“La genialità era inscritta nelle alte fronti da studioso e negli occhi profondi e inquieti, neri come il carbone. Ostinazione e sfida si leggevano sui nasi forti e sproporzionati che spiccavano beffardi e arroganti nei loro volti scarni: poche confidenze!”
Sono le parole con cui lo scrittore Israel Singer delinea i tratti caratteristici della sua Famiglia Karnowski, mattoncino da 500 pagine su tre generazioni di ebrei polacchi. Se non avete letto il romanzo, non preoccupatevi: Przemek, al secolo Przemysław o più in breve Shem, non intrattiene nessun rapporto di parentela con la famiglia in oggetto. Ne condivide il cognome e l’origine, anche fronte alta e naso forte rispondono all’appello; per il resto, però, Shem è un gigante buono. Sembra costruito per sbancare le gare di mangiatori professionisti, o per svuotare i fusti dell’Oktoberfest, invece di mestiere gioca a pallacanestro. Oltre a un corpaccione da 2 metri e 16 per 130 chili abbondanti, la natura lo ha munito di due mani dolcissime e di un cervello che viaggia agli stessi ritmi del gioco. Chi ha seguito la cavalcata dei Gonzaga Bulldogs nell’ultima annata di college basketball, conclusasi solo in finale contro i Tar Heels, si sarà accorto di lui; era sempre il più grosso in campo, e molto spesso anche il passatore più abile.
Se abbiamo aspettato settant’anni per leggere “La famiglia Karnowski” in Italia, forse non dovremo portare altrettanta pazienza per vedere Przemek sui parquet del vecchio continente. Gli scout NBA non hanno evidenziato il suo nome sui taccuini e gli esperti del settore l’hanno cancellato dai mock draft più aggiornati. Karnowski non è il centro che vogliono al piano di sopra. Non tira da tre, non contiene le guardie sui cambi, per stoppare e catturare rimbalzi salta la proverbiale Gazzetta, non è rapido di piedi per attaccare il ferro sui pick and roll. Sa fare tante altre cose, ma sono passate di moda. Devi dargli palla in post e lasciarlo inventare, come si usava un paio di decenni fa. Ah, possiede anche una barba che ha un proprio profilo twitter https://twitter.com/karnowskisbeard
Il matrimonio con Gonzaga s’aveva da fare. Uno dei programmi più hipster della nazione non poteva lasciarsi sfuggire un personaggio del genere, anche perché la tradizione delle acconciature importanti rischiava di languire dopo il passaggio in NBA di Kelly Olynyk, capello fluente + pizzetto come fossimo nel 1995. Dopo la chioma afro di Ronny Turiaf e il baffetto adolescenziale di Adam Morrison, serviva una barba di un certo livello per stare al passo coi tempi. Ma soprattutto, a Spokane risiede un autentico guru dei prospetti internazionali, Tommy Lloyd, che dopo aver visionato Karnowski a un mondiale Udner 17 ha cominciato a tempestarlo di chiamate. Quando si è sentito nominare lo stato di Washington lui pensava alla capitale e osservava la cartina disorientato. Non era propriamente un cultore del basket collegiale né aveva gli occhi puntati sull’America; finite le scuole, coltivava già una carriera da professionista in Polonia. Se infine ha deciso di partire, a convincerlo è stata la tradizione degli Zags nel formare big men stranieri. I già citati Turiaf e Olynyk, Robert Sacre, Sabonis padre e figlio – Domantas ha lasciato Gonzaga la scorsa estate e ora gioca nei Thunder, ma qualche anno addietro Lloyd fece il giro del mondo per reclutarlo
Rintracciata Spokane sulla mappa e raggiunto il campus, senza un pallone da basket in mano Przemek non si trovava a proprio agio. Di sicuro non passava inosservato, e lui per fare bella figura si spruzzava di profumo da capo a piedi. Soltanto che, quando sei così grosso, non è facile calcolare la giusta proporzione tra acqua di colonia e massa corporea, per cui finiva per esagerare. Quando era in zona, sentivi il profumo dalla stanza accanto. Il primo a farglielo notare fu un compagno di squadra, Rem Bakamus, matricola come lui, e Karnowski ricompensò il coraggio eleggendolo a suo tutore, interprete, stilista, compagno di stanza e di burritos al pollo. Ne nacque un’amicizia che è una storia degna di un racconto a parte. Divisi da trentacinque centimetri d’altezza e cinquanta chili di peso, il soprannome cominciò a perseguitarli dal primo giorno in cui si presentarono alla COG (la cafeteria del campus) insieme: Shrek e Donkey.
Anche il carattere calza alla perfezione. Se Karnowski è un gigante gentile, burbero solo all’apparenza, Bakamus è un vulcano di idee, un festaiolo con la battuta sempre pronta. Le condivide quotidianamente coi suoi follower su Twitter, ma Przemek supervisiona e gli impedisce di bruciarsi subito le migliori. Tra l’altro, a proposito di acconciature, Rem sfoggia un man-bun niente male, discreto pendant alla barba dell’amico.
È uno di quelli finiti in squadra per caso, senza il talento né il fisico per sfondare, ma pur di indossare la maglia degli Zags si è trasferito dalla costa orientale. Ora che ha finito gli studi pensa a una carriera lontano dal campo, magari nel settore delle analisi statistiche, ma va fiero di quella novantina di minuti complessivi che coach Mark Few gli ha concesso in cinque anni. Il suo ruolo in squadra era un altro: motivare, coinvolgere, fare gruppo. Lui vi si dedicava con abnegazione: ha perfezionato una stretta di mano diversa per ogni compagno e le sue esultanze a ogni canestro segnato valevano il prezzo del biglietto.
Venne poi il momento in cui Rem dovette improvvisarsi infermiere. Portava da mangiare in stanza all’amico, lo aiutava ad alzarsi da letto e a prendere le medicine, gli legava le scarpe quando non riusciva a piegarsi, gli passava le stampelle. Dopo una brutta caduta nel dicembre 2015 la schiena di Przemek non fu più in grado di reggerne il peso. Disco fuori sede, diceva la diagnosi, ma col riposo la situazione non migliorava, tutt’altro. Finito sotto i ferri, ci si accorse che un’infezione da staffilococco si stava aprendo la strada nella colonna vertebrale, mangiandolo dall’interno. Si temeva che non potesse più camminare normalmente, altro che giocare a basket. I medici covavano legittimi dubbi su come adattare il protocollo post-operazione su un uomo di quelle dimensioni. Ma, per l’appunto, come lo butti giù un Karnowski? Meno di dodici mesi dopo era già in campo, pronto per la stagione da senior. Aveva approfittato del tempo lontano dalla pallacanestro per prendere un corso di dizione e si sentiva finalmente abbastanza sicuro da concedere interviste ai media. Pronti, via e subito stupisce tutti con un “true dat” in ottimo slang.
La sua ultima stagione a Gonzaga è la migliore della carriera. Non solo per le cifre – 12 punti e 5.8 rimbalzi sfiorando il 60% al tiro – ma soprattutto per l’impatto sulla squadra, che cede le armi in due misere occasioni. Contro BYU in stagione regolare e contro North Carolina, nella finale nazionale. Da Rem Bakamus ha imparato che non serve essere protagonisti per fare la differenza. Trascina i suoi nel tabellone nazionale a forza di giocate spalle a canestro, specialmente in semifinale contro South Carolina, ma al cospetto del titanico front court dei Tar Heels capisce che deve indossare il cappello di carta e mettersi al lavoro. Kennedy Meeks e soci sono poco meno grossi di lui, ma lo battono in atletismo e rapidità. La sua finale è una battaglia continua, tanto vana quanto poetica. Sbaglia passaggi, perde le guardie avversarie sui cambi difensivi, si fa trascinare lontano dal pitturato, spende un fallo dietro l’altro. Eppure non demorde, e alla sirena cattura nove rimbalzi. Il suo primo canestro dal campo lo segna nel secondo tempo, si ritrova il pallone in mano nei pressi del ferro dopo un’azione confusa. Lo deposita in fondo alla retina e corre – si fa per dire – dal compagno Tillie. Sembra che voglia fare l’occhio nero a qualcuno, invece lo rialza di peso e lo ringrazia per l’assist. Per un personaggio del genere, la sconfitta è un fatto secondario.
Ora che la carriera collegiale è finita, Przemek sta meditando di tagliare la barba. Ha acquistato un po’ troppa notorietà, gli sottrae la luce dei riflettori. Secondo i compagni è un vero e proprio sesto uomo in campo; ispira rispetto e incute timore agli avversari. A Spokane si tengono concorsi per barbe ben curate intitolati a lui, mentre Jay Bilas, giornalista di ESPN, si sta facendo crescere la peluria facciale per pagare lo scotto della scommessa: era convinto che gli Zags non sarebbero arrivati alle Final Four. Per ora siamo a metà tra la barbetta dei tre giorni e quella da scappato di casa, ma il ragazzo si farà.
Look at that, @JayBilas‘ beard is coming in nicely! pic.twitter.com/1i2jgsHWcu
— Mike & Mike (@MikeAndMike) 4 aprile 2017
Di recente Karnowski è stato insignito del premio intitolato a Kareem Abdul-Jabbar come miglior centro del paese. Lo vince per distacco, lui che è qualche giro di lancette indietro in un ruolo già di per sé anacronistico, nel basket contemporaneo. Tenterà di mettersi in forma per l’estate e strappare un contratto in NBA, ma vengono in mente i dubbi espressi da Marcin Gortat, suo connazionale, che pure l’ha preso sotto la sua ala. “La sua carriera in America arriverà fin dove potrà portarlo il fisico che si ritrova”, ha profetizzato. Quel che è certo è che a Gonzaga sentiranno la mancanza di Shrek e Donkey, e che molti, noi compresi, seguiranno le avventure di Przemek Karnowski in qualsiasi angolo del globo i suoi centotrenta chili – e la sua barba – lo condurranno.