articolo di Luca Picco

 

 

Ogni tanto mi sorprendo. Passeggio di sera, vedo la Luna e penso: Io lassù ci sono stato!

Michael Collins

 

21 luglio 1969 ore 02:56 UTC (71 m s.l.m.) Gaia, contea di Los Angeles

Elgin Baylor è sicuramente sveglio in qualche stanza della sua casa, forse sta riposando. Fa caldo e la notte fatica ancora a prendere sonno nonostante siano passati più di due mesi da quell’infausto 5 maggio 1969, giorno in cui i Boston Celtics si sono nuovamente confermati campioni NBA e questa volta nel modo più doloroso.

In gara 7 proprio a Los Angeles, di due punti soltanto.

A nulla vale la parziale soddisfazione di Jerry West nel vedersi nominato MVP delle Finals, nonostante non ne sia uscito vittorioso alla pari dei suoi compagni di squadra.

E con quella sconfitta della stagione 1968-’69 nel frattempo sono arrivate a sette. Sono sette, appunto, le finali che i Lakers di Baylor, da alcuni anni anche trasferiti a Los Angeles, arrivano a giocarsi sempre contro i Boston Celtics e altrettante sono le sconfitte. Ormai non rientra più neanche nella sfera dello sport e del basket giocato ma in quello mistico della maledizione esoterica, come se su di loro, su quella squadra e su quel manipolo di uomini, aleggi una perenne sorta di malocchio e un nero destino di sconfitta.

15  novembre 1960 – Elgin Baylor segna 71 points in una partita contro i New York Knicks.
(Crediti | Getty Images – Bettmann)

A quell’ora via radio e via cavo stanno già trasmettendo la diretta dell’allunaggio. Gli australiani sono i primi a vedere quelle poche immagini sgranate rimaste poi nella storia, seguiti a ruota da tutti gli altri abitanti della terra e quasi ultimi quelli di tutta la costa pacifica Statunitense e Canadese.

In differenti momenti milioni di persone guardano la diretta e il resoconto dei primi esseri umani a camminare sulla Luna ma Baylor forse sta pensando ancora a un piccolo dettaglio rimasto dormiente nella sua coscienza. Bill Russell e Sam Jones, due dei giocatori più rappresentativi dei Celtics, subito dopo l’ultima finale vinta si sono ritirati dal basket giocato.

Forse è la volta buona, pensa.

L’etica dello sportivo fa sempre emergere un sottile e vago senso di colpa quando crede che la vittoria arrivi solo perché gli avversari cominciano piano piano a perdere pezzi per strada, per età o per sfortuna. Ma anche queste due variabili fanno parte del gioco e quindi, se non ci sono alternative, ben venga il fatto che a partire dalla successiva annata sportiva i Celtics non siano più QUEI Celtics, senza i due pilastri difensivi che hanno dato vita alla dinastia degli undici titoli NBA vinti negli ultimi tredici anni.

Finalmente, con molta probabilità si trova a riflettere tra sé e sé Baylor, è dunque arrivato il tempo dei Los Angeles Lakers. Non si può più sbagliare.

Forse.

 

21 luglio 1969 ore 02:56 UTC (ca 384.000 km s.l.m.), Luna

In questo preciso momento l’astronauta statunitense Neil Armstrong è il primo essere umano della storia a mettere piede sul suolo lunare, sei ore dopo l’allunaggio avvenuto con successo e come auspicato dai tecnici della Nasa. L’altro astronauta della missione Apollo 11, Buzz Aldrin, scende dalla scaletta diciannove minuti dopo. I due passeggiano quasi due ore e mezza al di fuori del modulo LM-5 raccogliendo materiale extraterrestre da riportare a Houston per essere studiato.

Il terzo membro, Michael Collins, il pilota del modulo di comando, nel frattempo rimane in orbita attorno alla Luna mentre gli altri due compiono la loro famosissima passeggiata sulla sua superficie, quella stessa che è stata immortalata da più angolazioni, contestata, sognata, negata e ambita.

Gli astronauti della missione Apollo 11. Da sinistra verso destra: Neil Armstrong, Michael Collins e Buzz Aldrin
(Crediti | Getty Images – Time Life Pictures)

Riflettiamoci, quando in una notte limpida si osserva la Luna quante persone al mondo possono ragionevolmente affermare di averci avuto un legame particolare? Oltre ad Astolfo intendo, uno dei personaggi dei poemi cavallereschi dell’Ariosto e del Boiardo che è andato a recuperare il senno smarrito di Orlando a bordo del Carro di Elia sulla splendida Selene, in quanti possono dire di essersi avvicinati abbastanza da sfiorarla o toccarla e coglierla in tutto il suo splendore?

Pochi, pochissimi essere umani hanno fino a ora avuto la fortuna di poter dire di essersi avvicinati e ancor meno sono quelli che sulla Luna ci hanno messo direttamente piede. Michael Collins, tuttavia, si pone in una situazione ancora più liminare. Lui ci è quasi stato, si è avvicinato, è arrivato fino a un manciata di metri ma per cause più grandi non gli è stato permesso di scendere assieme ai suoi due compagni.

Il suo sogno è rimasto a pochissimi centimetri, senza poterlo toccare con mano, consapevole del suo ruolo ben preciso all’interno della missione e a ben vedere del suo destino.

 

Elgin Baylor, outstanding

Ma torniamo al primo protagonista di questa duplice storia.

Baylor nasce a Washingtonil 16 settembre 1934. Povertà e segregazione razziale condizionano la sua infanzia e la sua giovinezza rimandando ai tempi del college gli anni da cui partire per racimolare le prime parziali soddisfazioni. Inizia abbastanza tardi a giocare a pallacanestro complice la mancanza di infrastrutture adeguate. Molto semplicemente, infatti, mancano i campi da basket dato che negli unici accessibili l’accesso alle persone di colore non è permesso. Solo a quattordici anni, dopo un po’ di tempo passato a giocare con una pallina da tennis in mancanza di una palla da basket e di un canestro, finalmente le sue giornate vengono riempite con la nuova passione.

Si scopre essere molto dotato, un po’ a discapito dello studio. Fatto che lo condiziona successivamente in quanto ha non poche difficoltà a trovare un college disposto a dargli una borsa di studio. L’Idaho, dove trascorre un solo anno, è solo una tappa intermedia prima di finire dalla parte opposta degli States. Gli scarsi voti accademici costringono Baylor infatti a trasferirsi alla Seattle University, scelta che rallenta ancora la sua formazione cestistica in quanto è costretto, essendosi trasferito da un college all’altro, di rimanere fermo un intero anno.

Elgin Baylor nel 1957 contro i Pilots.
(Crediti | Getty Images – Bettmann)

Le Finals Four della 20° edizione del NCAA Division I si disputano a Louisville nel marzo del 1958. Il titolo lo vincono i Kentucky Wildcats del mitico Adolph Rupp, giunti già al quarto successo della loro storia. Baylor, arrivato fino alla finale con i Seattle Redhawks, viene eletto Most Outstanding Player.

A parte il riconoscimento individuale, questa è la prima di una lunghissima serie di finali che arriva a disputare senza tuttavia mai raggiungere il successo desiderato. Quasi un primo segnale del destino infausto che lo avrebbe poi accompagnato per tutta la carriera da professionista, nonostante l’imponente dose di talento che si porta appresso.

Entra quindi nel mirino degli scout NBA, più precisamente di quelli che lavorano per le squadre della città di New York e di Minneapolis.

I Lakers, infatti, dopo i fasti degli anni sessanta passati a dominare grazie a George Mikan, sono allo sbando e la squadra del Minnesota ha appena concluso la stagione precedente adagiandosi sul fondo della Western Division con 53 sconfitte. Il proprietario della franchigia, Bob Short, riesce a convincere proprio Baylor a saltare l’ultimo anno di college per approdare direttamente nella NBA, sperando di salvare il latitante pubblico e di conseguenza anche le esigue entrate nelle casse societarie.

Short, quasi con le spalle al muro, accetta la richiesta di Baylor nonostante la cifra risulti essere elevatissima, ma come tutti i buoni uomini d’affari sanno che non c’è ritorno senza rischio né investimento. Il pubblico, come auspicato, incrementa e grazie al rookie iniziano nuovamente a sognare in grande.

Il rischio del fallimento si allontana sempre di più e i Lakers che conosciamo oggi, come la seconda squadra più gloriosa nella storia della NBA e la prima per glamour, devono tutto questo proprio al nativo di Washington D.C.

Nella sua stagione da rookie, l’annata NBA 1958-59, è già una stella della pallacanestro fatta e finita ancora prima della conclusione. Alla fine del suo primo anno sono 25 punti, 15 rimbalzi e 4 assist di media con i Lakers, allora ancora di stanza a Minneapolis dove anche l’appellativo di lacustri ha un senso vero e proprio dati i tredici laghi di almeno due ettari presenti nella città più popolosa del Minnesota. Raggiunge le prime finali della sua carriera professionistica ma viene spazzato via dai Celtics, con un 4-0 senza troppi complimenti. Vince per lo meno il titolo di Rookie of the Year, dopo essere stato scelto come prima scelta assoluta al Draft di 12 mesi prima, e l’MVP dell’All Star Game, ex aequo con Bob Pettit degli Hawks di stanza a St. Louis.

Baylor ci racconta oggi una storia unica nel suo genere: otto volte in finale NBA con i Lakers e sempre, e dico sempre, battuto dagli ormai odiatissimi Celtics (e una volta dai Knicks).

Retrospettivamente lo si può definire un realizzatore seriale, moderno e fenomenale, catapultato nel basket degli anni ’60. Un realizzatore così implacabile e sopraffino da aver tenuto nel corso delle sue quattordici stagioni da professionista nell’NBA una media di 27.4 punti a partita, senza tuttavia aver mai un vinto un titolo di miglior realizzatore della lega.

Un’altra piccola beffa della sua straordinaria carriera.

Per non parlare della sua grande capacità di andare a rimbalzo: 11463 rimbalzi in totale distribuiti in 846 partite fanno 13.5 di media ogni volta che scende in campo. Tantissimi per un giocatore di 196 cm e 102 kg che ha sempre giocato da ala piccola. Ma anche in questo caso a livello statistico di fronte a lui ci sono due dei più grandi rimbalzisti della storia: Wilt Chamberlain e Bill Russell.

1965 – Elgin Baylor contro i Boston Celtics a Inglewood, California.
(Crediti | Getty Images – NBA Photos)

Il 15 novembre del 1960 Baylor valica la simbolica soglia dei 70 punti segnati in una partita. Per la precisione 71 e senza tiro da 3 punti, frutto di ventotto canestri dal campo realizzati. Un nuovo record NBA, che supera i 64 punti messi da lui stesso a segno l’anno prima, ma destinato a non durare molto ed essere superato da lì a pochi mesi dalla storica serata dei 100 punti di Chamberlain, sempre contro i malcapitati New York Knicks. Oltre a quest’ultimo, nettamente fuori concorso là dove si tirano in ballo statistiche individuali, nel corso degli anni solo una manciata di attaccanti sopraffini sono riusciti a eguagliare e superare quella fantomatica cifra: David Thompson, David Robinson, Kobe Bryant e, recentemente, avvicinatosi ma senza superarlo, Devin Booker.

Durante la stagione ‘61-62, alternando le partite al servizio militare nella base dell’esercito di Fort Lewis, nello stato di Washington, raggiunge la stratosferica cifra di 38.3 punti a partita. A ora la quarta media realizzativa più alta in stagione nella storia della Lega.
Quello stesso anno, tuttavia, un certo Chamberlain (sì, ancora lui) decide di prendersi il primo posto per media realizzativa, per distacco il più alto di sempre con i 50.4 a partita.
Nuovamente Baylor si vede sfuggire un riconoscimento individuale che, per quanto poco possa pesare nel considerare il valore della sua carriera, indubbiamente di alto livello, è significativo per come gli è stata appiccicata addosso l’etichetta di eterno secondo. Prima di lui a livello di squadra, i Boston Celtics, prima di lui a livello statistico/individuale Chamberlain (inizialmente da avversario con la maglia Philadelphia 76ers ma anche da compagno di squadra ai Lakers).

 

The end of hang-time

Beffardamente, dopo il ritiro di Russell e Jones le cose non vanno come auspicato. I Celtics, nella lotta al vertice, vengono soppiantati da un’altra squadra allora molto in forma e assemblata a regola d’arte: i New York Knicks di Red Holzman.

Già nella stagione 1969-70 Baylor gioca solo 54 partite di Regular Season, tormentato dagli infortuni. Raggiunge comunque la finale (l’ennesima) risultando fondamentale in gara 4, quando con 30 punti porta i suoi Lakers a pareggiare la serie contro i Knicks sul 2 a 2.
Ma la cocente sconfitta in gara 7, quella passata alla storia per il grande rientro di Willis Reed al Madison Square Garden, che contro ogni sorta di pronostico spinge psicologicamente la squadra di New York verso il titolo, assume contorni ancora più ironici. Quello che Baylor ancora non sa infatti è che quella gara 7 di finale è l’ultima partita di playoffs da lui giocata. Perché il calvario degli infortuni inizia seriamente a non dargli più tregua.

Quando sceglie il ritiro all’inizio della stagione 71-72 dopo undici partite di agonia giocate nelle precedenti due annate, a causa dei guai alle ginocchia ormai inservibili dopo i ripetuti infortuni, ironicamente quello è l’esatto momento in cui i suoi Lakers iniziano la loro cavalcata verso il successo finale con 33 vittorie consecutive in regular season e la conquista del tanto agognato titolo NBA. È il 31 ottobre del 1971 e la sconfitta per 109 a 103 contro i Warriors sancisce l’ultima partita ufficiale giocata da Baylor.

 

Alla fine della trionfale corsa che vede per la prima e unica volta trionfare i Lakers di Wilt Chamberlain, Jerry West e Gail Goodrich, il nome di Baylor c’è e non c’è. Ha iniziato la stagione (e questo indubbio) ma ha optato per il ritiro poco dopo. Troppo il dolore da sopportare a ogni allacciata di scarpe.

La domanda vera e propria, comunque, è se sia o no da considerare un giocatore del roster che ha vinto il titolo NBA. Secondo le regole ufficiali di allora no, ma per riconoscenza i Lakers decidono di preparare un anello celebrativo anche per Baylor, che lo accoglie con grande emozione, ma senza avere l’intenzione di celebrarlo come suo. D’altronde, come avrebbe mai potuto, l’orgoglio è una brutta bestia da buttare giù. Tanto è vero che, successivamente, lo mette addirittura in vendita assieme ad altri cimeli.

6 aprile 2018 – Inaugurazione della statua di bronzo a lui dedicata in Star Plaza, vicino allo Staples Center, Los Angeles.
(Crediti | Getty Images – Jayne Kamin-Oncea)

La carriera di un giocatore NBA, oggi come allora, è un viaggio faticoso, lungo e logorante. Sono molte le variabili mentali e fisiche che possono fare deragliare il percorso in direzioni non desiderate. Ma vedere le Finals da seduto, infortunato o dolorante, con le scarpette appese allo sconsolato chiodo solo alcuni mesi prima, dopo esserne stato se non il protagonista assoluto ma almeno uno delle punte di diamante della squadra per quasi quindici anni, non è affatto uno scherzo.

Ha tutto il sapore della beffa del destino che imprigiona l’ormai ex giocatore in una morsa di cestistica solitudine.

Nonostante lo scherzo del destino legato al finale della sua carriera, dopo essersi ritirato viene introdotto nella Basketball Hall of Fame classe del 1977 e inserito anche nel ranking dei 50 giocatori più forti dell’NBA, a parziale compensazione.

Baylor diviene anche allenatore dei spumeggianti (almeno sulla carta) New Orleans Jazz di Pete Maravich alla fine degli anni settanta e successivamente, nel 1986, il general manager dell’altra squadra di Los Angeles, i Clippers, alla guida della quale vince anche il titolo di NBA Executive of the Year nel 2006, quando raggiungono il punto di alto ai playoff per la prima volta dal 1976 (dopo 30 anni!) guidati da Sam Cassell ed Elton Brand.

Il loro percorso si ferma alle semifinali di conference contro i Phoenix Suns, traguardo appunto mai raggiunto prima di allora, che hanno la meglio alla settima e ultima partita dopo una serie combattutissima.

L’esperienza con i Clippers, tuttavia, non termina nel migliore dei modi. Dimessosi dal suo incarico nell’ottobre del 2008 intenta una causa per licenziamento illecito contro la squadra e contro il proprietario, Donald Sterling, sostenendo di essere stato “discriminato e rilasciato senza cerimonie dalla sua posizione con la squadra a causa della sua età e della sua razza” facendo riemergere strascichi mai sopiti dei tempi bui della sua infanzia, caratterizzata da episodi di aperto o malcelato razzismo e segregazione razziale.

Nel 2011, una giuria respinge la sua richiesta di discriminazione basata sull’età e molestie razziali rifiutandosi di concedergli eventuali danni. Le accuse di razzismo e tutte le accuse contro la Lega furono ritirate dai suoi avvocati prima di quel processo.

Baylor è comunque diventato un appuntamento fisso, subito fuori dallo Staples Center di Los Angeles, per tutti coloro che vanno alle partite da quando nell’aprile del 2018 i Lakers hanno svelato una statua a lui dedicata. Anche questo a parziale ricompensa di un destino che ha visto il suo finale di carriera da giocatore tanto amaro quanto avaro di successi.

Verso Selene

Parliamo quindi di un destino contro certi uomini che sa mettersi di traverso non solo con la sfortuna ma in alcuni casi anche con modalità ben più implacabili.

Michael Collins, per esempio, nonostante l’importanza strategica del suo ruolo a bordo del modulo di comando, viene ricordato come quello che prende parte della spedizione spaziale più famosa di sempre ma senza aver mai lasciato la navicella spaziale. Una sorta di astronauta dimenticato. Se, come si dice, il secondo è il primo dei perdenti, come il colloca a questo punto il terzo (non) arrivato?

La preparazione che Collins, diversa da quella di Armstrong e Aldrin, è per certi versi superiore a quella dei suoi colleghi. Si trova a superare esercizi specifici con tute pressurizzate e centrifughe per simulare l’orbita lunare e, in quanto responsabile delle manovre di ricongiungimento delle due capsule che avrebbero consentito a lui di orbitare e ai suoi due compagni di raggiungere la Luna, Collins scrive un lungo manuale di procedure da imparare a memoria per diciotto possibili scenari, compresi quelli peggiori come un mancato ricongiungimento.

Ma tutto questo non lo rende più celebre degli altri due. Anzi. Se Armstrong è il protagonista dell’allunaggio, e Aldrin ne è il coprotagonista, Collins assomiglia molto all’ombra.

A ben vedere, cosa potrebbe significare per lui far parte della storica missione, forse una delle più importanti dell’umanità, e per motivi tecnici, derivati da quel sottile equilibrio tecnologico ed economico dato dal bilancio di costi/benefici che ogni progetto spaziale porta intrinsecamente con sé, non avere la possibilità di avvicinarsi alla luna più di quanto non sia consentito dalla missione stessa?

In poche parole, essere a qualche metro dal sogno dell’umanità e non poterla toccare, afferrare e calpestare con i propri piedi. Vedere tutto da un modulo lunare in orbita attorno al massimo sogno umano, quella Selene dove sono accumulate fin dai tempi di Ludovico Ariosto tutte le menti dei folli, degli spostati, degli irregolari e doversi mettere da parte guardandola da pochi centimetri senza afferrarla e alla fine della fiera senza comprenderla.

Collins nel frattempo passa quasi un giorno completamente da solo, ruotando in orbita e diventando contemporaneamente anche il primo uomo nella storia ad aver sorvolato il lato nascosto della Luna in assoluta solitudine, prima di poter avviare le manovre per il ricongiungimento dei due moduli.

Durante questo tempo, a Houston, qualcuno arriva addirittura a dire che «È dai tempi di Adamo che un essere umano non prova la sensazione di solitudine che sta provando Collins in questo momento.»

E chissà quali pensieri gli sono passati per la mente in quel lasso di tempo?

 

Umani, troppo umani

Da lassù, da poche centinaia di metri dalla Luna, guardando verso Gaia la prima sensazione può essere di smarrimento perché si inverte immediatamente l’ordine delle grandezze coinvolte e che sono così falsamente familiari. Si vede il mare, gli oceani, l’antica Panthalassa che prende vita e brilla di un colore blu ancora più intenso. Un blu che forse non si può vedere mai più.

Ciò che prima dal punto di vista della terra era piccolo, ora è enorme. E viceversa.

Si percepisce tutto fallibile e come filtrato attraverso un microscopio, tanto che al quadro presente di fronte agli occhi manca un ancora un piccolo dettaglio: l’essere umano. C’è ma non si vede tanto è infinitesimale la sua presenza. Guardando l’insieme delle terre emerse lo si ricolloca tutto in un’altra proporzione.

Allo stesso modo, seduti nei posti riservati alle star nelle prime file del The Forume osservando i compagni di squadra, o meglio gli ormai ex compagni di squadra da solo pochissimi mesi, correre e sudare, correre e trionfare sullo stesso parquet che ti ha visto protagonista indiscusso fino al momento in cui tempo, gravità e cartilagini hanno chiesto il loro impietoso conto, si fa la stessa riflessione.

Anche in questo caso si inverte le proporzioni della propria grandezza. Probabilmente si prova rabbia, rancore e forse si riflette troppo sull’intentato. Su quello che si avrebbe potuto fare e su tutti quei dettagli che hanno fatto la differenza nel corso della carriera sportiva. Forse, si arriva a pensare, non si è stato un così grande giocatore se alla prima occasione la squadra che si ha condotto in tutti questi anni arriva a vincere il sospirato titolo NBA.

Se, se, se.

Di tutto questo il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche sottoscriverebbe nuovamente il suo celebre titolo “umano, troppo umano” e sarebbe ironicamente ben felice di fare due esempi: Michael Collins ed Elgin Baylor, due uomini che hanno sperimentando su loro stessi tutta la propria umana fragilità in cui il destino e la sfortuna non hanno reso possibile il completo coronamento del proprio sogno.

Ma questo non fa di entrambi dei simboli di una sconfitta che sarebbe a ben vedere troppo semplicistica e ridotta a strettissime dicotomie come successo/insuccesso, vittoria/sconfitta, bene/male e primo/ultimo.

La complessità della vita è irriproducibile all’interno di narrazioni così strette e infatti non può essere considerato insuccesso il percorso compiuto da queste due persone. Il primo che co-contribuisce alla missione che ha portato al balzo più famoso della storia dell’umanità. Il secondo che co-contribuisce ad accompagnare la pallacanestro da uno sport prettamente orizzontale a uno verticale. Insomma, sempre di salti e balzi si tratta in fin dei conti.

Salti che hanno portato alla consapevolezza e all’umiltà di avvicinarsi al risultato che ha dato forma al sogno che ha plasmato la propria carriera (sportiva o scientifica che sia) ed esserselo visto scivolare via a un soffio dal traguardo o non colto appieno.

Un sogno tanto vicino quanto inafferrabile. Ma poco male.

A ben vedere ha ragione Emanuele Trevi a dire «Questo arrivare a un passo dalla mèta senza poterla toccare è un simbolo dell’esistenza umana molto più eloquente di ogni impresa gloriosamente compiuta».

Esiste qualcosa di più dannatamente Umano di questa situazione?

“Us and Them

And after all we’re only ordinary men

Me, and you

God only knows it’s not what we would choose to do”

 

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