di Lorenzo Iervolino
da un estratto del suo libro “Dražen Petrović. Il primo uomo sulla Luna

 

 

 

Intro

Ho iniziato a viaggiare nella vita di Dražen Petrović nella primavera del 2018. Ero al lavoro su una trilogia di libri biografici dedicati a protagonisti dello sport, un progetto che mi permettesse di raccontare anche il contesto in cui quei campioni avevano vissuto, le loro scelte di vita, politiche e non solo sportive, che avevano preso o erano stati costretti a prendere. Nel 2018 due dei tre volumi erano già stati pubblicati da 66thand2nd, e aspettavo la storia giusta per completare il trittico (aspettavo, in realtà, di trovarla prima emotivamente, e poi razionalmente). Ma nei miei primi viaggi a Šibenik e Zagabria, due delle città fondamentali della vita di Dražen, avevo solo la scusa di un reportage sull’anniversario dei 25 anni dalla sua tragica scomparsa. Non avevo infatti un approccio particolarmente progettuale, ma la mia presenza nei suoi luoghi era più che altro quella di un semplice appassionato, un innamorato alla ricerca di un ricordo perduto, o alla scoperta di una meraviglia inarrivabile. 

Del resto Dražen era stato parte di una memoria condivisa da tanti e tante di noi amanti del basket, pur non avendo mai giocato per un club italiano. Ricordo miei compagni di squadra più grandi, nati negli anni Sessanta o Settanta (chi proprio nel 1964, come Petrović) che avevano scelto la maglia numero 4 in onore di Dražen. Ricordo lo stupore mio e di mio fratello adolescenti, nel non vederlo sul campo del Palaeur di Roma agli Europei di basket del 1991, e scoprire il vero motivo dell’assenza, solo molti anni dopo. Ricordo la curiosità e il sostegno di tutti per la sua avventura Nba, che all’inizio degli anni Novanta si poteva seguire grazie a nuovi canali e programmi Tv, a riviste, a speciali come Nba Action che arrivavano ormai anche da noi in Italia. Ma gli elementi – di sicuro irrazionali, se non addirittura emotivi – che mi hanno fatto capire che questa storia mi avrebbe nuovamente portato a fondo dentro una vita che non era la mia, sono stati due segnali ben precisi: la prima volta che ho parlato con Biserka Mikulandra Petrović, mamma di Dražen, al Museo memoriale di Zagabria, mi sono accorto (in modo quasi sbadato, improvviso) di essere diventato più grande di Dražen. Una cosa che ritenevo impossibile. Mi ritrovavo a 37 anni, mentre lui era rimasto inevitabilmente a 28. Ciò nonostante, il mio stato d’animo nei suoi confronti non era mutato di una virgola: per me sarebbe sempre stato il punto di riferimento, il giocatore a cui in campo ti affidi, la guida tecnica, quella spirituale. Un tipo di sentimento che chi ha giocato a basket può capire: una fede totale verso chi saprà illuminare la scena, fare la giocata giusta al momento giusto. L’assist che serviva. Il canestro della vittoria.

Poi, come secondo elemento, la rimozione pressoché totale dall’immaginario collettivo delle guerre jugoslave, delle tante responsabilità interne ed esterne al paese che avevano portato alla morte di centinaia di migliaia di persone, alla dissoluzione di un progetto politico, di un ideale e (chiaramente in modo del tutto meno rilevante) anche alla fine della più forte squadra nazionale europea di basket di sempre: la Jugoslavia della fine degli anni Ottanta, quella di Divac, Kukoč, Radja, Vranković, Paspalj, Danilović, di Jure Zdovc. Quella per cui a causa di un profondo dissidio con Petrović, non giocava Sasha Djordjević. Ecco, la rimozione dei conflitti jugoslavi è stata l’altra motivazione che mi ha spinto ad andare oltre. Ad accettare che ci sarebbero voluti anni, ma che questa storia non l’avrei abbandonata tanto presto. Avrei dovuto ritrovare lo splendore in campo, quello che sbocciava dalle visioni e dalle mani di Dražen, e provare a ricostruire quel sottile filo di dolore che era stato spezzato, fuori dal campo.

E così tutto è iniziato.

Ho interrogato per prima l’infanzia di Dražen, i suoi anni giovanili, gli inizi nel basket a dieci anni, grazie al primo pallone che aveva ricevuto in regalo, pesante, di cuoio marrone, da cui non si separava mai. Entrando poi nei meandri anche psicologici della sua rincorsa continua nei confronti del fratello maggiore Aleksandar (Aco o Aza, a seconda dei contesti), talento precoce anche lui, poi giocatore e allenatore di successo. Una rincorsa finalizzata a dimostrarsi più forte, fatta di allenamenti senza sosta attraverso cui la distanza tra i due si riduceva sempre di più, fino a quando Dražen non lo ha prima raggiunto, poi superato. Di sicuro il suo primo modello di giocatore (quello da imitare, da studiare) è stato proprio Aco, in anni in cui il desiderio del piccolo Petrović si misurava soprattutto con i ragazzi più grandi del suo quartiere, nel playground improvvisato davanti casa, in Ulica Petra Preradovića, nel cuore della città dalmata (all’epoca jugoslava) di Šibenik, Sebenico.


Dražen dodicenne, in camicia scura e scarpe da basket Converse, attende tra i ragazzi grandi il momento di entrare nel campetto di Ulica Petra Preradovića, a pochi passi da casa sua. (Source: Šibenik News)

Raccogliendo testimonianze, voci, sguardi appassionati sulle sue prime apparizioni in campo, su quei quattro anni nel piccolo Šibenka, club in cui Dražen ha debuttato a soli quindici anni nella serie A jugoslava, ho capito che ero già dentro il terzo volume della trilogia immaginata anni prima. Che il reportage iniziale, senza secondi fini, che stavo scrivendo in terra croata, stava già oltrepassando i suoi confini formali, eccedendo il numero di interviste che mi ero prefissato, dilagando in termini di catalogazione documenti, ritagli di riviste, sopralluoghi, viaggi. La chiave di questo allargamento di prospettiva l’ho trovata capendo la vera natura del giovane Petrović, negli anni in cui si sottoponeva a 5 ore di basket al giorno (dai dieci ai tredici anni), poi a sette (dai tredici anni in poi). Anche d’estate, o nel fine settimana, quando terminati i tornei gli altri ragazzi si riposavano, uscivano con gli amici. Lui invece studiava le tecniche e le tattiche contenute in un piccolo libro di 47 pagine scritto dal guru Mirko Novosel, Kako da postanem košarkaš (letteralmente “Come diventare un giocatore di basket”, tradotto in Italia, con la prefazione di Aldo Giordani, in “Come imparare a giocare il basket”), in cui i segreti offensivi e difensivi della pallacanestro erano spiegati nel dettaglio, grazie anche ai grandi talenti della prima generazione del basket jugoslavo; quei Krešimir Ćosić, Mirza Delibašić, Moka Slavnić, Dalipagić, Šolman e tanti altri, che comparivano, regali e inarrivabili, nelle immagini del libro. Da tredicenne sognatore, Dražen studiava e riproduceva in campo quei movimenti. Usava sedie come finti avversari, contava i suoi canestri, mai i tiri. Non immaginava che solo pochi anni dopo avrebbe sfidato quegli stessi campioni, che ci avrebbe giocato contro, insieme. Che sarebbe diventato più forte di loro. O forse, chissà, lo immaginava già. 

Da questa sua totale dedizione all’apprendistato del mestiere del basket, in tutti i suoi dettagli, in questa irrazionale ma devota pratica quotidiana, ho infatti capito che Dražen, più che a un giocatore di basket dovesse essere paragonato a un kosmonaut, colui che si prepara a imprese impossibili, sottoponendosi a un addestramento fuori dal comune, ma ispirato da un sogno grandissimo: quello di arrivare in alto, di raggiungere luoghi inesplorati per noi mortali. Nel caso di Dražen: essere il primo giocatore europeo a farcela per davvero tra gli alieni della Nba. 

Šibenik list “Dražen je bio prvi čovjek na mjesecu”. Il titolo significa Dražen è stato il primo uomo sulla luna.

Da questo punto in poi, mi sono ritrovato immerso nella visione di centinaia di partite del basket jugoslavo della fine degli anni Settanta, dei primi Ottanta. Poi, seguendo la sua parabola interstellare, ho visto comparire le finali europee (perse, le prime due, di Coppa Korać in maglia Šibenka, vinte, le successive due, di Coppa Campioni con il Cibona), gli attraversamenti dei luoghi più significativi della vita di Petro, compresa la città di Pola, troppo spesso dimenticata nella narrazione di Dražen, bollata come città in cui fu obbligato a espletare l’anno da militare nel 1983/84; mentre invece è la tappa in cui ha completato la sua prima trasformazione fisica, e in cui ha costruito alla perfezione il suo movimento di tiro, fino a quel momento ben lontano dall’essere la sua miglior caratteristica offensiva. Ci sono dunque voluti cinque anni, 240 pagine finali, per decidere cosa mettere insieme, aggiungendo il mio sguardo personale (assieme a quello di tante altre presenze che compaiono nel libro), a una storia che appartiene a chiunque ami il basket.

Ci sono ovviamente i successi personali, alcune cadute, la sua duplice natura (mite e dolce fuori dal campo, duro e spietato dentro), le vittorie della Jugoslavia unita, le tante polemiche e le inevitabili divisioni. Tutte cose contenute nel libro “Dražen  Petrović. Il primo uomo sulla Luna” (66thand2nd, 2023), che però, per La Giornata Tipo, abbiamo deciso di lasciar riposare. Almeno per una volta. Oggi vogliamo infatti ricordare Petrović con un passaggio felice della sua vita, un momento fondamentale della salita verso il cielo stellato della Nba. Più precisamente quando per Dražen, nell’estate del 1991, pochi mesi dopo essersi trasferito dai Portland Trail Blazers ai New Jersey Nets, tutto, (davvero tutto), è cambiato. Grazie a quella sua inarrestabile attitudine cosmonautica a lavorare (di nuovo) follemente, su sé stesso. E diventare la migliore versione possibile del campione che già era.

 

 

Estratto da Dražen Petrović. Il primo uomo sulla Luna (2023, 66thand2nd) – ordinalo qui

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Nella squadra di East Rutherford, Dražen  è felice. Ha preso casa a Hackensack, una cittadina del New Jersey di trentasettemila abitanti, in un complesso di appartamenti chiamato Excelsior Condo, un grande residence di mattoncini marroni affacciato su un parco con il prato ben rasato. I genitori e il fratello sono spesso lì con lui (la madre molto presente), ha legato in maniera particolare con il coach Bill Fitch (campione Nba con i Celtics nel 1981), da cui si è sentito da subito voluto e accolto, e ha fatto diverse conoscenze, soprattutto a New York, dove c’è un’ampia comunità croata. Uno dei suoi migliori amici di questo periodo, Mario Miocic, ha un ristorante in città e lo inserisce nel giro dei connazionali della Big Apple. Nel mese di agosto del 1991, in segno di protesta per l’inizio della terribile aggressione di Vukovar (tre mesi di assedio, la distruzione totale della città per un conto complessivo di seimilacinquecento morti, la maggior parte croati), Dražen  e Stojko Vranković (il suo migliore amico di sempre), che nel frattempo ha firmato proprio con i Boston Celtics, hanno partecipato a una manifestazione davanti al palazzo delle Nazioni Unite, assieme ad altre cinquemila persone (croati e non solo), per sensibilizzare l’opinione pubblica americana sul dramma dell’ex Jugoslavia.

Con l’escalation della guerra tra Serbia e Croazia, Dražen  cerca di rappresentare al meglio il ruolo di ambasciatore all’estero. Quando nel mese di gennaio del 1992 la Croazia inizia a essere ufficialmente riconosciuta a livello internazionale, improvvisa una piccola festa sul tetto di casa di coach Fitch. Non trova una bandiera del suo paese, solo una italiana, che gira orizzontalmente e, con un po’ di fantasia, la immagina essere dei colori giusti per questa occasione. In campo con i Nets Dražen  gioca a fianco di un play molto rapido, Mookie Blaylock, che ha tempi di passaggio perfetti e con cui crea una grande intesa. Il primo terminale offensivo del quintetto è Derrick Coleman, potente ala mancina. Nell’altro spot di ala gioca Chris Morris, mentre il centro è Sam Bowie, arrivato da Portland l’anno prima di Dražen  e, come Dražen , particolarmente felice quando, nel febbraio del ’92, i Nets – totalmente sfavoriti – battono i Blazers 98-96. Tutti i giocatori del quintetto (non c’è Blaylock per la verità nello starting five, ma il rookie Kenny Anderson) vanno in doppia cifra, per una prova corale molto convincente. La squadra corre, gioca insieme, accetta di essere sempre l’underdog. Una squadra che però inizia a puntare decisamente ai playoff.

Dražen  cercava un suo posto nell’Nba, e ai Nets sembra averlo finalmente trovato. Il pubblico di Meadowlands lo ama da subito (anche a Portland era un fan favourite), e il «Petro… from 3… got it!» scandito dal telecronista di Sports Channel Spencer Ross, diventa un must tra i tifosi. Anche perché la palla che lancia da dietro la linea dei tre punti va molto spesso nel canestro (come in una folle gara interna contro gli Spurs, quando New Jersey è sotto in maniera pesante, Petro la recupera da solo con cinque triple, e il canestro che manda la partita all’overtime, poi vinta).

Ma non è stato facile arrivare fin qui, pur partendo dalla vetta dell’Europa, dove resta indiscutibilmente il numero uno. Per Dražen  c’è un momento preciso in cui tutto è cambiato, successivo allo scambio che da Portland lo ha portato ai Nets. Un momento fuori dal campo, in cui ancora una volta ha dovuto lavorare su sé stesso per continuare a inseguire il suo sogno. Il momento in cui, nell’estate del 1991, i Nets gli fanno quella promessa: se migliori in difesa il prossimo anno sarai titolare. Lui non se lo fa ripetere due volte. Rinuncia all’Eurobasket di Roma, e accetta di ricominciare tutto da zero.

 

«Quando è arrivato da Portland, Dražen  aveva un’ottima forma fisica. Il problema era che, per come aveva lavorato fino a quel momento sul suo corpo, era preparato come fosse un atleta di triathlon, o un fondista. Ad esempio era sempre su una cyclette, per ore, pensando che questo lo avrebbe aiutato a trovare un miglior stato di forma, e in parte era vero in via generale, ma non per il basket. Non aveva un fisico adatto alla pallacanestro Nba».

 

Rich Dalatri è un athletic development coach che ha lavorato per anni nelle leghe professionistiche e universitarie americane, ed è stato il preparatore atletico della nazionale italiana di basket, come di diversi club del nostro campionato. Quando riesco a contattarlo, si trova negli Stati Uniti, dopo un complicato rientro in patria, visto che il suo ultimo incarico è stato con la nazionale di basket dell’Ucraina. Nella stagione 1991/92 è lo strength and conditioning coach dei New Jersey Nets, il professionista a cui nell’estate del ’91 viene affidata la missione di trasformare Petrović in un difensore migliore. Quel che ne esce è però ben altro: una completa ricostruzione fisica e atletica di Dražen .

«Appena arrivò in New Jersey, al nostro primo incontro era elettrizzato dalla nuova opportunità che aveva ricevuto ai Nets. Parlammo per tre ore e lui volle iniziare ad allenarsi il minuto dopo che avevamo finito di stabilire il suo programma.

«Coach Fitch mi aveva lasciato molto spazio per lavorare con i giocatori e mi aveva dato fiducia, così io e Dražen  ci mettemmo all’opera in assoluta autonomia. Era talmente impaziente di migliorare, di allenarsi duramente, che dovevo solo mostrargli cosa fare. Non dovevo badare alla parte di lavoro motivazionale, non ce n’era minimamente bisogno. Anzi, non potevamo saltare un giorno, una seduta, che lui diventava matto».

Riesco a scorgere l’ansia di Dražen, la voglia di crescere ancora, dai segni a matita che vedo a margine della sua scheda di allenamento, un foglio un po’ ingiallito, con il programma settimanale della Week. Ci sono tutti gli esercizi per migliorare la forza fisica, parte alta del corpo, gambe, braccia, distribuiti su quattro giorni della settimana (Monday, Tuesday, Thursday, Friday). Accanto alle ripetute e a vari altri riferimenti, si intravedono le sue scritte a mano, a matita, con le aggiunte di sedute di bicikla, sessioni di corsa, o le cifre delle ripetute modificate in eccesso.

 

«Ci allenavamo insieme, dalla mattina presto, a volte fino allo sfinimento. Andavamo a pranzo da qualche parte, poi nel pomeriggio il lavoro si spostava sul campo da basket, dove c’erano anche altri giocatori. In quelle sessioni si allenava molto bene con Bernard King, una leggenda a fine carriera, ma ancora con grandissima mentalità e bravura. Con Dražen  lavorammo su alcuni aspetti molto precisi.

Prima di tutto la velocità dei piedi e i movimenti laterali, che sono le basi della difesa, un aspetto del suo gioco che dovevamo far crescere tantissimo se voleva guadagnare minuti in campo. Era molto indietro, ma per un motivo davvero semplice: non ci aveva mai lavorato. La sua accuratezza e la sua dedizione furono magnifici.

«Poi, sempre in ottica difensiva, doveva migliorare la reattività. La fase difensiva ti obbliga a reagire in pochissimo tempo a stimoli improvvisi, in cui non sei tu a guidare l’azione come in attacco, ma in un certo senso la subisci. Invece, come crescita generale, doveva diventare più forte, più resistente, sia per i contatti di gioco con gli avversari, che in Nba erano decisamente più duri, sia per la fatica della stagione.

In Nba si giocano ottanta e passa partite più eventualmente i playoff, e le gare durano 48 minuti, non 40 come in Europa. Insomma, lui si allenò durissimo e i risultati si videro eccome».

 

Un altro dettaglio che emerge è il lavoro sulla mano sinistra, nel tentativo di ampliare il gioco di Petro, che rischiava di essere limitato visto che difficilmente concludeva a canestro con la mano debole.

Dalatri, tuttavia, non è l’unico protagonista della trasformazione di Dražen . In questa fase della sua carriera un’altra figura chiave contribuisce a questo cambiamento decisivo. Trasferendosi ai Nets Petrović ritrova Anton Turković, un campione di arti marziali croato che vive nel Queens, a New York, e con il quale ha stretto amicizia a metà degli anni Ottanta, ai tempi del Cibona. Turković (purtroppo recentemente deceduto) ha raccontato quali fossero i contenuti e gli obiettivi specifici del loro allenamento, da sommare al lavoro che Dražen  faceva con Dalatri: equilibrio, riflessi, elevazione.

Soprattutto sulla stabilità e sull’equilibrio, Turković riesce a dare a Dražen  una nuova qualità: colpire, nel suo caso tirare a canestro, quando l’avversario è fuori equilibrio. Una dinamica tipica delle discipline di combattimento. Sul tiro i due lavorano con un obiettivo molto preciso, acquisire quella che negli Usa chiamano accurancy, e che perdendo qualcosa in traduzione, possiamo definire un misto di «accuratezza e controllo». Per le sessioni di tiro utilizzano una palla da tre chili, delle stesse dimensioni di quella da basket; il segreto, secondo Turković, era quello di potenziare i tendini e le articolazioni delle dita, in modo da rendere Dražen  ancora più preciso.

Il lavoro con Dalatri e Turković paga. Subito prima di battere Larry Bird sul campo di Hartford, e realizzare il career high di 39 punti, Dražen  aveva avuto l’occasione di misurarsi con il suo idolo giovanile anche durante il Three Points Contest, l’evento organizzato nel corso dell’All Star Game, il weekend delle stelle, che nel 1992 si tiene a Orlando (è l’Asg del ritorno di Magic, del tiro allo scadere di Magic, del sorriso di Magic, dell’Mvp di Magic), nel corso della solita pausa di inizio febbraio.

Tra i due roster di stelle della Eastern e Western Conference sono presenti tutti i giocatori (con l’aggiunta di Christian Laettner, in rappresentanza degli universitari) che l’estate successiva parteciperanno ai Giochi Olimpici di Barcellona, formando il celebre Dream Team Usa. Dražen  è stato chiamato a Orlando tra gli otto partecipanti dello shootout, grazie alla sua media realizzativa dietro l’arco, tra le migliori della Lega. Larry Bird, che ha vinto la gara del tiro da tre punti nelle prime tre edizioni consecutive, dà però forfait per motivi di salute, e quindi Petrović non potrà misurarsi con lui. Sono presenti invece il due volte campione del contest Craig Hodges dei Chicago Bulls, l’All Star John Stockton, e anche un certo Dell Curry, padre, tra gli altri, di Steph Curry, anche lui a Orlando. Il futuro miglior tiratore della storia Nba sta per compiere quattro anni, e partecipa come spettatore della gara dei tre punti zompettando a bordo campo. Nelle pause va in braccio al papà e gioca con gli altri sfidanti. C’è un set di fotografie che ritraggono Mitch Richmond, Curry padre e figlio accanto a Dražen , in attesa dell’inizio del contest. Steph e Dražen  scherzano tra loro. 

foto Usa Today

Quando si inizia a fare sul serio, ad avanzare in semifinale sono Hodges (16 punti, tra canestri da uno e palle colorate che ne valgono due), Jim Les (15), Mitch Richmond (12) e Petrović (13). Nel secondo giro però nessuno fa meglio del tiratore dei Kings, Jim Les, nemmeno il suo più celebre compagno di squadra Richmond. Dražen  chiude quarto con 8 punti e in finale ci va il solito Craig Hodges, che supera poi Les 16-15 per il suo terzo titolo come miglior tiratore da tre della Lega.

L’esperienza dell’All Star Game, anche se solo marginale, è per Dražen  molto importante, perché gli dà modo di iniziare ad assaggiare l’élite del basket pro. Quella che vuole assolutamente conquistare.

Intanto, alla ripresa della stagione, i Nets sono lanciatissimi e chiudono la regular season con 9 vittorie in 12 gare, per un record finale di 40W e 42L che vale il ritorno ai playoff dopo sei anni di assenza. Ad aspettarli nella postseason c’è una squadra molto più esperta, i Cleveland Cavaliers di Mark Price e Brad Daugherty. I Nets, tuttavia, hanno dimostrato di saper partire da sfavoriti e giocarsela fino in fondo.

23 aprile 1992, Richfield Coliseum di Cleveland, gara 1 del primo turno di playoff tra Cavaliers e Nets. In sede di presentazione della gara, i due bordocampisti parlano del grande finale di stagione di New Jersey, di come quest’anno siano completamente cambiati l’atteggiamento e l’intensità della squadra. Una crescita così evidente che i due cronisti arrivano addirittura a domandarsi se a questo punto, i Nets non possano anche passare il turno, ribaltando il pronostico.

 

«Beh, un’arma in più ce l’hanno. Il tiro da tre».

«E se si parla di segnare da tre punti, non c’è nessuno che lo fa meglio del numero 3 dei Nets. Interessante il fatto che vesta proprio il numero 3, dato che lui è The 3 Points King. Dražen  Petrović».

 

In video, la presentazione della sfida sta mostrando highlights di Petro, che tira da tre ed esulta, infiamma il pubblico, gioisce, in pratica, per essere arrivato esattamente dove voleva: nel palcoscenico che conta. La grafica che compare sulle immagini (Dražen  che ubriaca in palleggio tutta la difesa dei Rockets e va a segnare sopra le lunghissime braccia di Olajuwon) mostra le statistiche della regular season del numero 3:

2nd in Nba in 3-point Field Goals %

44% (123-277)

 

«I Nets sono migliorati in tanti aspetti, ma il tiro da tre è sicuramente l’area in cui sono cresciuti di più e questo grazie a Dražen  Petrović». 

 

Quando si inizia a giocare è partita vera, e Dražen  è immenso. I Cavs non hanno più a roster uno dei migliori difensori della Lega, Ron Harper, passato ai Clippers. Su Petro allora mettono il tiratore e specialista difensivo Steve Kerr, futuro campione Nba a Chicago e San Antonio, e molto tempo dopo, allenatore degli stellari Golden State Warriors. Ma Kerr è più basso e più leggero di Dražen , che infatti gli mette il corpo addosso e lo porta continuamente a centro area per segnare con facilità. Quando Kerr gli si incolla in marcatura, va a giocare sul doppio blocco disegnato da Fitch per lasciargli le due uscite in angolo, da dove è mortifero. Kerr si carica di falli e allora la marcatura passa a Craig Ehlo, molto più alto, ma anche decisamente più lento. 

La musica del Mozart croato non cambia. Draž si mette a martellare dal mid range e arriva a quota 22 punti, nel solo primo tempo. I Nets sono agganciati alla partita, rincorrendo di una manciata di lunghezze. Nel terzo quarto riprende da dove aveva lasciato. Uscite dai blocchi, giocate in corsa. I Nets sono divertenti e si divertono. In contropiede, per i punti 25 e 26 di Petro, Dražen , Coleman e Mills vanno in tre contro uno dopo un recupero, e prima di arrivare alla conclusione si passano la palla cinque volte, di tocco, mangiandosi il campo. Neanche Craig Ehlo riesce a stare dietro a Petrović, perciò tocca al muscolare John Battle, che ha un atletismo impressionante, ma con Dražen  non basta. Le finte, la rapidità, la sicurezza di sé. Sembra che, in questo momento, possa incidere una tacca profonda sulla linea della sua crescita. 

Com’era successo nel 1982 al Šibenka, quando da diciassettenne si prendeva tutte le maggiori responsabilità nelle partite importanti. O nella stagione 1985/86 al Cibona, quando semplicemente non c’era in Europa più nessuno in grado di marcarlo, nonostante le staffette difensive e le zone box and one. All’Eurobasket di Zagabria del 1989 sembrava di aver assistito al miglior Petrović possibile, ma questo in campo contro i Cavaliers, nella primavera del 1992, un po’ come quello visto due mesi prima con i Celtics, è qualcosa di superlativo. La sua presenza domina il gioco, Petro decide i tempi, è immarcabile anche in questa Lega in cui il livello atletico fa paura. Con il suo nuovo fisico e la testa di sempre, quella del 1992 è probabilmente la versione più completa e letale di Dražen  Petrović.

Nei minuti finali della gara 1 di playoff va a prendersi la palla e si costruisce un tiro direttamente dal palleggio. Con un canestro cadendo all’indietro allo scadere dei ventiquattro secondi porta addirittura i Nets al primo sorpasso, 109-108. L’unica cosa che non funziona, per Dražen  e per tutti i suoi, è il tiro da tre punti, l’arma tanto decantata in fase di presentazione della sfida. Zero su quattro per Petrović, e zero su dieci di squadra, mentre dall’altra parte i Cavs chiudono con cinque su quattordici (le cinque triple sono firmate da Mark Price, l’unico a metterla da dietro l’arco in tutta la gara). Questo, assieme alla grande prova sotto canestro di Brad Daugherty (40 punti, 16 rimbalzi e 9 assist), basta alla squadra di Cleveland per rimettersi davanti e vincerla sul finale. Quello di Daugherty non è l’unico quarantello di giornata. Dražen, alla fine, ne avrà messi insieme altrettanti, grazie a un 17/27 da due punti e a un 6/6 dalla lunetta. Quaranta sono il suo nuovo career high in Nba, un punto in più dei trentanove segnati ai Celtics il mese prima.

I Cavs si dimostrano più esperti e più pronti (la serie finisce 3-1 in loro favore), ma Dražen  chiude la stagione 1991/92 in modo assolutamente convincente, tanto da piazzarsi al secondo posto nelle votazioni per il Mip (il premio dato al giocatore più migliorato dell’anno), dietro solo a Pervis Ellison, ala centro dei Washington Bullets. Finiti i playoff, tuttavia, c’è grande eccitazione per la possibilità che è stata data alla neonata nazionale croata di qualificarsi per le Olimpiadi di Barcellona. Obiettivo a cui Dražen  tiene tantissimo, e per il quale si prepara con grande dedizione. 

(…)

 

 

Outro 

Solamente un piccolo estratto dal libro. Un brevissimo frammento di una vita appassionante, attraversata credendo sempre nella possibilità di superare i limiti della persona che tutte le mattine ti trovi davanti allo specchio. Dražen ha infatti cercato di superarsi, di essere migliore del giorno precedente, anche se solo di un piccolo dettaglio. Si è messo costantemente in discussione, avvicinandosi sempre più ai suoi sogni.

Certo, l’estratto termina proprio alla vigilia di Barcellona ‘92, e allora non posso esimermi dal fare una piccola pausa, e di riportare qui sotto il video dell’incredibile finale olimpica, la prima competizione ufficiale per la neonata Croazia (alla Serbia e al Montenegro fu impedito di partecipare, a Croazia e Slovenia no), la prima anche per il Dream Team Usa, la squadra di professionisti che avrebbe rappresentato il più grande concentrato di talento nella storia di questo sport.

Che spettacolo, eh? Ok, agganciamoci di nuovo all’estratto del libro. 

Nell’ultima stagione Nba, Dražen, assieme alla definitiva consacrazione, trova anche qualche delusione personale, come il mancato rinnovo con i Nets (Petrović e il suo agente, Warren LeGarie, avevano chiesto un contratto più ricco di quello che il front office dei Nets si dimostrerà invece disposto a pagare in prossimità della scadenza della free agency), e soprattutto la mancata convocazione all’All Star Game 1993 (parzialmente risarcita dall’inclusione di Petro nel secondo miglior quintetto Nba di quella stagione, nel ruolo di shooting guard dietro solamente a sua maestà Michael Jordan). 

Avrebbe fatto in tempo ad arrotondare il suo career high a 44 punti, in una serata memorabile contro gli Houston Rockets. Ma sarebbero stati ancora una volta i Cleveland Cavaliers ad eliminare i Nets dalla postseason ‘92/93, stavolta per 3-2. Terminati i playoff, Dražen entra in free agency e si ritrova davanti tantissime opzioni. A causa dell’infortunio al ginocchio sinistro rimediato contro gli Washington Bullets a marzo del 1993, sono in tanti a credere che sarebbe potuto tornare in Europa, dove si giocavano meno partite, con minore intensità, ma dove di certo non avrebbe guadagnato meno soldi, anzi. Grecia, Italia, Spagna. In quel momento lo vogliono tutti. L’Olympiakos sembra aver già un accordo di massima con il giocatore, mentre al Pana avrebbe ritrovato il suo amico di sempre, Stojko Vranković. In Italia, la meta possibile sarebbe stata Treviso, che proprio in quell’estate avrebbe perso Toni Kukoč, pronto al grande salto verso i Bulls, e c’è chi dice che si stava trattando per arrivare a Petro. Madrid e Barcellona, le (solite) opzioni spagnole.

Ma approdare finalmente a una franchigia Nba di primissimo piano era altrettanto possibile. Quando suo fratello Alexandar assieme al padre Jole ha svuotato l’appartamento di Dražen, hanno ritrovato un appunto di Petro scritto a mano, un foglietto come un altro, dove però c’erano appuntati tre nomi di città: Houston, Boston, New York. 

Si trattava forse di una shortlist?

In tanti erano a conoscenza del desiderio di Petrović di giocare ai Celtics, di cui sarebbe stato una pedina chiave nel suo prime. Inoltre, chissà, se avesse cambiato agente, optando per Marc Fleischer, come un breve dialogo intercorso tra Luciano Capicchioni e lo stesso Petrović fa pensare (in ascensore, in albergo, subito prima della sua ultima gara in Polonia), allora la strada Celtics non sembra così impossibile. Fleisher aveva ottimi legami con Boston, dove aveva già portato Dino Radja. Per quanto riguarda Houston, che avrebbe vinto i due successivi anelli Nba (in sette gare contro New York nel 1993/94 e con uno swipe a danno dei Magic nel ‘94/95), ci sono diverse conferme rispetto all’interessamento. Primo fra tutti, Rudy Tomjanovich era un grande estimatore di Draž. I Knicks, infine, avrebbero rappresentato un notevole upgrade di status rispetto ai Nets di allora, rimanendo sostanzialmente nella stessa area geografica, e vicino alle persone con cui aveva legato tanto nelle due stagioni e mezzo nel New Jersey.

Ma non siamo in grado di dare una risposta chiara a queste supposizioni. Tutte le persone con cui ho avuto la possibilità di parlare, in questi cinque anni, hanno dato una loro versione personale, indicando l’una o l’altra destinazione, appoggiandosi a dati, insight, dialoghi personali e, a volte, rispondendo a qualcosa che avevano nel profondo del cuore. Non sono in pochi infatti che avrebbero visto Dražen  ritornare al Cibona, a fine carriera, o addirittura al piccolo Šibenka, dove la sua avventura era iniziata. 

Nel giugno del 1993 arriva invece il girone di qualificazione all’Eurobasket che si sarebbe giocato in Germania. Ed è il momento della storia che tutti purtroppo conosciamo. Slovenia e Croazia sono già qualificate. Petrović nonostante i dolori al ginocchio sinistro vuole essere in campo. Ha appena segnato 48 punti in faccia all’Estonia. Nella gara del 6 giugno 1993 con la Slovenia chiude con 30 punti personali, ma la vincono Alibegović e soci. Una partita del tutto inutile, dato che le due squadre sono entrambe già qualificate all’Eurobasket 93. La sconfitta però lo fa arrabbiare lo stesso. Perché… beh, lo sapete bene perché: voleva sempre vincere. E ha forse modo di far andare via un po’ di quell’arrabbiatura che ha ancora addosso, quando si accorge che la ragazza con cui ha iniziato a vedersi di recente è effettivamente venuta a prenderlo all’aeroporto di Francoforte. Lascia allora la valigia a Stojko. Coach Novosel gli dà il permesso di staccarsi dal gruppo e prendersi una mini-vacanza in Germania per conoscere parenti e amici di Klara. In macchina. Sarà il solo a non prendere l’aereo con la squadra. Il solo a non fare mai ritorno a casa. 

Quel che accadde il 7 giugno di 30 anni fa è noto, triste, irrimediabile, crudele e, in un certo senso, si potrebbe perfino arrivare a dire, addirittura evitabile. Ma quel che abbiamo deciso di fare con La Giornata Tipo è, per una volta, almeno per questo 7 giugno, aspettare. Evitare la narrazione della fine, di lasciare a Dražen  il suo posto dorato e sospeso davanti ai nostri sguardi all’insù e alla nostra ammirazione. Abbiamo deciso di non tornare a ciò che è  avvenuto alle 17.20, tra la golf rossa guidata da Klara e l’autotreno finito di traverso nella corsia in cui la ragazza viaggiava assieme a Petro (lui dormiva, senza cintura, sul posto del passeggero) e all’amica Bilal.

Abbiamo deciso che oggi, solo per qualche minuto, Dražen  non arriverà a quell’incidente. Che per una volta non morirà. Che il 7 giugno sia un ricordo felice, almeno oggi, come un gioco tra di noi, come un tributo solenne e profondo. Una promessa tra tifosi e giocatore, tra amanti, tra fratelli e sorelle che continuano a provare lo stesso sentimento in qualsiasi dimensione, anche ultraterrena. Ecco perché oggi, per tutti noi, Dražen  è e rimane il giocatore europeo che per primo e più di tutti ha davvero illuminato la Nba. Il comune mortale che ha saputo affermarsi tra gli extraterrestri della Lega più importante del mondo, cambiando per sempre la percezione che gli Stati Uniti hanno dei giocatori e della pallacanestro internazionale, ed europea in particolare. 

Se si è creato lo spazio per un Nikola Jokić, per un Luka Dončić, e per tutti gli altri che in modo più o meno significativo hanno potuto dire la loro in Nba è anche (non solamente, sia chiaro, ma anche e soprattutto) perché Dražen ha segnato la via. Perché non si è arreso, ha ribattuto colpo su colpo, si è sempre migliorato. Ed è per questo che oggi lo ricordiamo col sorriso, continuando a tifare per lui. Per il nostro giocatore del cuore.

Per Dražen  Petrović, il primo uomo sulla Luna.

 

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