Per quanti anni abbiamo sogghignato quando, con puntualità più svizzera che turca, le compagini da Istanbul e dintorni tornavano a casa dopo aver gettato vagonate di soldi nel Bosforo senza ricevere nemmeno un biglietto omaggio per le Final Four?
Diciamo sempre, dal 2001 in avanti.
2001 è l’anno della seconda (il precedente è di 12 mesi prima) e ultima Final Four disputata da una squadra con la Mezzaluna sul petto. È la stagione in cui si disputano due Coppe dei campioni, dopo la rottura con la Fiba. Da un lato c’è l’Eurolega, embrione di quella che conosciamo oggi, che al suo anno da neonata non usa la formula della Final Four e vede incoronata campionessa la Kinder Bologna del Grande Slam. Dall’altra la SuproLeague, la coppa organizzata dalla Fiba, che invece chiude la stagione con la finale a quattro di Parigi. L’Efes Pilsen di Mulaomerovic e Okur si piega al Panathinaikos di Bodiroga e Gentile (che poi perderà la finale contro il Maccabi) e chiude terzo portandosi a casa la finalina contro il Cska del califfo Nikita Morgunov e di un giovanissimo Kirilenko.
Da quel dì, lunghi anni di beffe per tutti, che si chiamassero Ulker, Fenerbahce, Fenerbahce Ulker (come dopo la fusione del 2006 tra le due realtà), Efes, Besiktas, Galatasaray. Sembrava che nemmeno il Re di Coppe, Zeljko Obradovic, potesse riuscire nell’impresa quando nel 2013 accetta la sfida di portare il Fener a salire fin dove i gialloblu non si erano mai spinti: sul tetto d’Europa. Che poi altro che tetto d’Europa. Il Fenerbahce è ancora al piano terra.
Al primo anno, un mezzo fallimento, con l’eliminazione alle Top 16 addolcita appena dal titolo nazionale (peraltro vinto a tavolino con il Galatasaray a boicottare gara 7 di finale in polemica con la Federazione). Roba da far saltare i nervi in quattro e quattr’otto ad un tipino già tutt’altro che sereno di suo come Obradovic:
Proprio la metamorfosi in arma totale di quell’eterno incompiuto che sembrava Nemanja Bjelica è uno dei frutti più succosi del lavoro del coach serbo, che ha riportato il basket turco magari non (ancora) sul tetto, ma almeno nell’attico vista mare d’Europa.
Ripudiato dal Partizan, che nel 2007 se lo lascia sfuggire giudicandolo non un granché, Nemanja si era dovuto rifugiare tra le nevi d’Austria per non perdere il treno, ai Traiskirchen Lions.
No, non è una squadra di hockey né l’associazione Pasticcerie di torte Sacher. Giocano anche a basket in Austria, pare.
Grazie agli alpini, però, arriva la seconda chance per il panterone serbo. Gliela offre la Stella Rossa, poi dalla Kombank l’ascesa in maglia Baskonia, dove con Mirza Teletovic formava una coppia che, tra alti e bassi, tendenzialmente non se la cavava male:
Bjelica è uno dei tanti esordienti alle Final Four nelle fila del Fenerbahce, a sua volta alla prima esperienza tra le migliori 4 del Continente (l’ultima Cenerentola a sedersi al tavolo dei re era stata Malaga nel 2007). Perché Obradovic avrà sì vinto 8 Coppe dei Campioni con 4 squadre diverse, ma roster e società sono praticamente vergini. In due appena hanno già vinto l’Eurolega una volta. E se non fosse arrivato a dicembre Nikos Zisis (campione nel 2008 in canotta Cska) il solo a fregiarsi del titolo sarebbe Ricky Hickman, che va a caccia del bis dopo il successo di Milano col Maccabi. Ai due aggiungete Jan Vesely, che può vantare la presenza alle Final Four datata 2010 col Partizan. Avventura chiusa però con 2 sconfitte su 2. Per gli altri 9, già essere tra le prime 4 d’Europa è il punto più alto della carriera.
Insomma, di incognite ne ha avute Zeljko. Perché è pur vero che, sulla carta, di talento (e soldi) ce n’è a bizzeffe. Ma farlo fruttare è altra storia.
Prendete proprio Vesely. Miglior giovane d’Europa nel 2010, esploso con la canotta del Partizan proprio nella pazzesca cavalcata degli underdogs serbi di un quinquennio fa e volato poi in Nba, scelto al draft 2011 dagli Wizards con la chiamata numero 6. Nella Capitale tre stagioni non proprio scintillanti e quando l’estate scorsa Kawhi Leonard, scelta numero 15 dello stesso draft di Jan, si è preso anello ed Mvp della Finals, l’ironia contro la scelta di Washington fu a dir poco feroce. (articolo sul Washington Post)
Ed allora eccolo tornato in Europa per dimostrare di non essersi perso per strada e per scrollarsi di dosso un’etichetta che sembra più una macumba. Il ceco, infatti, è uno dei soli 7 giocatori ad essere stato scelto tra le prime 6 chiamate del draft capace restare in Nba meno di 3 anni. Gli altri sono:
- Jonny Flynn (draft 2009, n. 6, Minnesota Timberwolves, fermato da un infortunio all’anca e del quale potrà raccontarvi qualcosa di meglio qualche tifoso di Capo d’Orlando)
- Jay Williams (draft 2002, n. 2, Chicago Bulls, membro della disastrosa spedizione Usa ai Mondiali 2002, carriera stroncata da un incidente in moto il 19 giugno 2003 nel quale ha rischiato di lasciarci le penne)
- Len Bias (draft 1986, n. 2, Boston Celtics, morto il giorno dopo il draft per un’aritmia cardiaca provocata da abuso di cocaina)
- Chris Washburn (draft 1986, n. 3, Golden State Warriors, un paio di stagioni in Nba passate più tra alcol e droghe che a dare una mano a Joe Barry Carroll e Chris Mullin)
- Russell Cross (draft 1983, n. 3, Golden State Warriors, una stagione sulla Baia poi i problemi cronici alle ginocchia che ne hanno frenato l’ascesa, facendolo transitare anche da Napoli nell’ ’86-‘87)
- James Ray (draft 1980, n. 5, Denver Nuggets, tre stagioni in Colorado, una a Torino e poi il ritiro a 29 per colpa della sarcoidosi, malattia che colpisce i polmoni)
C’è materiale per tenersi la mano sul pacco 24 ore su 24.
Ma Jan sembra aver imboccato tutta un’altra via. Obradovic va spesso nei minuti caldi della partita con l’atipicità sua e di Bjelica vicino a canestro e di questo passo rivederlo in America potrebbe non essere così folle. L’apice della stagione l’ha toccato in gara 1 dei quarti contro il Maccabi: career-high in Eurolega da 23 punti con 11/14 dal campo e 7 rimbalzi in 21’. Il tutto veleggiando placidamente ben oltre i 3,05:
Non erano solo sotto canestro (un ringraziamento particolare a Luka Zoric e Oguz Savas per avermi permesso di vedere il meno possibile Semih Erden) le incognite per il Fenerbahce. Sugli esterni, se Hickman e Zisis erano le “clausole di sicurezza”, la squadra era però costruita su due grandi scommesse: Andrew Goudelock e Bogdan Bogdanovic.
All’ombra del Mamba Nero, nel corso degli anni sono sorti emuli più o meno colorati. Tra quello Rosso (Matt Bonner) e quello Bianco (Brian Scalabrine) è spuntato fuori pure il Mini. Fu Sua Maestà Kobe in persona ad affibbiare a Goudelock il nomignolo, un segno di grande fiducia (chiedere a Smush Parker). Un paio d’anni ai Lakers a sgomitare per trovare qualche minuto buono, con un ventello rifilato agli Spurs in gara 3 del primo turno di playoff 2013 da raccontare ai nipotini e il titolo di Mvp della D-League che però non bastano per concedergli una chance vera.
Lo scorso anno a Kazan la conferma della sue incredibili doti offensive, quelle che avevano fatto sobbalzare pure Kobe, e gli Mvp di Eurocup e Vtb League ampiamente meritati. Confermarsi al massimo livello non era certo scontato. E invece…
Obradovic gli ha data carta bianca in attacco, dove ama creare dall’1vs1 in palleggio o dal pick’n’roll, punendo gli scarichi generati dalla sublime visione di gioco dei vari Preldzic e Bjelica o andando ad attaccare fino al ferro. Le cifre sono la conseguenza: 16,4 punti col 52,7% da 2 e il 45,5% da 3 ma anche un paio di assist ed altrettanti rimbalzi. E Kobe gongola…
Torniamo nei Balcani, ora. Bogdan in, Bojan out. Cambiare un paio di consonanti e plasmare un’altra stella col futuro scritto oltreoceano. Per sostituire il Bogdanovic croato volato ai Nets, Obradovic (e Maurizio Gherardini, diventato un anno fa gm del team) ha puntato forte sull’omonima stellina serba, ultimo prodotto della cantera del Partizan e già nelle mire dei Phoenix Suns (scelta n. 27 al draft 2014). Talento indiscutibile, ma un conto è stampare 15 punti a partita in una squadra di giovani come quella bianconera e un conto è caricarsi sulle spalle una squadra costruita per vincere tutto. Qualcuno lo paragona a Danilovic (perdonali, Sasha) soprattutto per durezza mentale e “intangibles”. E anche se il tiro da fuori è ancora incostante, l’allenamento per iniziare a decidere le partite nei momenti caldi procede come si conviene:
Insomma, tanti attori protagonisti nel film turco. Ma ancora una volta è la mano del regista quella che fa la differenza. In semifinale, venerdì 15 maggio, c’è il Real Madrid padrone di casa che da 20 anni aspetta di tornare sul tetto d’Europa. L’ultima volta accadde nel 1995. Sapete chi era il regista di quel film?