Phoenix, Arizona, 25 Aprile 2012. I Suns giocano l’ultimo turno casalingo della stagione regolare (e, quindi, della stagione stessa) contro i San Antonio Spurs. Ai texani mancano solamente Parker, Ginobili, Duncan e Gregg Popovich, il che rende la partita una sgambata di fine anno sul filo dell’equilibrio. A poco più di 5′ dal termine, si alza un coro timido verso Coach Alvin Gentry.
“We want Steve!” “We want Steve!”
Le voci si uniscono e dopo qualche minuto il canto si sente, fortissimo. Nash è lì, se la ride, seduto per terra come faceva da anni a questa parte, perché la schiena lo aveva quasi completamente distrutto. Tutto il palazzo sa che quello sarebbe stato il finale della storia, e l’allenatore non si fa certo pregare: dentro Steve, applausi, una palla persa e un tentativo di commettere fallo, una – finta – difesa. Dopo un paio di azioni, l’ovazione. Una chiacchierata per le telecamere, un match da finire che non ricordo il risultato, chissenefrega. Termina un’era.
Un passo avanti, una nuova era. 25 Settembre 2014.
“The Phoenix Suns and restricted free-agent guard Eric Bledsoe came to terms Wednesday on a five-year contract sources say is worth $70 million.”
Phoenix, reduce da una buonissima stagione con Jeff Hornacek in panchina e 48 vittorie su 82 partite, aveva appena firmato quel piccolo, grande uomo che è Isaiah Thomas e rifirmato, o meglio, puntato tutto alla roulette sull’ex Clippers, mai davvero convincente a Los Angeles, ma che in Arizona aveva trovato discreta continuità. C’è anche Goran Dragic, però, e a meno di sconvolgimenti nel regolamento nessuno ha detto che si poteva giocare a basket con 3 palloni. Insomma, quello che poteva essere un “boom” diventa un boomerang: in Febbraio, Thomas viene spedito senza troppi rimpianti a Boston (e da lì, la storia la sapete…), lo sloveno col fratello a Miami, e Bledsoe, che deve fare i conti spesso e volentieri con gli infortuni ed è, oggettivamente, strapagato, si trova da solo sull’isola. Sotto il 50% di vittorie a fine anno, che diventa il 28% in quello successivo. E’ il tramonto dei soli, che non riusciranno mai ad ottenere una trade a proprio vantaggio e che sceglieranno in alto giocatori con potenziale ancora inespresso (Alex Len) o troppo acerbi per poterlo già esprimere (Dragan Bender). Tuttavia, come suggerisce il nome della squadra, c’è sempre una luce che splende in fondo al tunnel.
A prima vista, Devin Booker sembra uno dei ragazzi comparsa di Breaking Bad. Lo avrei visto bene a servire fish’n chips da Pollos Hermanos, sotto le direttive del grande capo Gustavo Fring.
Si sarebbe giocato un ruolo pure in Sons Of Anarchy, ma questo non è Netflix e lui ha tutte le carte in regola per recitare la parte del protagonista, nonostante lo scarno curriculum.
Del resto, l’idea di acquisire giovanissime scommesse è chiara nel piano di ricostruzione dei Phoenix Suns, che non hanno il benché minimo appeal per fare dei colpi di mercato, come dimostra il caso Aldridge: dapprima vicinissimo all’Arizona dopo l’esperienza a Portland e poi, come volevasi dimostrare, molto più convinto del ritorno nel suo Texas, a San Antonio. Lo stesso Booker sembra una chiamata anonima, in un draft dove gli squilli più forti si erano sentiti alle primissime posizioni: Towns su tutti, succeduto da Russell, Okafor e Porzingis. Il commento del supporter medio è facilmente intuibile: “Un’altra guardia? Cosa ce ne facciamo?” Non è stato molto dissimile dal mio, ve lo garantisco.
Un lungo, anzi, un mezzo lungo sarebbe servito eccome. E come spesso accade, la scelta di un freshman semi-sconosciuto viene giustificata parzialmente dall’Università di provenienza, in questo caso Kentucky, rinomata fucina di grandi talenti.
Andiamo con ordine.
Partiamo dal nome: Devin Armani Booker, come la squadra di basket milanese, dove il padre aveva giocato nell’ultima stagione da professionista. Il buon Melvin, che aveva vissuto a Pesaro le annate migliori, lo avrebbe voluto portare in Italia con sé: niente da fare, il piccolo rimane con la mamma nel natìo Michigan e riuscirà a vedere il genitore soltanto nei mesi estivi. Le cose cambiano quando papà appende le scarpette (rosse) al chiodo e comincia la sua carriera da Assistant Coach a Moss Point, nel Mississippi.
E’ lì che tutta la famiglia si trasferisce, ma è soltanto nel 3° anno del Liceo che il figliolo riesce a mettere a frutto i primi insegnamenti: i giocatori migliori della High School erano passati al college e, spostato nel nuovo ruolo di point guard, D-Book riesce a frantumare vari record statali e interstatali. Partecipa al celebre McDonald’s All-American Boys Game nel 2014, ne più né meno del classico All-Star Game per i liceali, e si permette di dare il benservito a Duke, North Carolina e le due maggiori università del suo Michigan, per raggiungere John Calipari e i suoi Wildcats. Su quale fosse, già allora, la sua caratteristica principale, nessuno covava dei dubbi.
“Ho sempre invidiato il suo fisico, ma ancora di più il tiro. Ha una meccanica perfetta, si capiva che ci avrebbe costruito una carriera così.”
Se lo dice l’ex “Scooter“…
A Lexington, campo di casa di Kentucky, Devin Booker si cala in una realtà totalmente diversa dalla precedente. L’allenatore di origini italiane è stato un fervido seguace del Platoon System, stile di gioco che prevede l’utilizzo di due quintetti diversi che ruotano sul parquet ogni quattro minuti: in questo modo il ritmo si mantiene alto, e i giocatori assicurano un buon livello di freschezza e lucidità nelle battute finali. E’ una scelta che non risparmia neppure il già citato Karl-Anthony Towns, cui medie a stagione conclusa non saranno certo quelle di una prima chiamata assoluta: i 21’ giocati a partita sono gli stessi della guardia uscita da Moss Point, che avrebbe sicuramente preferito giovare di maggior spazio. Ad ogni modo, Booker riesce comunque a togliersi qualche soddisfazione personale: viene premiato nella sua Conference come 6° uomo dell’anno, inserito nel miglior quintetto di Freshmen (giocatori al primo anno di Università) e secondo miglior quintetto generale. I Wildcats perderanno l’unica gara dell’anno alle Final Four, contro la Wisconsin di Sam Dekker e Frank ‘the Tank’ Kaminsky. Calipari abbandonerà “the System”, anche perché si renderà conto che difficilmente un buon prospetto accetterà l’idea di giocare poco e tirare di meno; Booker farà lo stesso con Kentucky, soltanto 12 mesi dopo la prima volta. E’ già tempo di prendersi le luci nel palcoscenico più illuminato.
(Un pelo ingrassato babbo Melvin, eh)
“Get to my desk this AM and look at our NBA player stats.
Devin Booker: 39 points, 28 in 4Q alone. Suns record.
Man, I held him back.”
(John Calipari, on Twitter)
Il completo poco sobrio e scintillante della notte del Draft calza a pennello per un giocatore che il n.1 lo portava già sulla vecchia maglia, e che il n.1 vuole aspirare a diventare in futuro. Del pezzo forte, abbiamo già anticipato: clamorosa capacità balistica, da ogni posizione del campo e in qualsiasi tipo di soluzione, sia il tiro piazzato, dal palleggio, che in uscita da un blocco o da un semplice ‘ricciolo’. Un’analisi corroborata dal 41% abbondante da 3 con cui ha chiuso l’esperienza universitaria. Più in generale, sulla metà campo offensiva c’è da sfregarsi le mani: alcune qualità sono davvero sottovalutate, come il passaggio, i movimenti senza palla e l’uso invidiabile della mano debole, quella sinistra. Attenzione: questo non vuol dire che sappia attaccare il ferro alla velocità di un treno, né tantomeno battere continuativamente il proprio uomo in 1on1. Booker preferisce evitare i contatti e, nonostante un fisico già invidiabile (ma ancora da costruire), da lui vi aspetterete un classico palleggio, arresto e tiro rispetto ad una penetrazione, in caso di area libera. L’altro grande problema, tipico di chi è ancora in fase teenage, è legato a ciò che succede dietro. Non chiedetegli una rotazione né, tantomeno, uno scivolamento: si arrangia, fidandosi dei suoi mezzi che lo hanno portato ad un passo dal titolo NCAA. Come si dice dalle mie parti, “ne deve ancora mangiare dei panini” e, per adesso, non siamo neppure all’antipasto.
“I was impressed with him the first time we played him,
and I’m very impressed tonight.
He’s just out there having fun.
He’s one of the future 2 guards in this league.”
(Dwyane Wade)
30 Ottobre 2015. Steve Nash torna a Phoenix da spettatore, omaggiato del Ring Of Honor: coincidenza o meno, lo stesso giorno Devin compie 19 anni e stravince il primo match della Regular Season, ai danni dei Portland Trail Blazers. Sarà l’unica serata da ricordare nella stagione 2015-16 dei Suns. Da qui in avanti, si assiste allo sfascio più completo: Markieff Morris, che ha visto partire l’adorato fratello Marcus per liberare spazio salariale all’interno de l’affaire Aldridge, non gradisce il ruolo di primo cambio dalla panchina, e giocherà apposta contro gli interessi della squadra sino alla sua cessione (un esempio a caso) Coach Hornacek, difeso e coccolato dai suoi nelle due annate precedenti, sarà costretto all’esonero per lasciar posto ad un novizio come Earl Watson; l’impietoso record di 3-21 fra Gennaio e Febbraio, gli scambi scellerati, le decine di contratti decadali per far scendere in campo giocatori da D-League (Lorenzo Brown, Jordan McRae, Phil Pressey solo per citarne tre), gli annosi problemi fisici di Eric Bledsoe, costretto a saltare 48 gare per la rottura del menisco. Successivamente, anche TJ Warren sarà costretto ad alzare bandiera bianca. A questo punto, senza più niente da perdere per davvero, si lascia carta bianca al figlio di Melvin. Che, in linea di massima, dimostra di saper scrivere.
Nel nulla cosmico dell’Arizona, sia paesaggistico che cestistico, Booker è riuscito a cavar fuori qualche numero interessante:
- – 6° giocatore NBA più giovane a segnare 20 punti in una partita (Bryant, McGrady, LeBron, Dwight Howard, Durant)
- – 3° giocatore NBA più giovane a segnare 30 punti in una partita (Lebron, Durant)
- – 2° giocatore NBA più giovane a segnare 30 punti in due partite di “back-to-back” (Lebron)
- – 4° giocatore NBA più giovane a raggiungere 1000 punti in carriera (Lebron, Durant, Bryant)
- – 6 gare nella stagione da ‘rookie’ con almeno 30 punti segnati
- – Record di triple di franchigia per un ‘rookie’ (6)
- – Più giovane partecipante alla gara del tiro da 3 punti all’All-Star Game (terzo posto, subito dietro a Steph Curry & Klay Thompson)
“If It’s someone who is under the radar right now,
That I believe is gonna be a really, really,
really good All-Star player in the League.
It’s Devin Booker from the Phoenix Suns.
(Lebron James)
Ci vuole sempre un po’ di fortuna, perché se Bledsoe e Warren non avessero dato forfait e i Suns fossero qualcosina in più di una barzelletta, Devin Booker non avrebbe ricevuto tutta quella fiducia che, da neo-ventenne, sta ampiamente dimostrando di poter meritare.
Sta vivendo il suo primo anno da titolare, il che pone alcuni suoi limiti in grande evidenza: la già citata metà campo difensiva è più oscura della selva Dantesca, e Phoenix ne sta prendendo 120 a partita da chiunque, compresi i derelitti Brooklyn Nets (guardare per credere). La carta d’identità è quella: lasciamolo in pace, i margini di miglioramento sono esponenziali e negli ultimi tempi D-Book si sta facendo notare anche come clutch-shooter. Ricordo almeno 3 tiri allo scadere mandati a bersaglio, per consentire ai suoi di vincere e galleggiare oltre il 30%.
Al momento non sarà Klay Thompson, ma neppure uno scagnozzo di “Gus” Fring: da tifoso, però, dopo lunghe annate di magra posso dire di essermi innamorato di nuovo. Ed è meraviglioso, davvero.
La nuova era coincide con il periodo peggiore vissuto dalla Franchigia, in poco meno di 50 anni di storia. Non era mai successo che i Suns non andassero ai play-off per sei anni consecutivi e questo, molto probabilmente, sarà il settimo. Il talento c’è, la gioventù pure, con tutti gli errori e l’inesperienza del caso si è già visto qualcosa di meglio dalla stagione precedente. Se non si faranno errori di mercato in tempi brevi (e con Ryan McDonough come General Manager, non è impossibile), il numero 1 sarà la nuova stella di Phoenix, o il nuovo sole, ora spento come quello dei Timoria, ma in procinto di riscaldare e mettere i tifosi di buon umore. A’ la George Harrison.