L’uomo è meno sé stesso quando parla in prima persona. Dategli una maschera, e vi dirà la verità.
(Oscar Wilde)
Evey: Chi sei?
V: Chi…”Chi” è soltanto la forma conseguente alla funzione, ma ciò che sono è un uomo in maschera.
Evey: Ah, questo lo vedo!
V: Certo, non metto in dubbio le tue capacità di osservazione. Sto semplicemente sottolineando il paradosso costituito dal chiedere a un uomo mascherato chi egli sia.
(V for Vendetta)
Rituali, funerarie, religiose, pagane, tribali, teatrali. Le maschere sono tra i manufatti più antichi dell’uomo. Come se dopo la selce per le lance e il legno per le ciotole, i nostri antenati preistorici avessero sentito il bisogno di scolpire, da principio, anche la propria identità. Perché dopo l’immediato bisogno di sopravvivenza viene quello di autodeterminazione. Storicamente la maschera ha avuto usi sacri e mistici, per poi entrare nella tradizione popolare e nella sfera dell’intrattenimento e del folklore, occupando di diritto i palcoscenici delle piazze e dei teatri. A tutte le latitudini. Dall’Africa all’Asia, dalle Indie alle Americhe.
Gli Stati Uniti, almeno così come li conosciamo oggi, sono una nazione piuttosto giovane. Non hanno una continuità storica millenaria, non affondano le loro radici in culture e usi che li precedono da tempi immemori. La loro epica giace semmai tra le pellicole dei film western e le pagine dei fumetti, sospesa tra il mito della frontiera e quello del sogno americano. I supereroi sono l’equivalente a stelle e strisce dei nostri guerrieri omerici. Uomini e donne così valorosi da non apparire ridicoli nemmeno in calzamaglia. Spalle dritte come quelle di Dwight Howard, fasce di muscoli in eterna tensione, accentuate da costumi dai colori sgargianti. Avventure al limite dell’umano, armi futuristiche, superpoteri sovrumani e poi lei, immancabile: la maschera.
Il destino stesso di chi la indossa è bifronte, allegro come una commedia o fosco come una tragedia, sta a chi ne fa la sua seconda pelle deciderlo. Perché anche la maschera ha un potere ben preciso: quello di nascondere l’identità e, pertanto, donarne un’altra. Non per forza migliore, già che per ogni Batman c’è un Bane, per ogni Spider-Man un Goblin, per ogni Daredevil un Bullseye. Per ogni eroe, insomma, c’è un anti-eroe, ugualmente misterioso, ugualmente determinato, ugualmente mascherato.
La maschera nasconde e rivela: allo stesso tempo cela aspetto e fattezze, e mostra animo e carattere. In molti l’hanno indossata anche sui parquet dell’NBA, o della MBA se preferite (Masked Basketball Association), visto l’uso sempre più frequente che se ne fa. C’è chi l’ha portata per mesi, chi per un giorno, chi per necessità e chi per vezzo, ma in pochi hanno mostrato davvero talenti soprannaturali. Capaci di capriole di pulcinelliana memoria e imprese degne di Scaramouche, giravolte sui due lati del campo che neanche Ferruccio Soleri nell’Arlecchino servitore di due padroni. Gesta memorabili rese indelebili da quello che a prima vista sembra una banale sagoma di plastica trasparente, ma che a un più attento sguardo diventa il simbolo della capacità di andare oltre la fatica, oltre il dolore ma forse soprattutto oltre la paura. Attraverso quel misto di incoscienza e temerarietà tipico solo dei grandi.
Alcuni giocatori indossandola appaiono goffi e impacciati, altri spaventosi, altri ancora buffi. Come nelle favole o nei cartoni animati c’è chi sembra acquisire sembianze zoomorfe (“il gufo” Kirilenko), come nei film dell’orrore c’è chi rassomiglia a una creatura frutto degli esperimenti del dottor Frankenstein (non volercene A.C.), come nella pellicola di Ridley Scott c’è chi lotta gladiatorio nell’arena e acquista la nobile determinazione di Massimo Decimo Meridio. C’è poi chi sembra solamente pronto per la settimana bianca, come un Lew Alcindor d’annata o un Will Perdue in coda allo skilift.
(VM18 – Attenzione: tenere lontano dalla portata dei bambini)
C’è infine chi ha semplicemente scelto di dominare. Chi, incurante di paletti mentali e fisici, fisime e infortuni, riesce a usare il proprio corpo come fosse quello di un altro, sprezzante di ogni pericolo. Alcuni acquistano il dono del teletrasporto di Nightcrawler o la mira di Occhio di Falco, altri sfrecciano più rapidi di Flash o si rigenerano più velocemente di Wolverine, altri ancora volano e galleggiano nell’aria meglio di Thor quando scaglia Mjolnir. Tutti hanno lottato, solo pochi sono stati in grado di stupire. Ecco alcune mascherate da ricordare.
Mike Conley
– Paracadutato in campo per pareggiare la serie direttamente dal lettino della sala operatoria –
Dopo aver perso tre partite per la frattura al volto rimediata sul campo dei Blazers e aver guardato da bordo campo la débâcle di gara 1 a Golden State nelle semifinali della Western Conference 2015, Iron Mike effettua un recupero lampo e 8 soli giorni dopo l’intervento chirurgico decide che è tempo anche per lui di partecipare alla festa. Nessuno lo avvisa però che carnevale è passato da mesi, così si presenta al ballo agghindato a festa e mette a referto 22 punti in 27 minuti, con 8/12 dal campo e il 50% da tre, incurante di un occhio gonfio come la faccia di Mayweather dopo l’incontro con Pacquiao. Rientro di puro carisma ed “effetto Willis Reed” assicurato. Non è bastato a vincere la serie, è vero, ma non per questo ne va sminuita la portata. Giocare con un occhio solo toglie profondità e prospettiva, è cosa per pochi. Peccato solo che dall’altra parte ce ne fosse uno capace di fare canestro anche bendato.
Russell Westbrook
– “Al mio segnale, scatenate l’inferno!” –
Un altro che a Portland quest’anno ha lasciato un pezzo di faccia (lo zigomo) è Russel Westbrook. Come è andato il rientro? Tripla doppia contro Phila (uno dei suoi bersagli preferiti) da 49 punti, 15 rimbalzi e 10 assist: la quarta consecutiva e la quinta stagionale in un’annata in cui ne ha messe a segno ben 11 (secondo, più che doppiato, James “il barba” Harden a quota 4). Persa la faccia Russ ha perso anche la testa: volando impazzito da una parte all’altra del campo come Rey Mysterio rimbalza sulle corde del quadrato del wrestling. Dopo la 619 in piedi, al centro del ring, ci sono solo lui e la sua maschera. Don’t try this at home.
Kyrie Irving
– Kyrie nei panni di Don Diego de la Vega. En garde! –
Il15 dicembre del 2012, l’australiano rientra in campo trasformato. A causa di un problema alla mascella indossa una protesi protettiva. La museruola però non gli impedisce di azzannare la partita e realizzare quello che allora fu il suo massimo in carriera: 41 punti. Aggiungete pure 5 rimbalzi, 5 assist, la Z di Zorro siglata a colpi di triple (5/8) sulle maglie larghe della camicia difensiva dei Knicks e il sergente Garcia che batte in ritirata cavalcando verso il tramonto. Unico neo: i Cavs hanno perso la gara di un punto (103-102). Touché.
Kobe Bryant
– Kobe, who else? –
Il 3 marzo del 2012 il Black Mamba avvolge tra le sue scure spire i malcapitati rivali storici di Sacramento. Non importa non ci siano più Bibby, Christie, Stojakovic, Webber e Divac: il morso velenoso del 24 colpisce impietoso quel che resta dei Kings. Per 38 volte. Se non vi basta segnate anche 8 rimbalzi e 3 assist. Non male per uno che si era fatto rompere il naso all’All-Star Game da Dwyane Wade. Solo lui. (PS: la protezione indossata quell’anno per 11 partite è stata battuta a un’asta benefica per 67.100 dollari).
LeBron James
– LBJ mangia Damon e fa damone –
Che a King James non serva un alter ego per reclamare il suo trono è chiaro a tutti ma la maschera fa parte del corredo regale e, insieme a scettro e corona, LBJ l’ha indossata in diverse occasioni (generando anche una querelle con la lega riguardo al colore e alla foggia dell’orpello). Una delle apparizioni del sovrano mascherato però – precisamente quella del 3 febbraio del 2005 – è stata più scintillante di altre. L’espresso di Akron non riesce a portare i suoi alla stazione della W ma a mo’ di locomotiva li trascina con 31 punti e 10 assist (giusto perché la maschera dovrebbe soprattutto ridurre la visione di gioco). Sui binari, a farne le spese, un innocuo, innocente e ignaro passante di nome Damon Jones. Il risultato: materiale buono per i poster del regno, o per la campagna pubblicitaria dell’alta velocità. Siamo tutti testimoni.
Rip Hamilton
– È qui la festa? Oltre a Hamilton anche Bill Laimbeer e Antonio McDyess partecipano al party –
Ve li ricordate i Bad Boys II? Se li ricordano bene anche Phil Jackson (che infatti non ha l’aria di uno che ami i filmazzi d’azione) e i suoi Lakers, fatti a fette da Billups e compagni nelle Finals del 2004. Nel cast pure un certo Richard Hamilton, in arte Rip, che sotto mentite spoglie ne mise 31 con 6 rimbalzi e 3 assist nella gara 3 che spaccò la serie. Con indosso la classica bauta trasparente il maratoneta di UConn ha trovato la sua dimensione. Tanto da non voler abbandonare più il feticcio e facendone anzi un elemento distintivo. La sua coperta di Linus. O forse il mantello di Superman visti gli effetti. Non c’è difesa che possa fermarlo: solo la kryptonite (e gli Spurs del 2005).