Eurobasket 2017: trascinata dalle illuminazioni del Dragone Goran Dragic e dal talento del Wonder Boy Luka Doncic, la Slovenia sale sul trono d’Europa. Lungo il proprio percorso, la partita più bella della manifestazione è stata sicuramente il quarto di finale in cui ha dovuto sudare sette camicie per superare la Lettonia.
Se uscendo da quella manifestazione con una partita manifesto del possibile futuro del basket europeo, gli sloveni hanno scritto a chiare lettere il proprio nome nella mappa della pallacanestro d’élite, lo stesso non è accaduto per i lettoni: che non si sono qualificati al Mondiale del 2019 non riuscendo a ribaltare la differenza canestri nel match cruciale con il Montenegro, nonostante i ritorni per l’occasione di due giocatori importanti come Strēlnieks e Timma.
E ugualmente la Lettonia ha fallito anche la qualificazione agli Europei del 2022, rimanendo fuori per la prima volta negli anni 2000 dopo nove partecipazioni consecutive, con un piccolo dramma sportivo a consumarsi. Infatti, nel decisivo match casalingo contro una Bulgaria non irresistibile è stata sconfitta di 1 punto, con la tripla decisiva di Dee Bost a un minuto e mezzo dalla fine che ha portato alla qualificazione Vezenkov e compagni.
I dirigenti federali, reduci dalla doppia delusione, hanno deciso allora per una decisa sterzata: dopo i locali Vecvagars e Štelmahers è arrivato il momento di affidare la squadra ad un coach straniero, e la scelta è ricaduta su Luca Banchi.
“Ero nella bolla di Orlando, come assistente dei Long Island Nets (la squadra satellite di Brooklyn) di G-League” racconta Luca “quando arriva la chiamata di Kaspars Cipruss, che da giocatore avevo allenato a Trieste ormai 20 anni prima. Non si trattava di una sola chiamata di cortesia, ma di una proposta per prendere in mano il progetto tecnico della nazionale lettone. Fu onesto, spiegandomi che non ero l’unico concorrente. Gli altri profili valutati erano quelli di Žan Tabak, che allo Zielona Góra allenava già due nazionali lettoni, Bērziņš e Freimanis, e Sito Alonso, che come me maggiormente rifletteva l’idea di ricerca dell’entusiasmo da ridare all’ambiente.”
Dopo la trafila di colloqui, il lavoro viene affidato a Banchi che ha deciso di “investire sul ‘potere’ della crisi: ho trovato un ambiente estremamente ricettivo ai cambiamenti, mosso dal desiderio di riscatto.”
Iniziano quindi le prese di contatto con i principali giocatori della nazione, a partire da Kristaps Porziņģis e Dāvis Bertāns, in una serie di viaggi “a cui non ero abituato, ma che mi sono serviti per costruire la rosa dei 50 giocatori papabili per il gruppo, numero successivamente ridotto a 40 profili. In una nazione piccola come quella lettone i migliori giocatori sono tutti impegnati in campionati esteri, e con le sovrapposizioni dei calendari di FIBA e Eurolega (per non parlare di quello NBA) è difficile riuscire ad avere a disposizione i giocatori impegnati nelle coppe europee, non soltanto quando hanno tanto spazio come un Rolands Šmits, ma anche quando sono poco impiegati dai club come un Kurucs. La pressione che può esercitare una piccola federazione sui club non locali, nei confronti di team e organizzazioni ben più blasonate, è minima.”
La missione è stata quella di creare un ambiente che restituisse l’orgoglio di far parte della nazionale ai giocatori e li facesse sentire coinvolti tanto quanto può accadere in un club:
“In questo la tecnologia ci dà una bella mano, ci permette il contatto continuo con i ragazzi e un monitoraggio delle loro prestazioni, che con lo staff viene effettuato con report dalla cadenza settimanale. Così si è pian piano stabilito un clima di appartenenza fra i vari membri, non solo quelli maggiormente utilizzati durante le finestre (che hanno visto 27 giocatori ruotati in tutto), ma anche con chi più lontano è restato comunque legato alla squadra, partendo dalla stella Porziņģis.”
Come spiega Luca:
“La possibilità di fare gruppo e disegnare uno stile tramite la pratica quotidiana è la più grande differenza tra allenare un club e una nazionale (senza contare la differenza fra il gestire un team della propria nazione o estero). Con le selezioni nazionali il tempo in cui si puó costruire stando insieme è davvero esiguo, con il picco raggiunto durante le varie finestre di qualificazione: si possono svolgere due allenamenti, non con i giocatori che si hanno in mente nel proprio roster ideale ma con quelli a disposizione in quel periodo, magari neanche mai allenati prima. Perciò diventa obbligatorio trovare una strada alternativa per poter stringere fra i vari componenti”.
Le buone prestazioni hanno chiaramente contribuito ad alimentare in positivo il circolo virtuoso, con un percorso verso l’obiettivo del Mondiale pieno di ostacoli e bello lungo, iniziato dalle pre qualificazioni (con la Lettonia a risultare l’unica squadra qualificatasi partendo da così lontano).
“Abbiamo superato Romania e Bielorussia nelle pre qualificazioni, per poi trovarci Serbia, Belgio e Slovacchia. Nel girone con queste tre, partivamo dall’impegno più complicato, quello contro i serbi a Belgrado, dove siamo usciti sconfitti in un finale convulso solamente per un punto. Poi, i match con slovacchi e belgi che, con i successi ottenuti, ci hanno permesso di mantenere il vantaggio sulle dirette concorrenti. Con la confidenza nei nostri mezzi in crescita, abbiamo affrontato a Riga una Serbia determinata a tenersi la vetta del girone, carrozzata dalla presenza di Marjanović e Bjelica: quello si è rivelato essere forse il punto più esaltante in campo del nostro tragitto, con un terzo quarto da 21-7 che ha spaccato la partita dopo la prima metà conclusa sotto di 6”.
Arriva quindi la seconda fase di qualificazioni con altre avversarie temibili come Grecia e Turchia, oltre alla Gran Bretagna: ma la Lettonia è in gas, la Turchia viene spazzata via con un netto +26, la Gran Bretagna battuta di 7 e la Grecia sconfitta con un perentorio +20. Quando infine si è aggiunto il +18 casalingo contro la Gran Bretagna, nel secondo match della finestra di novembre che ha significato una striscia di risultati utili consecutivi salita a 8 (dopo la sconfitta per -1…), il sogno è diventato realtà. Mancano ancora due gare per concludere il girone, ma l’obiettivo è stato raggiunto con ampio margine: per la prima volta nella sua storia la Lettonia giocherà in una Coppa del Mondo.
Certo, con l’alto rischio di capitare in un girone complicato, in quanto per il sorteggio conterà il piazzamento nel ranking (abbastanza indietro per i lettoni, visto il pregresso, rispetto al valore della squadra) e non quello in classifica a fine qualificazioni, rendendo così inutile il risultato delle due partite rimanenti. Però, con tanto entusiasmo, misto ad una buona dose di talento.
“Con questa cavalcata trionfale si è risvegliato l’interesse intorno alla pallacanestro, aiutato anche dal calo dell’hockey che in Lettonia è lo sport nazionale; ora come ora, per le partite della nazionale riusciamo a fare sold out dei dodicimila posti dell’Arena Riga in poche ore. E’ un fatto che ci dà molta carica, così come l’essere riusciti a ottenere diverse delle vittorie lungo questo percorso senza le nostre punte di diamante impegnate in Eurolega e NBA (e a volte con l’aggravio degli infortuni, come per Kurucs e Žagars in quest’ultima finestra). Qualche preoccupazione potrebbe arrivare per la situazione di Porziņģis, che nel suo contract year potrebbe saltare il torneo per dedicarsi al prossimo ingaggio da strappare: però proprio Kristaps è sempre stato molto attento alle vicende della Nazionale, in estasi nelle due gare giocate nella finestra di agosto e primo a congratularsi appena è arrivata la qualificazione.”
Resta quindi il gruppo il primo elemento da esaltare:
“Se devo menzionare in particolare qualcuno, sottolineerei il contributo del capitano Dairis Bertāns e di Rihards Lomažs, leader emotivi e a livello di personalità della squadra, presenti in tutte le finestre. Tuttavia vorrei segnalare la gran presenza di tutti, con esempi come quello di Massimo Simonetta: fisioterapista personale di Dāvis Bertāns in NBA, ha deciso di sposare il nostro progetto, appassionandosene così tanto da lasciare, nel corso di ogni finestra, gli Stati Uniti per starci fisicamente al fianco. Il suo caso, come quello di tanti altri, aiuta la percezione della cura che la nazionale dà ai suoi componenti, sia per i membri stessi della squadra, sia all’esterno, dando discrete assicurazioni ai club che, dal loro punto di vista (legato ovviamente all’averli a libro paga), sono meno restii a liberare i ragazzi, sapendo quanto saranno seguiti e ben trattati.”
Quello lettone è un progetto comunque dagli orizzonti più ampi, con vista sull’Europeo del 2025 che si terrà in casa lettone, con la squadra già qualificata e ovviamente circondata dalle attese dei sostenitori:
“Proviamo a farci trainare dai risultati che stiamo raccogliendo ora, sapendo che le basi sono state gettate prima e che nel frattempo non restiamo fermi. Monitoriamo i ragazzi nati dal 2000 in giù, partendo da Žagars, Kurucs, Miška. Inoltre, teniamo in considerazione le risorse locali: sono stati coinvolti giocatori della Lega Estone/Lettone, come Zoriks del VEF Riga, insieme a diversi allenatori, circa 20, che a turno hanno fatto da assistenti per la nazionale, pescati anche dai settori femminili e da quelli giovanili.”
Tema caro a Banchi, quello della crescita degli assistenti allenatori intorno a lui:
“Nel corso della carriera ho avuto come assistenti al fianco sia Paolo Galbiati che Alessandro Magro, due degli allenatori più in voga nella nuova generazione di coach italiani. Sono felice di ciò che stanno ottenendo e di aver eventualmente contribuito a contaminarne il modo di fare nelle esperienze fatte insieme sapendo bene che poi ognuno, prendendo la sua strada, sviluppa le proprie peculiarità. Nel loro caso, non so quanto portino in dote di ciò che abbiamo vissuto insieme ma non ho gelosie, anzi, guardo con ammirazione quanto hanno saputo fare. In generale, mi piace delegare e contornarmi di assistenti talentuosi, giovani e affamati: mi stimolano nel pretendere di più da me stesso.”
Allargandosi a riflessioni di carattere più generale:
“Sono contento del progresso delle nuove leve; mi rendo conto come siano più scaltri rispetto ai riferimenti del passato dal punto di vista comunicativo, in grado di lanciare messaggi brevi ma efficienti (quelli che chiamo “bullets”) incappando meno in situazioni che, con utilizzo dei social maldestro, portino a misunderstanding dipingendo immagini delle persone diverse dalla realtà. Tuttavia, se dovessi consigliare a qualcuno il miglior percorso da seguire per arrivare al vertice, non saprei cosa dire, nel senso che la strada prima era univoca: gente come Messina, Scariolo o Caja ha salito ogni gradino, dal settore giovanile fino ad arrivare alla guida della prima squadra. Ora le modalità possono essere diverse e imprevedibili e credo che il concetto a cui riferirsi sia quello dell’antifragilità: dopo una crisi come quella vissuta non è impossibile rinascere, ma semplicemente lo si fa diventando diversi da prima.”
Così come diverso da prima è il gioco:
“Negli ultimi 15 anni sono cambiate tante cose che hanno chiaramente impatto su ciò che si vede in campo. Basti pensare al calendario, ormai fitto, che costringe ad allungare le rotazioni per dosare le energie e a organizzare il piano di allenamenti in modo diverso: fra i tanti viaggi e regular season di coppe ad incrociarsi con quelle di campionato per una serie estenuante di partite, ad alto livello ormai non si fanno quasi più doppie sedute di allenamento e lo studio dell’avversario, col progresso degli strumenti di scouting sempre più precisi, arriva con supporti telematici. Inoltre, le modifiche regolamentari e lo sviluppo fisico dei giocatori, sempre più atletici, in grado di coprire grandi distanze in breve tempo e di consentire cambi sistematici con successo, ha guidato il gioco verso una direzione diversa. Diventa necessario allargare il campo per sfuggire a difese sempre più organizzate, soprattutto sulle situazioni più consuete nella ricerca del vantaggio, dal pick’n’roll o al pallone in post basso. E il tiro da 3, visto anche il livello di abilità individuale raggiunto a proposito da tanti giocatori (tanto che ormai spesso si vedono attacchi organizzati con “cinque fuori) è ormai diventato, se ben costruito, un ‘high quality shot’, tutt’altro che da demonizzare. È semplicemente conseguenza dell’evoluzione del gioco: offensivo per le capacità individuali degli attaccanti, e difensivo per costrizione degli avversari.”
L’evoluzione non può che riguardare anche il ruolo dell’allenatore:
“Ora deve essere in grado di abbracciare altri ambiti, come coordinatore di diverse risorse umane a lui legate. Risorse che deve essere in grado di valorizzare, dai componenti dello staff medico ai preparatori, ai fisioterapisti, agli assistenti. Non può più pensare che sia sufficiente presentarsi in palestra 10 minuti prima dell’allenamento e andarsene 5 minuti dopo: deve pensare da manager e creare la visione del percorso da seguire, in campo e fuori, creando empatia fra i vari membri, così spinti ad andare oltre per la causa.”
Un tratto, quello dell’empatia, che ritrova anche in un’altra nazionale qualificatasi ai Mondiali nella finestra di qualche giorno fa, quella azzurra:
“L’Italbasket ad oggi rappresenta una buona piattaforma per dare visibilità al movimento. Il prodotto, con determinate figure di giocatori e allenatori riesce a fare maggiormente presa anche da un punto di vista mediatico. Un movimento che per me, almeno visto da fuori, non sta attraversando un bruttissimo momento, anzi: non ha ancora ritrovato i fasti del passato, ma due squadre in Eurolega e determinare realtà ad investire con disponibilità economica e con una buona visione come Tortona e Brescia ne testimoniano la crescita. Senza nominare Venezia o Sassari, che reputo ormai consolidate sotto quel punto di vista e che anzi, così come la Virtus Bologna, possono contare anche su una squadra femminile parimenti nella massima serie. Certo, permangono problemi come la struttura attuale dei diversi campionati, la valorizzazione dei giovani e la creazione di figure di allenatori di settore giovanile, guide dei campioni del futuro, a cui sia data dignità dal punto di vista economico e professionale, invece di costringerli ad un’attività che non può essere che quella di dopolavoristi, col risultato di depauperare il livello dei ragazzi. A proposito qualche piccolo segnale è arrivato (mi viene in mente l’ingaggio di una figura come quella di Michele Catalani come nuovo responsabile del settore giovanile di Milano) e, inoltre, a livello senior possiamo vedere sulle panchine di Serie A due vere e proprie icone fra i capo allenatori del basket attuale come Ettore Messina e Sergio Scariolo. Allargando poi il campo all’Eurolega possiamo vantare tre head coach italiani di alto profilo, aggiungendo Andrea Trinchieri.”
Un Trinchieri con cui concorda sul fatto che la base di praticanti vada allargata, migliorando riguardo alla ricerca e al coinvolgimento dei giocatori del futuro:
“Non mancano i ragazzi alti in Italia, ma é innegabile che ci siano sport come la pallavolo che negli ultimi anni hanno messo in mostra una migliore organizzazione nel reclutamento capillare, sul territorio, creando atleti di vertice in cui spicca non solo il livello tecnico ma anche quello atletico. Giocatori fisicati, quindi, continuano a esserci: la pallacanestro deve tornare ad avvicinarsi al territorio, con grande umiltà e grande impegno, soprattutto nel periodo post-covid. Cercando di dare risalto e dignità a figure che sembrano démodé, come gli allenatori di provincia o i professori di educazione fisica, che invece sono quelli che hanno la possibilità di tastare il polso della situazione e monitorare il territorio grazie al continuo contatto con i ragazzi”.
Ragazzi che, al giorno d’oggi, guardano con più facilità alla pallacanestro oltreoceano che a quella del Vecchio Continente:
“La NBA ha saputo creare attrativa negli anni, superando in un percorso molto lungo la concorrenza degli altri sport importanti negli Stati Uniti come football e baseball: ha saputo valorizzare i giocatori franchigia creandone dei personaggi, spettacolarizzare i suoi principali tratti entrando anche nella cultura popolare, permettendo così espansione e aumento di popolarità per la Lega. Si tratta di un modello difficilmente ripetibile, in Europa non c’è questa cultura, in generale nello sport e in particolare nel basket; credo che l’Eurolega stia tentando di muoversi in tal senso ma le distanze sono ancora ampie, frutto di investimenti diversi che vanno oltre l’area sportiva, toccando quelle di comunicazione e marketing. C’è una continua ricerca di nuovi mercati per poter esportare il proprio marchio in più territori possibili.”
A proposito di tanti territori, da qualche giorno Luca ne ha aggiunto un altro alla collezione di quelli in cui ha allenato: é tornato su una panchina di club, con lo Strasburgo a puntare su di lui dopo l’impresa storica realizzata con la Lettonia.
“Anche qui in Francia trovo una situazione di partenza difficile, con un ambiente in cerca dell’uscita dalla crisi. Punteró ancora su quanto si possa generare nella risposta a un momento negativo, come fatto con la Lettonia, in un campionato in cui arrivo da esordiente a 57 anni. Con la voglia di affrontare una nuova sfida: ed è questo desiderio di mettersi alla prova la chiave per proseguire la mia carriera e non adagiarmi su quanto ottenuto sinora.
Guardando proprio a quanto fatto fino ad oggi…
“So di non aver preso sempre le decisioni giuste e di conseguenza, come tutti, ho dei rimpianti per qualcosa che potevo gestire diversamente. Il segreto è non farsi condizionare da ciò che può esserci di negativo ma focalizzarsi su quanto c’è di positivo. Ho la fortuna di avere una famiglia che mi ha sostenuto accettando i sacrifici che un lavoro come questo ti obbliga a fare, le notti passate senza dormire per le sconfitte così come i momenti di estasi per le vittorie, i viaggi e il tempo dedicato: sono estremamente contento di aver avuto l’opportunità di vivere al massimo la mia passione e considero ogni giorno in cui ancora mi allaccio le scarpe e vado in palestra un autentico dono”.
N.1 per dispersione