idolo quando ero in Italia, è come John Stockton”.
Uno cui hanno dedicato un palasport a Capo d’Orlando.
Uno cui a Livorno potrebbero davvero costruire una statua come quella chiesta da Ibrahimovic ai parigini.
Alessandro Fantozzi.
Fa strano salutarlo chiamandolo “coach”, ma mi viene spontaneo vedendolo entrare in tuta e giaccone dalla porta della redazione. Un sorriso affabile, un accento toscano scalfito solo appena dal lungo peregrinare che lo vide lasciare la sua Livorno nell’estate del ’91. Un’estate difficile da dimenticare non solo per aver lasciato la maglia della Libertas con la quale due anni prima era stato campione d’Italia per mezz’ora.
Ma anche perché fu l’unica nella quale vestì l’azzurro della Nazionale in una competizione internazionale: gli Europei di Roma, quella Roma che si apprestava a diventare la sua nuova casa.
Le notte magiche di Italia ’90 sono ormai lontane, ma la Capitale è pronta a vestirsi di nuovo a festa per un Europeo era formato mignon (otto squadre, cinque partite in sette giorni per la vincitrice) ma nel quale l’Italia di Sandro Gamba vuole puntare al bersaglio grosso dopo il quarto posto di Zagabria ’89. Non c’è l’Urss, che indebolita dalla fuoriuscita dei lituani (rimpiazzateli voi Marciulionis, Sabonis, ecc…) non ha superato le qualificazioni, e la Jugoslavia è fenomenale ma un pochino meno visto che mancano Stojko Vrankovic e soprattutto Drazen Petrovic, che dopo il fattaccio della bandiera croata gettata via da Vlade Divac durante la finale dei Mondiali argentini e i venti di guerra che spirano non vogliono più saperne di una selezione unita con i serbi. Insomma, la geopolitica dà una mano e l’occasione è ghiotta per una squadra che ha tutto per andare fino in fondo, con un roster che può contare su Gentile e Magnifico, Riva e Pittis, Rusconi e Brunamonti. E un Fantozzi all’apice della carriera.
“Il mio rapporto con la Nazionale non è mai stato molto continuo, vuoi per scelte tecniche, vuoi per miei infortuni, l’ultimo proprio alla vigilia degli Europei, tanto che rientrai giusto per il Torneo dell’Amicizia di Atene che faceva da prologo alla manifestazione – ricorda l’allora play della Libertas Livorno – feci la prima apparizione nella preparazione delle Olimpiadi del 1984 e chiusi con l’All Star Game ’92 nel quale battei Oscar nella gara di tiro da 3”.
Sì, Alessandro Fantozzi ha battuto in una gara di tiro da 3 Oscar Schmidt. Anche oggi, a 55 anni, ogni tanto si diletta con qualche gara di tiro con i suoi giocatori, quelli della Ambrosia Bisceglie, campionato di serie B girone D. E si narra che raramente perda…Ma questa è un’altra storia. Torniamo a Roma ’91.
“Nelle qualificazioni perdemmo solo in Polonia, per cui arrivammo con una grande carica e tante aspettative intorno noi, soprattutto perché si giocava in casa – continua Fantozzi – avevamo un gruppo solido e focalizzato sull’obiettivo, che era l’oro”. Sì, l’oro. Nonostante la Jugoslavia… “Sapevamo che la loro presenza sbarrava un po’ la strada ai sogni di gloria – ammette l’ex azzurro – già allora si percepiva la grandezza di giocatori come Radja, Kukoc, Danilovic e via via tutti gli altri. Senza considerare che Petrovic e Vrankovic non c’erano e Zdovc se ne andò prima della fine”.
Le impressioni si confermarono al momento di scendere in campo, il 24 giugno 1991. L’Italia parte malissimo contro la Grecia di Galis, ma con un irresistibile secondo tempo prevale sugli ellenici tenendo il fenomeno dell’Aris a “soli” 19 punti (chiuderà a 32 di media…). Gli azzurri bissano 24 ore dopo, ancora con grande fatica, ma anche stavolta fanno bottino pieno contro la Francia e chiudono un girone di qualificazione perfetto superando di slancio l’ostacolo Cecoslovacchia (con 11 punti proprio di Fantozzi). È semifinale.
“Era meraviglioso giocare in un PalaEur sempre tutto esaurito – sottolinea l’ex play della Livorno dei miracoli – e poi fu il primo, e credo ultimo, Europeo trasmesso integralmente dalla Rai. Le nostre partite andavano in diretta in prima serata su Rai 2, ma venivano date anche tutte le altre. A livello mediatico l’impatto fu enorme. Eravamo consci di tutto questo ma non subimmo la pressione, anzi, questo ci portò a giocare un gran basket”.
Se gli azzurri sbarcano in semifinale a punteggio pieno nel girone B, nel girone A fa altrettanto la Jugoslavia. Anzi, lo fa anche meglio: dopo il +9 di apertura contro la Spagna, 42 punti alla Polonia e 21 alla Bulgaria. Roba da far venire i brividi. Sembra sorda alle urla dei Balcani la squadra di Ivkovic, ma il dramma della guerra che sta per frantumare una nazione sta per raggiungere con la sua eco anche quella Roma lontana ma non troppo.
Alla vigilia della semifinale contro la Francia, la telefonata che può mandare in frantumi il Dream Team dei Balcani.
“Mancava poco alle 4 di mattina quando Zdovc è venuto nella mia stanza in albergo e mi ha detto, quasi in lacrime, che da Lubiana gli proibivano di giocare. Se l’avesse fatto, l’avrebbero considerato un traditore del popolo sloveno. Io continuo a considerarlo un mio giocatore, uno jugoslavo”. Parole di Ivkovic alla vigilia della semifinale che apre la corsa alle medaglie. Sei serbi (Sretenovic, Djordjevic, Danilovic, Jovanovic, Divac, Savic), quattro croati (Perasovic, Kukoc, Radja, Komazec), un montenegrino (Paspalj) e uno sloveno (Zdovc). Il caso Zdovc, divampato mentre sta esplodendo la guerra di secessione slovena, può far diventare la Nazionale jugoslava una polveriera. Ma non è così. Troppo forte, troppo unito quel gruppo, che non ci mette molto a spazzare via anche la Francia e presentarsi alla finale con i galloni di strafavorita.
L’Italia, invece, sulla sua strada trova l’ostica Spagna di Antonio Diaz-Miguel. “Fu una partita incredibile quella contro di loro – si illumina Fantozzi – ma dopo ogni partita la nostra consapevolezza cresceva e riuscimmo così a superare anche quel difficile ostacolo”. Con Antunez sulle tracce di Riva (tenuto a 1/7 da 3 e 13 punti) e la 1-3-1 di coach Gamba crivellata da Villacampa e San Epifanio, gli azzurri soffrono, ma uno strepitoso Gentile (23 punti) manda al tappeto gli iberici: è di nuovo finale, otto anni dopo Nantes. E ora sotto con i fenomeni jugoslavi.
“Ci dicemmo: oggi facciamo la storia – rammenta Fantozzi – siamo arrivati alla palla a due convinti di poter fare la partita perfetta. Nello sport si cerca sempre di andare oltre i propri limiti. Poi obiettivamente bisogna anche saper fare i conti con la realtà. Credo che nonostante la sconfitta piuttosto netta in finale uscimmo da quell’Europeo senza alcun rimpianto”.
La partita, di fatto, non c’è mai. Sretenovic mette la museruola a Riva, Danilovic e Kukoc imperversano nella metà campo azzurra e, a parte isolate fiammate d’orgoglio, l’Italia non può nulla per arginare quella che, ormai l’hanno capito tutti i 13 mila del PalaEur e non solo, sarà l’ultima grande Jugoslavia unita. Ci prova anche Fantozzi, poco usato da coach Gamba in quell’Europeo e che sfodera contro Djordjevic e soci 12 punti di classe e orgoglio. Davanti nelle gerarchie c’erano due del calibro di Gentile (votato nel miglior quintetto della manifestazione) e Brunamonti, non esattamente gli ultimi arrivati, per cui non era facile avere più spazio.
“Quando sei in Nazionale devi sempre farti trovare pronto sapendo che fai parte di una squadra nella quale devono convivere tutti giocatori abituati a stare molto in campo con il loro club – spiega l’eroe livornese – non è stato facile per me abituarmi a quel ruolo, anche perché durante la fase di preparazione avevo avuto molto spazio e avevo giocato bene. Mi aspettavo e speravo di giocare di più, ma poi è anche questione di momenti. Brunamonti era il leader e l’uomo di esperienza della squadra, mentre Gentile fu bravissimo a farsi trovare pronto rispondendo con delle grandissime prestazioni. Insomma, non c’erano molti motivi per recriminare per me. Quando sono stato chiamato in causa ho risposto in maniera positiva, come nella finale contro la Jugoslavia. Entrai in campo carichissimo, avevo tanta voglia di dimostrare che potevo dare qualcosa alla causa. La partita stava prendendo una brutta piega e volevo dare una scossa con la rabbia che avevo dentro. In parte ci riuscii, ma non è bastato, loro non hanno mai perso il controllo del match”.
Cala il sipario sull’ultimo Europeo disputato in Italia e, sostanzialmente, cala il sipario anche sul rapporto tra Fantozzi e la Nazionale. Ma non su una carriera che continua a lungo e con profitto. Roma, Reggio Emilia, ma soprattutto Capo d’Orlando.
“Nell’estate del ’98 avevo chiuso una stagione a Montecatini segnata da un brutto infortunio al polso – prosegue Fantozzi – ma avevo ancora squadre di serie A che mi cercavano, ad esempio ricordo distintamente l’offerta di Pozzuoli. Poi arrivò la chiamata da Capo, che all’epoca era in B2. Fui colpito e travolto dal loro entusiasmo e così accettai la loro sfida: volevano andare in serie A in due anni. Avevo già 37 anni e preferii un progetto stimolante come il loro ad una A2 senza particolari obiettivi. Fu una storia bellissima, durata sei anni e davvero speciale per me. La scelta di intitolarmi il palasport nacque un po’ per caso. Mi chiamò Sindoni parlandomi della cosa e mi buttò lì l’idea. Io pensavo scherzasse, poi capii che era serio. Non ti dico i miei amici come si scatenarono con la scaramanzia! Poi feci una rapida ricerca su internet e scoprii che c’erano altri due atleti viventi con una struttura sportiva intestata a proprio nome: Arnold Schwarzenegger con lo stadio di Graz, in Austria (il nome fu poi cambiato quando l’ex governatore della California negò la grazia ad un condannato a morte nel 2005, ndr) e il giocatore di hockey canadese Wayne Gretzky con l’arena di Brantford, la sua città. Per cui sono stato almeno il terzo atleta ad avere una struttura a proprio nome!”
Nemmeno Kobe ce l’ha. Per cui non fate battute quando leggete il suo cognome.
Bellissimo articolo. Vi segnalo che anche Dimitris Diamantidis ha un palazzetto intitolato a suo nome nella città natale Kastoria. O almeno, così avevo letto tempo fa.
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