Como no te voy a querer
Si me hiciste campeon de Europa por novena vez.
Tre minuti abbondanti per consegnare il titolo di campione d’Europa. Passata la grande paura, il Real vede vicinissimo il traguardo. Il pubblico blancos è caldo come la mano di Carroll, il Gate 7 del Pireo è stordito dall’incessante “Madrid, Madrid” dei padroni di casa. Ma la tripla di Sloukas ha rimesso l’Olympiacos a -7 sul 62-55. Alle mie spalle, nel corridoio alle spalle del primo anello, due tifosi madridisti hanno le suole in fiamme a furia dei nevrotici avanti e indietro. Se lo ricordano il 2013, se lo ricordano il 2014. E hanno visto cosa ha combinato Spanoulis venerdì. Sanno che si entra nell’Oly-zone.
Ma stavolta c’è da scrivere una storia diversa. La storia della Novena. E allora quando Rodriguez arma la mano di Nocioni, che stampa in faccia a Printezis il 65-55, l’onda biancoviola esplode. I due alle mie spalle impazziscono e seguono il coro intonato dalla curva esattamente all’opposto di dove ci troviamo noi.
Mi sembra di riconoscerle quelle parole. “Mi spiegate cosa dice la canzone?”, chiedo loro. È l’inno del Real, che però hanno modificato giusto un pochino. E sì, l’avevo già sentito da qualche parte.
L’Olympiacos è piegato in due, il pazzesco lavoro di anticipo sulla ricezione di Llull ha tolto Spanoulis dalla partita (solo 5 tiri tentati, mica un caso). E senza la sua divinità, il porto di Atene è Pearl Harbor. Niente sorprese a questo giro, la coppa è del Real. Rudy corre in tribuna ad abbracciare la fidanzata-presto moglie diventata la preferita della regia di Eurolega, Ayon, Slaughter e Rodriguez baciano mogli e figli, Nocioni e Campazzo limonano allegramente imitando Maradona e Caniggia:
Un trionfo.
Eppure a Madrid l’aria era irrespirabile mercoledì sera, dopo che i cugini calciatori erano rimasti soffocati dalla Juve e dai 34° della conca nella quale sorge la capitale. Ero in giro per Madrid, si scambiavano chiacchiere con italiani in maglia bianconera, qualche birra in compagnia. E solo pochi madridisti si facevano vedere, sbirciando da lontano col cuore sanguinante.
Il mercoledì è bianconero, il giovedì è gialloblu tra Puerta del Sol e Plaza de Oriente. Nel palazzo della Comunidad de Madrid c’è la cerimonia inaugurale della Final Four. Obradovic abbraccia un Bjelica più imbarazzato di Khryapa dal dermatologo e, da padrone di casa, stuzzica Laso.
He likes to run. He likes zone press. He likes box and one defense. Something else, Pablo?
Pablo incassa e sorride. Ma un po’ di paura per me ce l’ha, dietro quel viso un po’ ancelottiano che i tifosi triestini non rimpiangono di certo dopo l’esperienza all’allora Lineltex, che lo tagliò a febbraio promuovendo Aniello Laezza nel ruolo di play titolare…
Obradovic è stato uno dei suoi maestri, l’ha allenato per due anni quando Laso sbarcò in Castiglia nel 1995, giusto un paio di mesi dopo la Coppa dei Campioni vinta dal Real a Saragozza. L’ultima dei blancos. Con Zeljko in panchina.
Venerdì è il primo grande giorno, è il campo a parlare. Il Cska è finito di nuovo incartato nel suo incubo biancorosso, ma l’arena è piena a metà o poco più per godersi l’ennesimo miracolo dell’Imperatore del Pireo. L’altra metà è tutta davanti all’ingresso principale: i tifosi del Fenerbahce fanno baldoria nel piazzale poi entrano in massa. E li senti. Sembra di essere alla Ulker Arena. Saranno almeno in 5-6 mila, tutti di giallonero. Il Palacio adesso è davvero sold-out, con a bordo campo pure José Calderon e Kenneth Faried (tra l’altro ho incontrato Manimal 24 ore prima ad un evento organizzato da Adidas. “L’anello lo vincono i Bulls”. Eliminati la notte stessa dai Cavs). Ma con Ayon travestito da Sabonis (un po’ meno vodka ma più brillantina) e la grandinata di triple di KC Rivers il Real spezza l’equilibrio nel secondo quarto e ammutolisce gli instancabili tifosi gialloblu.
È finale, ma non è una novità. È la terza consecutiva per i blancos. E la terza contro l’Olympiacos: c’è Londra 2013 da vendicare. E Saragozza 1995 da riesumare.
Il sabato delle Final Four è dedicato alla birra, generalmente. Alla Fan Zone giocatori attuali e del passato scambiano chiacchiere e due tiri con i passanti. Siskauskas butta su un 1vs1 con un giovane riccioluto che però sa il fatto suo e mette alle corde uno dei più grandi talenti europei del nuovo Millennio. Ramunas evita la sconfitta segnando poco prima dello scadere del tempo e per stabilire un vincitore si va coi tiri liberi. Il riccioluto ne metto uno, l’ex Cska risponde, si va avanti così per 6 o 7 giri in lunetta. Alla fine il giovane sbaglia, il Pippen baltico la mette. L’onore è salvo, stavolta. Lui buon tiratore di liberi, ok? (cit.)
Dopo una notte di bagordi (per me), arriva la domenica. C’è pure Re Felipe a troneggiare al centro della tribuna con il gran capo di Eurolega Jordi Bertomeu e poco sotto il presidentissimo Florentino Perez. Ancora più in basso José Antunez e Joe Arlauckas, coloro che insieme a Sabonis furono i grandi protagonisti dell’ultimo Real europeo. All’intervallo lo speaker li saluta, snobbando clamorosamente un altro grande ex: Scariolo, peraltro fresco di ritorno sulla panchina della Spagna. Saluta persino Katsikaris, ct della Grecia, seduto di fianco a Don Sergio. Poco male, vista la compagnia:
Il terzo quarto è una scarica di adrenalina. Fernandez mette la tripla del +11 e il Real sembra provarci per davvero a mettere le mani sulla coppa. Laso è iperattivo lungo la linea laterale. Sente che è IL momento. Ma arriva la prova del nove. Lojeski e Sloukas prendono in mano l’Oly e con un parziale di 0-12 il Pireo è addirittura avanti 41-40. I fantasmi che hanno atterrito l’Armata Rossa son tornati.
Ma stavolta c’è un ghostbuster d’eccezione: Jaycee Carroll. Nel primo quarto Laso l’aveva posizionato in prima frazione nella staffetta difensiva su Spanoulis. Ma ora non serve più il mastino, serve il “Boom-Boom”, come lo chiamavano a Teramo. Detto, fatto: tre bombe in due minuti, tre picconate nelle crepe del tempio ateniese. Quindici anni fa voleva lasciare il basket per la fede, dopo due anni da missionario a Santiago Del Cile. Nell’ultimo mese ha predicato basket:
Dodici mesi fa, il Real avrebbe buttato tutto alle ortiche. Perché l’Oly, nonostante tutto, era ancora lì. Al resto ha pensato Nocioni. Era arrivato per questo, a settembre, “El Chapulin Dorado”, il nomignolo che si porta dietro da quando, a 5 anni, si prese una bella ustione e gli amichetti di Galvez, città a 80 chilometri da Santa Fè, presero a sbeffeggiarlo.
Lo sbeffeggiavano anche quando è arrivato a Madrid per rimpiazzare Mirotic. “Eh ma è vecchio”, “eh ma non ha il talento di Mirotic”, “eh ma ha vinto solo con la Nazionale”. L’ottima stagione da rookie in Nba del montenegrino e quella tutt’altro che trascendentale dell’argentino (da dicembre finito per lasciare il posto in quintetto a capitan Reyes) sembravano rafforzare le teorie di cui sopra.
E invece: prima Final Four in carriera, coppa e titolo di Mvp strameritati. Avrei voluto vedere la faccia di Mirotic mentre scriveva questo:
Al fischio finale la Madrid cestistica è già in tripudio da una decina di minuti, distratta a malapena dalle pallonate in simpatia tra Fernandez e Spanoulis. Campeones, campeones è la litania del Palacio.
Spanoulis ha concluso mestamente la sua serata orribile. Lo seguo con lo sguardo per capire le sue intenzioni, ma non appena l’arbitro fischia la fine l’imponderabile il numero 7 biancorosso va verso i giocatori dell’Real e si complimenta con tutti, uno a uno. Pure con Rudy, uno che invece di prendersi tutti i ceffoni dell’universo quando torna a casa la sera può festeggiare con questa signorina qui:
Lo ha fatto anche altre volte, ma sempre dopo una vittoria. Farlo dopo una sconfitta così è da campione autentico. Campazzo, che sembra un ragazzino di terza media in gita, gli chiede la canotta perché è un suo grande fan. Permesso accordato. La statura di un campione non la misuri solo con le shot charts.