“Ad entrambi piace solo giocare a pallacanestro; entrambi lo considerano un privilegio. Tim non è mai stato il tipo disposto a mostrare molte emozioni in maniera falsa, ed Anthony è uguale. Entrambi guardano al gioco come ad un santuario. AD è uno di quelli che, molto similmente a Tim, cerca sempre di fare la giocata giusta. […] Sono teammates fantastici, non si pongono mai al di sopra degli altri compagni anche se avrebbero tutti i mezzi e le ragioni per farlo.”
Parole e musica del #3 degli Spurs. No, non di Marco Belinelli, ma di quello di un bel po’ di anni fa (precisamente dell’anno da rookie di The Big Fundamental). Come potete ammirare nella foto qui sotto, si tratta di quello alla sinistra di Timoteo: proprio lui, quel Monty Williams che ha allenato Anthony Davis nelle sue prime stagioni NBA e che proprio di recente si è visto dare il benservito dai Pellicani.
Al di là della testimonianza e delle parole di chi si è eccezionalmente trovato nella posizione di assistere ai primi passi mossi nella lega da entrambi questi straordinari giocatori, il paragone tra AD e TD è qualcosa che “goes way back”.
Sin dalla chiamata al draft, infatti, ancor prima che il monociglio più famoso del panorama cestistico avesse calcato un parquet dei pro per la prima volta, l’accostamento aveva già iniziato a circolare.
Di certo le prestazioni di questo ragazzo evolutosi come vedete sopra e che a Kentucky ha ottenuto la definitiva consacrazione (per sua stessa ammissione, in bianco-blu è stato il primo momento in cui ha maturato totale consapevolezza dell’esser “divenuto famoso”) non hanno di certo fatto nulla per smentire il paragone.
Nel corso di questa stagione, il suo PER ha toccato il valore medio di 31.9 che, qualora si fosse mantenuto a tali vette, sarebbe risultato essere il più alto della storia della NBA.
Tanto per darvi un’idea, la media (30.81) di AD nella stagione 2014-2015 è la undicesima di sempre, e davanti a lui ci sono solo tre giocatori: 3 volte Wilt Chamberlain (primo, secondo e sesto assoluto con rispettivamente 31.82 nel 62-63, 31.74 nel 61-62, 31.63 nel 63-64), 4 volte Michael Jordan (terzo, quinto, ottavo e nono con rispettivamente 31.71 nell’87-88, 31.63 nel 90-91, 31.18 nell’89-90 e 31.14 nell’88-89) e 3 LeBron James (quarto nel 2008-2009 con 31.67, settimo nel 2012-2013 con 31.59 ed infine decimo con 31.11 nel 2009-2010).
Con la sensazione che sia in circolazione già da tempo ed a vederlo posizionato come terzo assoluto nei players rankings di ESPN, c’è il rischio di dimenticarsi che l’alteta in questione è un classe 1993: pur essendo appena un ventiduenne, però, ha già alle spalle due rassegne intercontinentali con la canotta a stelle e strisce indosso nonché due presenze da All Star (la terza volta non ha potuto prendere parte perchè doveva rimpiazzare Lenny Kravitz tra il pubblico a bordocampo).
La scorsa stagione ha portato New Orleans ai playoffs per la prima volta riuscendo a battere la concorrenza, tra gli altri, dei Thunders, che aveva già affossato direttamente con un buzzer beater in faccia a KD dal coefficiente di difficoltà valore “mind-blowing”.
D’altronde, questa estate, oltre a lavorare sulle proprie movenze nel pitturato ed in post basso (come se ce ne fosse bisogno!), si é messo sotto con lunghi workouts sul tiro da 3 per far sì che episodi come quello appena visto diventino sempre più frequenti:
Nella sua prima post-season di sempre, ha dovuto arrendersi al cospetto dell’MVP Steph Curry e dei suoi Warriors. Quando grazie a Twitter ho avuto modo di chiedergli qualcosa a riguardo durante l’#AskAD offerto da BoostMobile (ormai, come avrete capito, mio marchio di fabbrica dopo le interazioni social con Diaw e compagnia), ha risposto così:
Valerio: “I playoffs sono stati come ti saresti aspettato che fossero? Cosa hai imparato questa volta che ti darà maggiori possibilità di avanzare al secondo turno la prossima?”
AD: “Sono stati come me li aspettavo – l’ambiente, l’intensità, la fisicità – Ho imparato molto su come prepararmi”.
Nel giugno del 2012 ha brevettato le espressioni “Raise the brow” e “Fear the brow” (si vocifera che case produttrici di rasoi abbiano sondato il terreno per vedere se ci fosse la possibilità di farlo radere rinunciando al monociglio in cambio di ingenti somme di denaro, ma l’opzione non è stata mai neanche lontanamente presa in considerazione), ed in effetti i tifosi avversari, consapevoli del fatto che il ragazzo diverrà uno dei più grandi, ovviamente lo temono e fanno di tutto per tentare di distrarlo.
Per non farsi mancare niente, proprio la scorsa settimana è stato protagonista di una brillante campagna pubblicitaria firmata da Red Bull dal titolo “Dunk the Sun”
che ci ha regalato una immagine emblematica che resta impressa e che sotto sotto ne ricorda un’altra che ha fatto la storia…
A tal proposito, due sono le cose che in questo momento gli mancano:
1) la prima, più seria, è un anello: se e quando se ne sarà messo uno al dito (e c’è da credere che sia solo una questione di tempo), diverrà il primo giocatore della storia della pallacanestro ad essersi aggiudicato un titolo di campione NCAA, una medaglia d’oro olimpica ed un oro ai Mondiali oltre al titolo di campione NBA
2) la seconda, più faceta, è una signature shoe: un modello di scarpe a lui dedicato. Ha firmato un cospicuo contratto con la Nike, ma “le Davis” non sono ancora state sfornate. Mentre le mettono a punto, io un suggerimento lo avrei: sarebbe possibile farle con un doppio baffo (o “swoosh” in americano) rovesciato in onore dell’unico ed inimitabile monociglio?
F-E-A-R T-H-E B-R-O-W.