“Devo ammettere che quel ragazzo è tosto. Spero venga nella NBA. Non ha molto buon senso, quindi ci starebbe a pennello.” Charles Barkley

 

E’ il 1996 e “The Round Mound of Rebound” sta parlando dell’allora ventiseienne Shane Douglas Heal, funambolica guardia australiana classe 1970 che nell’immaginario degli appassionati cestistici è da considerarsi il vero primo personaggio ad aver portato alla ribalta i cosiddetti “peroxide-blonde hair”, ben prima del rapper Eminem (per chi di voi ricorda le divise dei Boomers in quel periodo, targate Nike e dagli accessi colori verde petrolio e giallo semi-fosforescente, facile intuire come le tonalità, della canotta e della peculiare capigliatura, si abbinassero perfettamente).

shane

Come si arriva a tale affermazione? Può esser conveniente ricostruire la storia partendo da un altro statement, abbastanza perentorio, a firma dello stesso Sir Charles:

“We’re here to prove we are the best country in the world. We’re the best at basketball. We have got to kill them all.”

E’ l’estate di 19 anni fa ed in piena fase di preparazione olimpica Barkley mette i cosiddetti puntini sulle “i”: il Dream Team III è in missione, ed il pensiero di superstars come Chuck è che l’idea migliore per le malcapitate nazionali che si trovino sulla loro strada sarebbe probabilmente quella di lasciar loro il passo, evitando umiliazioni e sonore disfatte.

barlkey

Nelle fila dell’Australia c’è una guardia che non la pensa esattamente così, anzi: pur consapevole del fatto che gli Stati Uniti siano ovviamente l’avversario da battere, di una spanna (to say the last) superiori alle altre della classe, non riesce proprio a digerire il fatto che gli appartenenti alle altre rappresentative nazionali pensino più a tentare di ottenere un autografo o scattarsi una foto ricordo con i campioni a stelle e strisce piuttosto che a contrastarli sul campo.

Per Shane, che fino ad allora ha militato nella NBL nelle file di squadre del calibro dei Brisbane Bullets, Geelong Supercats e Syndey Kings, quella rassegnazione è inconcepibile – la differenza è e deve essere enorme tra rispetto e paura:

“[…] that wasn’t the Australian way and we certainly weren’t handling the game like that. ”

e ancora:

“[…] we weren’t going to kiss their arse – we were going there to test ourselves against the best. We weren’t going to treat them any differently than we did anybody else. We had respect for them but we certainly weren’t going to bow to them.”

Un uomo di parola: quando Australia e Stati Uniti si affrontano sul parquet del Delta Center di Salt Lake City in un’amichevole di preparazione alle Olimpiadi americane, non solo Shane “The Hammer” Heal fa piovere triple all’indirizzo del Dream Team spesso e volentieri da distanza siderale (chiuderà con un totale di 28 punti a referto)

ma soprattutto, nonostante la differenza di stazza, non si tira indietro quando l’atmosfera si fa surriscaldata e c’è bisogno di ricorrere alle cosiddette maniere forti.

Quando una frazione di secondo dopo aver mandato a bersaglio la quarta tripla della serata si vede scaraventare al suolo davanti alla propria panchina da un Barkley scagliatoglisi contro a testa bassa

senza il minimo timore reverenziale, e probabilmente senza neanche averci pensato troppo, Shane fronteggia Sir Charles petto contro petto, apostrofandolo con parole che il #4 USA non deve aver particolarmente gradito

e dando il via ad una serie di schermaglie che sarebbero durante per l’intero corso della partita nonché dell’estate cestistica.

Neanche a dirlo, il punteggio finale vede gli USA imporsi con un perentorio 118 a 77. Shane Heal scrive 28 (8 bombe) e, al di là della sconfitta, mette le cose in chiaro, mandando un messaggio a tutti i suoi compagni di squadra.

Non si può dire che esso non sia stato recepito: dopo le sorprendenti 4 W su 5 partite disputate nella fase a gironi, e dopo aver mandato a casa contro ogni pronostico la Croazia di Toni Kukoc ai quarti (73 a 71 il punteggio), i Boomers accedono addirittura alla semifinale del torneo olimpico di Atlanta ‘96.

Avversario? Quello stesso Dream Team (III) incontrato poco addietro in una delle amichevoli meno amichevoli che ricordi di aver guardato.

La storica corsa dei Boomers finisce lì, con una sconfitta per 101 a 73 contro i padroni di casa e futuri campioni (asfaltata la Yugoslavia in finale) e con il sogno bronzo sfumato nella finale per il terzo e quarto posto persa di solo sei punti contro la Lituania.

Heal ne mette 19 (4 bombe) e trova il tempo per farsi un nuovo amico: Gary Dwayne Payton.

Preso di mira da quest’ultimo, famigerato per la sua lingua lunga e per le sue martellanti abilità di trashtalking, Shane gli risponde per le rime. Memore del fatto che “The Glove” abbia di recente apposto la sua firma su un rinnovo contrattuale per la modica cifra di 89 milioni di bigliettoni, pensa bene di dargli il seguente consiglio:

The first thing you need to do when you get your $89m is buy yourself a jump shot.”.

Tanto irriverente quanto efficace: il Guanto chiuderà quella partita con un eloquente 2 su 10 al tiro, bollendo di rabbia e promettendo vendetta.

1996 NBA Finals Game 2:  Seattle SuperSonics vs. Chicago Bulls

Figurarsi se uno che non se le fa mandare a dire da Michael Jordan, “abbozza” al cospetto di uno spericolato australiano mai visto nè sentito prima.
La cosa che ha dell’incredibile è che i due l’occasione di duellare ancora l’avranno presto, molto prima di quanto possano pensare.
Sono infatti due i principali aspetti emersi in ottica Boomers da questo storico torneo olimpico:

  • l’Australia si è fatta conoscere al grande pubblico cestistico, pur non avendo ancora giocatori nei più prestigiosi campionati internazionali,

  • Shane Heal si è fatto notare – abilità balistiche e sana dose di tigna, potrebbe far comodo a squadre più titolate di quelle per le quali abbia militato fino a quel momento.

E’ così che, nel corso di una sola estate, si giunge alla frase riportata in apertura:

“Devo ammettere che quel ragazzo è tosto. Spero venga nella NBA. Non ha molto buon senso, quindi ci starebbe a pennello.” Charles Barkley

Nonostante i 25 centimetri in meno (1.83 m vs 2.18 m), Shane Heal diventa il secondo giocatore australiano della storia, dopo il lungo Luc Longley, ad accasarsi con una franchigia NBA: i Minnesota Timberwolves.

heal dallas

Il suo impiego sarà molto limitato (5.5 minuti per 1.7 punti a partita), ma ci sarà tempo e modo per avere una nuova “chiacchierata” con Payton: nonostante la sconfitta finale contro i Seattle Supersonics (106 a 98), il nostro dice la sua mettendo ben 5 triple nel quarto quarto, chiudendo con 15 punti in soli 13 minuti d’impiego

Per chi di voi lo ricorda, Shane è un giocatore che esalta come pochi, un uomo di parola ed incline al rischio.

Nelle stagioni successive lo si è visto sia nuovamente in Australia che in Europa: Grecia ma anche, per tre soli mesi (permanenza talmente breve da non avere neanche la fotina d’archivio per la LegaBasket), Italia, nelle file della Fillattice Imola (16 punti ad allacciata di scarpe).

In linea con una carriera “estrema”, a trentatre anni la seconda possibilità nella NBA, addirittura nelle file dei San Antonio Spurs.

heal spurs

Un uomo di parola ed incline al rischio, si diceva: conclusa la propria carriera da giocatore, investendo massicciamente nel franchising, Shane è stato capace di tirar su un impero commerciale da 30 milioni di dollari a partire da un singolo Subway…

SubwaySandwichBIG

… per poi andare in rosso di quasi 9 milioni a distanza di qualche anno con conseguente e fragorosa bancarotta.
Se aveste modo di chiedere a business men del settore che hanno interagito con lui in questi anni, insisterebbero per dirvi la loro sul perché di tale crack:

“E’ fottutamente arrogante. E si prende un sacco di rischi.”

Beh, se si fossero informati con chi lo ha seguito dagli albori della sua carriera (quando quest’ultima andava ancora in scena su di un parquet), avrebbero potuto risparmiarsi la fatica di scoprirlo da soli.

Il nostro, come sempre, si è però rimesso in carreggiata

reb heal

e, con quattro Olimpiadi alle spalle ed un nutrito bagaglio d’esperienza, ai giorni d’oggi allena (le SQE Starts in WNBL) e commenta basket (la NBL).

Sul suo ennesimo comeback non c’erano molti dubbi a dire il vero – l’unico interrogativo che rimane é il seguente: QUALE SARA’ LA PROSSIMA MATTATA?

Stay tuned.

“Che cazzo mi hai appena detto?” Vince Carter
“Che cazzo mi hai appena detto?” Vince Carter

 

(disegno di copertina a cura di http://fanciullodelghetto.blogspot.it/)

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Valerio D'Angelo

Ingegnere romano malato di palla a spicchi. Lavoro a WhatsApp (ex-Google, ex-Snap, ex-Facebook) e vivo a Dublino, in una nazione senza basket, dal 2011. Per rimediare ho scritto il libro "Basket: I Feel This Game", prefazione del Baso. Ho giocato a calcetto con Pippen e Poz, ho segnato su assist di Manu Ginobili, ho parlato in italiano con Kobe in diretta in una radio americana e mi e' stato chiesto un autografo a Madrid pensando fossi Sergio Rodriguez.

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