illustrazione grafica di Paolo Mainini
articolo di Marco Munno e Roberto Gennari
Lexington, Kentucky. Campus della University of Kentucky. Autunno 2016.
“Hey Bam, fa un po’ vedere… Che cos’è quella foto che hai come cover del cellulare?”
“Questa? E’ la mia vecchia casa. Quella dove vivevamo con mamma. Porto sempre la foto con me: mi ricorda da dove vengo, e dove non voglio più tornare. Mi aiuta ad essere sempre motivato, a lavorare duro.”
Si trasferirono lì, nella piccola e rurale Pinetown, quando Bam aveva sette anni, ma già prima la vita regalava loro qualcosa da ricordare. Come quella mattina, in cui la sveglia era suonata da poco per la signora Marilyn, che si era subito preoccupata di mettersi a preparare la colazione. Aggiungendo poi i cartoni animati in tv, per tenere a bada il piccolo di casa, Edrice, che con i Flintstones sullo schermo si appassionava. Forse un po’ troppo: d’altronde si sa, i bambini sono spugne, imitano ciò che vedono. E quando il piccolo de “Gli Antenati”, (come li chiamavano in Italia) Bamm-Bamm Rubble, nella solita dimostrazione selvaggia di forza, rovesciò un tavolo da caffè, anche Edrice per emulazione fece lo stesso. Particolare: aveva solo un anno, e già un corpo diverso da quello dei coetanei. Il nickname alla madre venne spontaneo, e da allora iniziò a chiamarlo Bam. Mai avrebbe pensato che, con un nome breve e quasi onomatopeico, la sua sarebbe stata un’ottima trovata per il marketing di una futura stella della NBA, Bam Adebayo.
Non sarebbero rimasti per molto tempo lì nel New Jersey, precisamente a Newark, città natale di altri miti della NBA come Jamal Mashburn, Kenneth “Manimal” Faried e Shaquille O’Neal. Risale al 2004 lo spostamento nel North Carolina del piccolo, insieme a mamma Marilyn Blount che ormai single, si svegliava alle 6 per tornare a casa alle 20, così da mantenere Bam, non potendo contare sul distante (sia fisicamente sia affettivamente) padre del ragazzo. Il quale, quindi, in eredità gli aveva lasciato giusto il cognome; un cognome che, crescendo, misto alle differenze di condizioni economiche e alla velocità delle malelingue nelle piccole cittadine di provincia, mise spesso durante l’adolescenza in difficoltà lo stesso Bam, che tanto avrebbe desiderato essere piuttosto “un Williams o un Bennett, invece di Adebayo”.
Prima che riuscisse ad accettarsi, comunque, cominciò a prendersi qualche piccola rivincita con il basket. Sport a cui si avvicinò in maniera abbastanza casuale, dopo la proposta del cugino più grande di lui di seguirlo nei provini per la squadra del liceo, fatta durante una partita che vedevano assieme, con Kobe Bryant protagonista. Bam non aveva proprio in mente di seguire le orme della madre, giocatrice nelle high school, quanto piuttosto l’idea di tenersi impegnato con qualcosa di diverso dai puzzle o dai rebus sui quali si intratteneva in casa, in mancanza di concrete alternative in un centro abitato così piccolo.
Le cifre dell’anno da junior fatte registrare alla locale Northside High School (roba da 32 punti e 21 rimbalzi di media a gara) fecero da preludio allo spostamento a High Point per l’ultimo anno liceale, alla High Point Christian Academy. Ad High Point, peraltro, fino all’anno precedente c’era uno dei suoi più grandi “rivali” a livello liceale, quell’Harry Giles dato da tutti come il prospetto numero 1 della class of 2016 americana. No, non è un omonimo, parliamo proprio di quel Giles che langue in fondo alla panchina dei Portland Trail Blazers dopo due anni comunque non memorabili ai Sacramento Kings.
Per dirla tutta, in quell’annata, Harry era il numero 1 d’America, seguito da Josh Jackson, Jayson Tatum, Lonzo Ball e Adebayo alla posizione numero 5 – che comunque in soldoni vuol dire che sei già considerato uno parecchio forte. Harry però non restò ad High Point, non certo per paura di Bam, quanto piuttosto per ambizione: decise infatti che la sua ultima stagione da cestista liceale l’avrebbe giocata nella fucina di campioni di Oak Hill Academy, dove però l’appuntamento a cui andò incontro fu quello col destino beffardo e infame. Nel suo primo scrimmage game in Virginia, gli saltò il crociato anteriore, e le conseguenze di questo infortunio sono sotto gli occhi di tutti ancora oggi. Bam si portò a casa il titolo di North Carolina Mr. Basketball succedendo a Brandon Ingram nell’albo d’oro, e entrambi i prospetti passati da High Point si accasarono presso una potenza del basket NCAA, ovviamente con in programma il più classico degli one-and-done: una stagione al college e via, verso il draft NBA. Adebayo venne naturalmente convocato anche per il Mc Donald’s All-American Game, dove chiuse come miglior rimbalzista dell’incontro. Giles, non eleggibile per il Mc Donald’s in quanto ancora convalescente dall’infortunio al ginocchio, andò a Duke (spoiler: non andrà benissimo, ma ve lo sarete immaginato) e Adebayo a Kentucky, dove si mise in mostra come centro dalle grandi doti atletiche e dall’ottimo tempismo in difesa, forse un po’ basso per giocare da 5 in NBA, ma giudicato un “investimento sicuro” come backup di un centro più fisicato.
In ogni caso, il premio di Freshman dell’anno della SEC andò al suo compagno di team a UK, Malik Monk, che insieme a Lonzo Ball fu il freshman che si mise maggiormente in mostra in quella stagione NCAA. Comunque, entrambi i prospetti transitati da High Point, North Carolina, finirono al primo giro del draft NBA: Bam alla 14, Harry alla 20. Certo, entrambi si aspettavano qualcosa di meglio, ma al “povero” Frank Mason III da Kansas University, giocatore collegiale dell’anno all’unanimità, andò alla fine anche peggio: chiamata numero 34, secondo giro, con conseguenti two-way contracts, passaggi in G-League, eccetera. Nel suo anno universitario, Bam dovette concentrarsi soprattutto sul lavoro sotto canestro, in questo coach Calipari fu molto chiaro: “non ti chiederò tiri in sospensione, né di portare palla. Dovrai portare blocchi, essere aggressivo e difendere forte.” Così Bam – che pure aveva dimostrato già ai tempi dell’High School di saper fare altro – si adeguava alle richieste del coach. Ma partecipava comunque alle sessioni di allenamento riservate alle guardie, e chiedeva a Kenny Payne, un assistente allenatore ai Wildcats, di fargli fare delle sessioni serali supplementari. “Non solo voleva dannatamente essere una guardia: andava anche a tutte le lezioni, molto di più di quanto non facessi io!” Parola di De’Aaron Fox, suo compagno di squadra nell’annata trascorsa a Lexington e attuale stellina dei Sacramento Kings.
Dagli addetti ai lavori comunque la scelta degli Heat di prendere lui fu ampiamente criticata; certo, nella medesima posizione di lungo di riserva, Adebayo sarebbe stato un prospetto da coltivare rispetto al veterano Willie Reed, ma tuttavia sembrava non esattamente necessario in roster (e di conseguenza, una pick in lottery sprecata). D’altronde, la squadra era già un bel po’ impantanata da contratti pesanti, galleggiando in un limbo tra il mancare i playoff di un soffio (l’anno prima, chiuso a 41-41 dopo aver perso 30 delle prime 41 partite – coi Chicago Bulls qualificati come ottavi grazie agli scontri diretti a favore) e conquistarli senza comunque avvicinare i fasti delle quattro Finals consecutive negli anni di Sua Maestà LeBron James. In quella stagione, Miami si presentò ai nastri di partenza della NBA con ancora sul groppone il mega contratto di Bosh, già costretto a dover dare l’addio al basket giocato per i suoi noti problemi di salute, i 40 milioni in due tra Dragic e Hassan Whiteside, e i 35 che spettavano in parti quasi uguali a James Johnson, Dion Waiters e Kelly Olynyk. Insomma, una franchigia “bloccata” dal salary cap, dopo che negli anni si era andata affermando sempre più come una potenza emergente della NBA, grazie all’etica del lavoro imposta ai suoi giocatori, alla mentalità vincente portata in dote da Pat Riley, e ai tre titoli già messi in bacheca (più le due finals perse) in neanche trent’anni di storia. In questo contesto, Bam si inseriva quale rincalzo di uno dei punti fermi del team, visto il quadriennale da 98 milioni firmato nella offseason del 2016, ovvero Agent block Hassan Whiteside, reduce da una stagione a 17+14 di media, ricalcandone inoltre le caratteristiche (senza esserne quindi una vera alternativa dal punto di vista tattico, oltre ad essere più basso di Whiteside): atletismo fuori dalla norma, capacità di concludere con potenza al ferro ma non come conseguenza di movimenti individuali, assenti nel proprio arsenale. Per di più, interprete di un ruolo sempre più obsoleto nel gioco.
Anche agli Heat Adebayo affrontò da subito la situazione così come fece nelle annate precedenti, quando iniziò la propria esperienza con la palla a spicchi: lavoro extra sui fondamentali (con esercizi individuali che, dai primi anni nella high school, ripete ancora quotidianamente tutt’oggi) e massima attenzione ai consigli di Juwan Howard, membro dello staff tecnico degli Heat e validissimo mentore per il big man, visto il pedigree. Diventò quindi una situazione ideale per crescere per Bam: non si avevano su di lui aspettative mostruose, ma si potevano attendere progressi in quegli aspetti del gioco che tra High School e College erano rimasti acerbi. La rotazione lunghissima degli Heat (che a fine stagione conteranno 13 giocatori in campo per almeno 15 minuti di media a partita) gli avrebbe comunque concesso occasioni di saggiarsi sul parquet. Conscio che la chance di essere membro della Lega non andava assolutamente buttata, in quanto gli consentiva di sistemare anche le cose al di fuori del campo: d’altronde, coi primi due stipendi riuscì a ripagare i debiti contratti dalla madre.
“So che sarà il miglior giocatore nella nostra squadra. Lo so perché conosco la sua etica del lavoro, e la metto insieme al talento che Dio gli ha donato. Non voglio mettere pressione su di lui, dico semplicemente che porterà la nostra squadra alla terra promessa, e che un giorno la sua maglia sarà lassù, appesa al soffitto e lui sarà uno dei grandi ad aver giocato per Miami”.
Questo giudizio su Bam risale all’ottobre 2018, e ad averlo pronunciato è una persona che di etica del lavoro se ne intende, oltre ad avere un peso notevole negli Heat: Alonzo Mourning. Adebayo si mise quindi a lavorare sodo, e nelle prime due stagioni si guadagnò pian piano minuti e considerazione da parte di coach Spo. Parallelamente, il titolare Whiteside interruppe il suo miglioramento iniziando a palesare i suoi limiti. Ovvero, una difesa sempre di più focalizzata solamente sull’obiettivo di riempire le proprie statistiche, senza badare a collaborazioni diverse dal drop che lo tenesse vicino al canestro per stoppare o raccogliere rimbalzi; una varietà di soluzioni offensive praticamente assente, con la contemporanea richiesta di una mole più grande di palloni da gestire con conseguenti frizioni con lo staff tecnico. Se Hassan diventava sempre più anacronistico rispetto alla direzione del gioco, Bam dal canto suo invece iniziava a mettere la palla a terra e diventare abile nel tenere, difensivamente, non solo i giocatori che stazionavano nei pressi del canestro ma anche i palleggiatori, consentendo cambi sistematici dalla buona resa come alternativa in difesa al coach.
Bam convince così Spoelstra e tutto lo staff tecnico: nella stagione 2019/20, la sua terza nella Lega, sarà lui ad avere il posto da titolare, con Whiteside impacchettato in direzione Blazers così da alleggerire il cap e potersi permettere il go-to-guy perfetto per la franchigia, Jimmy Butler. Che con lui condivide l’etica del lavoro duro in allenamento: se di Jimmy Butler ricordiamo tutti le liti in allenamento a Minnesota – destinatario principe Karl-Anthony Towns, reo di non impegnarsi neanche lontanamente a sufficienza per i suoi standard – di Bam Adebayo c’è una cosa che lo ha portato a stupire lo staff degli Heat. Il suo essere competitivo e desideroso di migliorarsi ogni singolo giorno lo portava sempre molto spesso in sala pesi, per potenziarsi. Sala pesi che a Miami è chiamata “Zo’s Zone” (la zona di ‘Zo, visto il gran numero di record detenuti da Alonzo Mourning in questa parte del centro allenamenti di Miami). Bene, Bam a un certo punto si mise in testa di voler battere quei record, ma i membri dello staff tecnico provarono a fargli capire meglio il concetto: “Sì ok Bam, ne parliamo tra sei o sette anni, va bene?” Bene. Poche settimane dopo, due dei record della sala pesi avevano già il nome di Bam Adebayo accanto alla cifra.
Non aveva invece convinto in quella estate Gregg Popovich: nelle selezioni del Team USA che avrebbe giocato i Mondiali, infatti, venne escluso dopo essere stato convocato per i tryout, vedendosi preferito nel ruolo Myles Turner, Brook Lopez (questi due è il caso di segnarseli) e Mason Plumlee (questo, invece, meglio dimenticarlo). La scelta di lasciare a casa Bam, però, non portò i frutti sperati alla nazionale a stelle e strisce, che nei quarti di finale dei mondiali, forse al primo test probante dopo cinque partite vinte (peraltro non tutte sul velluto, anzi!), non trovò antidoti alla verve di Rudy Gobert, che chiuse l’incontro a quota 21 punti e 16 rimbalzi e lasciò Team USA fuori dalle semifinali mondiali, come era successo solo tre volte prima di allora nella storia della competizione. Pochi mesi dopo il taglio voluto da coach Pop, si fece avanti la Nigeria: papà John, infatti, era nigeriano, e venne a mancare poco prima dell’ingresso di Bam nella bolla di Orlando. La federazione cestistica nigeriana, dunque, decise di proporgli di giocare per loro. E Bam, scottato dal taglio dell’estate precedente e tentato dall’opportunità di rendere comunque un qualche tipo di omaggio ad un uomo che “mi ha messo al mondo, e anche se io ho ricordi di lui abbastanza sbiaditi e risalenti ai miei primi anni di vita, è comunque mio padre”, ci pensò su. Certo, il fatto che nella rosa dei D’Tigers ci fossero già diversi giocatori NBA (ad oggi, tre sono compagni di squadra di Adebayo ai Miami Heat: Okpala, Vincent e Achiuwa) aiutava, perché Bam non ama mai giocare per perdere. Ma alla fine, la scelta è caduta su Team USA – attirandosi ovviamente l’ironia del SMM della nazionale nigeriana in occasione della vittoria in amichevole ottenuta dai biancoverdi contro i più quotati e celebrati avversari.
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— D’Tigers | Nigeria Basketball (@NigeriaBasket) July 11, 2021
In ogni caso, il taglio che venne fatto nell’estate del 2019 da coach Pop e dal suo staff, paradossalmente, rappresentò un’altra spinta motivazionale per Bam. Deciso a fare meglio di quanto visto fino a quel momento, perché “sentivo che avrei dovuto far parte di quella squadra”, Bam continuò a lavorare sul suo skill set, seguito anche da un altro giocatore che per certi versi è stato un suo predecessore, e che negli anni è diventato il suo mentore: Rasheed Wallace. I due si conoscono sin dall’anno di Bam ad High Point, e Adebayo di lui dice “sapere che mi considera come un fratello minore è una cosa che mi rende estremamente orgoglioso: lavoro duro anche per rendere lui orgoglioso del giocatore che sto cercando di diventare”.
Iniziata la nuova stagione, il suo ruolo negli Heat fu adeguato ai precetti seguiti dai numero 5 delle squadre di vertice, da Nikola Jokic a Draymond Green. Sempre più spesso era lui a spingere la palla in transizione e fungere da primo facilitatore della squadra, contornato da tiratori. Con questo assetto le varie bocche da fuoco venivano premiate tanto quando il pallone veniva loro consegnato (con conseguente ostacolo bello grosso, vista l’imponenza di Bam, per i difensori presi in mezzo dalla collaborazione impegnati a evitare il tiro), quanto dopo i tagli a canestro sugli anticipi o in uscita dai blocchi ricevuti (i cosiddetti screen assist). La confidenza di Adebayo cresceva a vista d’occhio, investito di responsabilità via via maggiori: come quando, nel match contro i 76ers di Embiid (il gold standard per i difensori sui lunghi dell’intera Lega), fra una delle potenze conclamate della Eastern Conference e una di quelle emergenti, si prese senza paura la conclusione del vantaggio a quota 116, a 30 secondi dalla fine del supplementare, nell’attacco prima di quello del sorpasso decisivo di Jimmy Butler. Come disse poi coach Spoelstra, quell’episodio rappresentò uno dei punti di svolta della carriera di Bam e una spinta decisiva per la sua convinzione di poter essere incisivo ai massimi livelli della NBA.
La produzione del ragazzo schizzò dagli 8 punti, 6.5 rimbalzi, 1.9 assist, 0.7 stoppate delle prime due stagioni ai 15.9 punti, 10.2 rimbalzi, 5.1 assist e 1.3 stoppate con cui chiuse l’accorciata regular season, durante la quale trovò anche la convocazione al suo primo All-Star Game. Non male, per uno che vide interamente dalla panchina 9 delle sue prime 19 partite in NBA, e che ripensando a quel periodo dice “ero frustrato perché non mi sembrava giusto che coach Spo non riuscisse a trovare neanche 30 secondi per mandarmi in campo. I miei amici mi dicevano che avrei dovuto lamentarmi col coach, ma io rispondevo loro che dovevo solo essere paziente e farmi trovare pronto per quando sarebbe venuto il mio momento”. Che arrivò, per la prima volta nella carriera di Bam, nella partita contro i Cleveland Cavs di LeBron e Wade. Per lui, 18 minuti sul parquet con 7/7 dal campo e 5/5 dalla lunetta per 19 punti totali, a cui aggiunse 6 rimbalzi, 2 assist, una stoppata e zero palle perse. Certo, c’era già stata la doppia doppia (13 punti e 13 rimbalzi in 31 minuti sul parquet) contro Minnesota, ma dopo quella c’erano stati altri 7 DNP nelle 13 gare successive, più tre comparsate da meno di cinque minuti ciascuna. La partita contro Cleveland servì a dimostrare, sia a Bam che agli Heat, che lui a quel livello lì ci poteva stare, a dispetto dell’ancor giovane età; arrivati i playoff nella bolla, alla ripresa della stagione dopo la pandemia, c’era nuovamente bisogno di far vedere come meritasse il palcoscenico sul quale si esibiva, da leader di una Miami, supposta mina vagante ai playoff.
Con la retrocessione nelle gerarchie dei due stretch 5 Meyers Leonard e Kelly Olynyk, per lasciare spazio in quintetto a Jae Crowder, Adebayo si trovò ad essere l’unico lungo titolare: nei primi due turni quindi si trattò di un vero scontro diretto nello scontro, quando si trovò di fronte, come suoi pari ruolo, quel Myles Turner e quel Brook Lopez di cui parlavamo precedentemente. I Pacers di Myles furono spazzati via in 4 partite, e ai Bucks di Brook non andò tanto meglio: entrambi fecero fatica a contenere un Bam che fu decisivo, nel secondo turno, nel limitare l’MVP in carica Giannis Antetokounmpo, che subì l’eliminazione nonostante il primo posto ad Est nella regular season, in sole 5 partite.
Nel primo incontro stagionale fra le due squadre d’altronde il finale parlava chiaro
Più dura fu spuntarla nella serie di finale a Est, con i Celtics come avversari. Bam dal punto di vista realizzativo aumentò ancora il proprio fatturato, così come fatto tra primo turno e semifinali di Conference, raggiungendo i 21.8 punti di media nella serie (con 11 rimbalzi e 5.2 assist a corredo). Aiutato poi dal maggior numero di partite, piazzò contro i Celtics il più alto totale personale in una serie di questa postseason per stoppate: fra queste, una delle migliori della storia dei playoff, quella su Jayson Tatum lanciato a canestro a fine supplementare di gara 1, per negargli il canestro decisivo per il risultato. Semplicemente, una delle giocate più iconiche nella storia dei Miami Heat.
Mancavano solo i Lakers del duo LeBron & Davis per completare l’impresa; i gialloviola, partiti a inizio playoff col favore del pronostico, sulla carta avrebbero avuto tutt’altro che vita facile rispetto ad una squadra in missione come gli Heat. Che però dovettero arrendersi agli infortuni degli uomini migliori: in sequenza, il meraviglioso Goran Dragic della bolla e lo stesso Bam, in gara 1 delle Finals. Il recupero non fu mai completato del tutto, e quindi James e soci la spuntarono non trovando tutta la resistenza che gli uomini di Spoelstra avrebbero saputo offrire.
Non ci dormì sopra per le notti successive Bam, costretto poi nel contesto di Disney World a vedere da vicino i vincitori e i loro festeggiamenti.
Il contratto ricevuto a fine stagione, la meritata estensione di 5 anni a 163 milioni, ha comunque dato la prova tangibile della fiducia di Miami nelle sue qualità, con un messaggio che suona come una sorta di “riproviamoci il prima possibile”. Miami avrebbe potuto aspettare un altro anno per proporgli l’estensione contrattuale (che Bam voleva da subito) ed avere così circa 12-13 milioni di spazio nel salary cap per muoversi nel mercato. Ma su di lui, l’ultima parola è stata ancora una volta quella di Pat Riley, che già in passato lo aveva accostato ad Alonzo Mourning per la sua voglia di lavorare duro, scomodando un altro paragone che a South Beach è anche più ingombrante: “Bam è come Dwyane. Un ragazzo senza fronzoli, un lavoratore duro, una persona seria e rispettosa. Gli daremo l’estensione contrattuale da subito, perché se la merita.”
Non è accaduto quest’anno, dove comunque Adebayo si è confermato su questi livelli; anzi, con una delle sue pecche storiche (l’arresto e tiro), è arrivato anche il canestro della vittoria contro il super team messo insieme dai Nets per dominare a Est, così da ribadire che non sarà facile superarlo nella gerarchia della Conference.
A proposito: il Team USA, nel fare le convocazioni per la squadra olimpica di Tokyo, sul suo conto ci ha ripensato eccome, facendone il lungo titolare e uno dei perni dell’intero gruppo. Chi invece non ha rinnegato il proprio passato è Bam: nel suo 56esimo compleanno, difatti, la signora Marilyn ha ricevuto un regalo dal figlio.
Una casa, tutta per lei, che da anni e anni ormai viveva in una location che non le apparteneva. E riguardo al regalo, acquistato dal ragazzo a dicembre 2020, il particolare: di fronte all’ingresso, una foto della sua vecchia abitazione.
Per ricordarsi, ogni volta che entrerà a casa, da dove è partito per un viaggio di successo nella Lega che, a soli 24 anni, è solamente all’inizio.
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