di Marco Pagliariccio
Pronostici sui piazzamenti dell’Italia
15° posto – Italia prima di Ferragosto: Oh mio dio, siamo così forti che possiamo andare a medaglia. Italia dopo Ferragosto: siamo abbastanza buoni da superare il primo turno, ok. Ok? OK!?”
FIBA Power Ranking, 28 agosto
12° posto – Passare il primo turno è il minimo, ma per andare ai quarti è obbligatorio battere almeno una tra Serbia e Spagna: serve un exploit che ai nostri manca da decenni…”
La Giornata Tipo, 30 agosto
9° posto – Talento e imprevedibilità non mancano. Ma serve il click. Lo aspettiamo strada facendo. La seconda fase è quasi un obbligo”
Gazzetta.it, 30 agosto
Con la vittoria su Portorico l’Italia ha mandato in archivio il suo Mondiale con il 10° posto, seconda miglior squadra tra le eliminate alla seconda fase dietro alla sola Lituania grazie alle tre vittorie su cinque partite disputate e al rotondo +60 di differenza canestri. Gli Azzurri sono finiti, di fatto, dove più o meno tutti li pronosticavano (e pronosticavamo anche noi): alle spalle delle big vere, quelle che le medaglie se le sarebbero giocate per davvero, staccando il pass per il selvaggio Preolimpico del prossimo anno. Ma allora perché ancora una volta quella sensazione amara di delusione? Perché è scattata l’ennesima caccia al colpevole? Perché il 2004 è sempre più lontano?
Cosa ha funzionato
Senza scomodare paragoni col passato, i picchi di talento della generazione dei nati tra il 1986 e il 1992, quella che ormai si ritrova in azzurro da un decennio o giù di lì, è riconosciuta da tutti come di primissimo livello e il gruppo, dal disastro dell’Europeo 2011 in avanti, è cresciuto passo dopo passo, sia nel gioco che nei risultati. Probabilmente, Meo Sacchetti era anche l’allenatore più indicato a guidare una squadra di questo tipo sotto il profilo tecnico: un allenatore che ha da sempre fatto del gioco in campo aperto, libero da schemi rigidi e basato sull’esasperazione del tiro da fuori i suoi dogmi. Senza lunghi di stazza e di pedigree per il massimo livello mondiale, la scelta di macinar ritmi altissimi, cambiare su tutti in difesa e sfruttare la creatività dei grandi solisti sul perimetro era quasi obbligata. Sacchetti l’ha cavalcata con ancora più convinzione sapendo di non avere a disposizione neanche Nik Melli, probabilmente l’unico giocatore davvero insostituibile per il peso specifico all’interno del roster azzurro, vista appunto la penuria sotto le plance. Il vestito sacchettiano è calzato a pennello agli Azzurri, che sono stati tra le squadre più divertenti da vedere nella prima fase e non solo nelle facili vittorie contro Angola e Filippine, ma anche nel match perso contro la Serbia, tenuta in scacco per almeno 25’ dalle invenzioni di una delle più belle versioni azzurre di Gallinari.
Il neo Thunder è arrivato al Mondiale con un grosso punto interrogativo sulla fronte, vista la fastidiosa appendicite che lo ha colpito nel cuore della marcia di avvicinamento a Cina 2019. Ma l’onda lunga della bella stagione in maglia Clippers lo ha consegnato all’Italia tirato a lucido e capace di colpire con tutto il suo sterminato arsenale tecnico nell’attaccare i continui mismatch che si trovava davanti: il post-up sfruttando i suoi 208 centimetri contro i piccoli, il tiro da fuori o la penetrazione al ferro quando su di lui finivano i lunghi. La bomba del +4 sul 56-52 a 4’ e spiccioli del match contro la Spagna ne è stato l’emblema: Sacchetti che sbraita per indicare alla squadra di servirlo, lui che ci gioca il pick and roll, Gasol che con pigrizia aspetta in area, il numero 8 che colpisce dall’arco. Il Gallo ha finito come miglior realizzatore e rimbalzista azzurro, oltre ad essere il secondo assistman. A fine prima fase, la sua candidatura per il miglior quintetto della manifestazione era assolutamente autorevole.
Per quanto chiamato a fare reparto quasi da solo, è piaciuto anche Paul Biligha, anzi. Passare dal fondo della panchina scudettata di Venezia al ruolo di centro titolare della Nazionale contro Jokic e Gasol non è proprio una passeggiata, ma il neomilanese ha svolto il compito al suo massimo. Contro i corpaccioni serbi le difficoltà si sono fatte sentire, ma nella sfida da dentro o fuori contro la Spagna è stato una delle chiavi tattiche azzurre: sfidato al tiro da Marc in avvio di gara lo ha punito a ripetizione col mid-range e in difesa la sua abnegazione ha cancellato il pachiderma ispanico, fermato ad appena 2 punti (segnati al 39’…). Non può essere e non sarà mai un lungo di spessore internazionale, ma il 29enne perugino ha dimostrato di poter essere una carta valida da giocare per portare energia in uscita dalla panchina.
Non dovrebbe sorprendere ma ha dato più del preventivabile anche capitan Datome. La sua estata è stata contrassegnata da una operazione al ginocchio che ha portato Sacchetti addirittura a dubitare sulla sua convocazione. Ma il recupero in extremis è stato premiato dalla prestazione chirurgica contro le Filippine (17 punti in 16’ con 7/7 dal campo) e il prezioso contributo nella gara chiave contro la Spagna, sulla quale aveva messo il sigillo col fuoco con quella stoppata maestosa sulla timida penetrazione di Rubio rientrando dal timeout post-bomba del +4 del Gallo.
Gigi Datome’den Ricky Rubio’ya geçit yok. ✋🏽 (🎥 @FIBAWC) #FIBAWC pic.twitter.com/kucI86L9xN
— Yarısaha Basket (@YarisahaBasket) September 6, 2019
Miglior stoppata del Mondiale, imho
Una giocata che sarebbe potuta diventare l’icona del Mondiale azzurro, un po’ come quella di Cusin a Rudy a Eurobasket 2013.
E invece…
4’ minuti per mandare tutto all’aria. Di nuovo
Quattro minuti. 240 secondi hanno diviso questa generazione dalla prima, vera impresa del proprio vissuto azzurro. Ok, non è detto che sarebbe bastato per passare il turno (la vittoria spagnola sulla Serbia avrebbe verosimilmente messo comunque fuori gioco l’Italia), ma a quel punto tornare a casa con biglietto per il Preolimpico in tasca e lo scalpo spagnolo sul cruscotto avrebbe reso la spedizione cinese ampiamente positiva.
E invece…
E invece il 15-4 di parziale negli ultimi 4’ minuti della gara da dentro o fuori ha riportato alla mente i demoni del passato. Quelli di una squadra che smarrisce le sue sicurezze, che affoga tra le forzature di Belinelli, il nascondino di Gallinari, i centimetri mancanti di Biligha, i fuorigiri di Hackett e via discorrendo. Ma andare alla caccia del colpevole sarebbe esercizio futile. È come se un buco nero si aprisse sulla testa degli Azzurri al momento di concretizzare quanto di buono costruito con fatica in settimane, mesi di lavoro. Oltre ai limiti tecnici e strutturali, c’è qualcosa che continua a sfuggire. Quel qualcosa che sta spingendo oltre l’immaginabile un’Argentina che ha qualità che non sembravano paragonabili a quelle serbe. Come se nei bassifondi di Bahia Blanca il Sacro Verbo della Generacion Dorada si fosse tramandato di padre in figlio e invece qua, ai piedi delle Alpi, l’insegnamento dell’Italia operaia del 2003-2004 fosse svanito nell’aria.
Era successo nel 2013, quando l’esaltante Italia degli Europei sloveni, quella capace di schiaffeggiare Grecia e Spagna nei primi due turni, finì fuori dai Mondiali trafitta in rapida successione da Lituania, Ucraina (meh) e Serbia.
Era successo nel 2015, quando a Lille il pasticcio di Gentile sull’ultimo tiro del quarto di finale contro la Lituana ci tolse dalla lotta per le medaglie.
Era successo nel 2016, quando la tavola apparecchiata di Torino fu rovesciata dalla Croazia nella corsa verso le Olimpiadi di Rio.
Almeno a Eurobasket 2017 la sconfitta nei quarti contro la (semi) invincibile Serbia non ha lasciato troppi rimpianti…
Un sottile filo rosso che unisce i punti e che delinea l’incapacità di questo gruppo di andare oltre il seminato, oltre i suoi limiti, oltre le sue paure. Perché va bene invocare le difficoltà di un movimento che raccoglie a livello giovanile e disperde nel salto tra i senior; è perfetto ricordarsi di un basket che in Italia è surclassato dalla pallavolo al mattino, nelle scuole, e dal calcio al pomeriggio, nel tempo libero; è legittimo non condividere alcune convocazioni o lagnarsi perché i nostri lunghi sono nani o giocano in A2. Ma poi in campo ci vanno i dodici uomini che quella canotta la indossano, con i pregi e i difetti che ognuno di noi ha.
L’Italia non ha buttato via l’ennesima chance di riscrivere una storia ferma ad Atene 2004 perché i suoi protagonisti non hanno saputo andare oltre i confini delle proprie capacità. Il cammino di questa estate azzurra è stato tutto in questo segno, sin dalle prime amichevoli. Le vittorie in sequenza contro Costa D’Avorio, Venezuela, Senegal e via discorrendo hanno riempito l’ego, ma è bastato alzare l’asticella di un gradino (vedi match contro la Russia) per incappare negli incubi del passato: il parzialone sigillato dal canestro di Fridzon a un soffio dalla sirena, col senno di poi, è stato il sinistro presagio di ciò che sarebbe arrivato nelle settimane a venire…
Il finale thriller di Italia-Russia, 70-69 a 35″, possesso azzurri… Ale Gent sbaglia, Fridzon no 😈🎯 pic.twitter.com/PFK4QKhEAS
— NBA-Evolution (@NBAEvolution) August 9, 2019
I ceffoni serbo-greci hanno amplificato i malesseri, ma ciò che è continuato ad emergere è che questa Italia, pur non avendo nulla da invidiare alle sue parigrado, coltivava la sua cronica incapacità di vincere quando conta: -2 contro la Turchia, -6 nel bis contro la Serbia, -2 contro la Francia, -6 pure contro la Nuova Zelanda. Vincere aiuta a vincere, perdere contribuisce a continuare a perdere, non è una legge scritta, ma chi pratica sport sa che invertire la rotta non è sempre come cliccare su un bottone.
«Mi sono rotto le palle di perdere», diceva il Gallo dopo l’ennesimo, amaro ko contro la Lituania a Berlino, quattro anni fa. Lui di questo gruppo può e deve essere leader per lo straordinario talento di cui dispone. Ma nel finale del match contro la Spagna o non ne ha avuto la stoffa o la squadra non l’ha riconosciuto come tale «Ho giocato una gara pessima, mi prendo le responsabilità di questa sconfitta», l’eco più pacata del Beli dopo la debacle contro la Spagna di qualche giorno fa, l’unico a voler mettere la faccia davanti alle critiche. Lui leader ha provato ad esserlo forzatamente, con la forza rabbiosa di chi volesse espiare delle colpe che si sentiva sul petto. E finendo per macchiare la sua buona volontà in tripudio di forzature e tiri sconclusionati.
Non abbiamo motivo di non credere alle loro parole e capiamo anche la frustrazione che si cela dietro gli sfoghi social degli Hackett o dei Datome, dopo anni ad incassare critiche pesanti seguenti a delusioni sempre più cocenti. Eppure continua a mancare uno scatto: in principio era l’incredulità, poi è subentrata la rabbia, quindi la presa di coscienza; ma poi? Come uscire da questo loop che sembra infinito?
Il tramonto all’orizzonte
Belinelli ha 33 anni, Datome 32, Gallinari e Hackett 31: i quattro giocatori più rappresentativi della nostra Nazionale (insieme a Melli e Gentile, 28 anni l’uno, 27 l’altro) difficilmente li rivedremo ad un Mondiale, l’orizzonte più prossimo è l’Olimpiade 2020 (nel caso riuscissimo nell’impresa di qualificarci per Tokyo) o, come ultimissima chiamata, l’Europeo 2021 con il primo turno da giocare in casa. In mezzo c’è l’inutile e insensata necessità di onorare le qualificazioni agli Europei, da cui il nucleo della squadra sarà giocoforza esentata visti gli impegni NBA ed Eurolega.
Quel che pare certo è che ci sarà ancora Sacchetti a guidare l’operazione Tokyo la prossima estate, quando però ci si dovrà guadagnare uno dei quattro posti rimasti per tornare alle Olimpiadi dopo 16 anni duellando con corazzate come Serbia, Lituania, Grecia, Brasile, Russia e magari qualche ripescata illustre come Slovenia, Croazia e Lettonia. Insomma, tutto fuorché una passeggiata. L’Olimpiade è il sogno di ogni atleta, per cui, al netto di infortuni, difficile pensare a forfait in questo momento. Sulla solidità e la voglia di riprovarci ancora una volta è difficile nutrire dei dubbi, i giocatori l’hanno dimostrato mettendoci la faccia.
«Spero solo che quando poi questa generazione tanto chiacchierata (nel bene e nel male) finirà il famoso ciclo, non ci ritroveremo a sentenziare l’odioso “si stava meglio quando si stava peggio”. Senza fare troppa filosofia: dobbiamo rizzare tutti le antenne, perché il mondo del basket va avanti e noi non possiamo permetterci di stare fermi», ha sentenziato il mai banale Datome su Instagram un paio di giorni dopo la fine dell’avventura cinese. Le righe trasudano tutto l’orgoglio del campione ferito, ma il quesito è interessante: cosa resterà dell’Italia quando questa generazione che ha saputo portare tre giocatori in NBA (facciamo quattro, perché ci sarebbe anche Bargnani… ma su questo servirebbe un altro articolo) avrà lasciato il passo alle nuove leve? Melli è l’unica certezza, si spera che il confortante ultimo anno di Gentile sia un trampolino di rilancio per ritrovare l’altro fenomeno di quella generazione del ‘91-’92 che si laureò vice campione d’Europa nel 2011.
Degli eroi di Bilbao in orbita azzurra ci sono anche i vari Polonara, Moraschini e Vitali, più i campioni d’Europa 2013 Della Valle (che di quell’Europeo Under 20 fu pure MVP) Tonut e Abass. Tanti onesti mestieranti, ma siamo distanti anni luce dall’elite mondiale. E soprattutto il cronico problema dei lunghi sembra destinato a restare sul piatto, a meno che Tessitori, a 25 anni e con scampoli importanti di esperienza acquisita in questo Mondiale, non faccia nel giro di un paio d’anni lo scatto in avanti che gli è mancato da teenager. Purtroppo anche sul fronte dei giovani in rampa di lancio non ci sono grandi possibilità nel pitturato, anche perché se Nico Mannion proseguirà sul percorso di crescita delineatosi in questi anni è chiaro che sarà lui in ogni caso la prima scelta per quell’unico spot. Guardando lontano, la Nazionale del futuro potrebbe essere sua e dell’altro “americano” Davide Moretti, magari di Matteo Spagnolo, che sta già incantando tutti a Madrid e che la Spagna starebbe provando ad accaparrarsi come aveva fatto con successo con Mirotic e con minor fortuna con Doncic.
Prima di pensare ad una nuova alba, c’è però un tramonto da accompagnare lungo il viale. Il sole sta calando su un gruppo di giocatori che avrebbe tutto per regalarsi quell’acuto che li incastonerebbe di fianco ai Riva e ai Meneghin, ai Myers e ai Fucka, ai Basile e ai Galanda. Nazionale più forte di sempre o no, ci interessa il giusto (diciamo meno di niente). Regalarsi e regalare ad un popolo un sogno, questo sì che farebbe tutta la differenza del mondo.