Sulla strada che porta dall’essere una grande promessa a diventare un campione assoluto le variabili ad incidere possono essere infinite. Tendenzialmente, sono tre i modi attraverso i quali buttare nel cesso una carriera.

1) il modello Robert Swift: ci si riconosce chi si fa beccare col lanciagranate, chi si fa di crack dalla mattina alla sera, chi ha la voglia di allenarsi di un 59enne il lunedì mattina all’ingresso in fabbrica, anche se la palestra non è proprio la catena di montaggio. Insomma, chi ha una relazione complicata con il funzionamento del proprio cervello.

2) il modello Brandon Roy: lo rappresenta chi ha iniziato rompendosi il mignolo scendendo dalla culla e a 25 anni ha più infortuni che peli pubici.

3) il modello Dajuan Wagner: è una variante più aggressiva del modello Roy, ovvero quando non sono solo ossa e muscoli a cedere ma la salute del resto del corpo. Insomma, se la fortuna è cieca, la sfiga ci vede benissimo.

Di recente, mi sono imbattuto più volte nel modello Dajuan Wagner, quello che intimamente ci lega di più a queste storie nelle quali neanche la tenace volontà di farcela bastano ad avere la meglio sul male. Ieri guardavo una partita di Eurocup del Besiktas e vedendo Chris Lofton sparare 4 triple in serie al malcapitato Zenit San Pietroburgo mi ha emozionato come il primo porno di un 12enne. Lofton detiene tutt’ora il record di triple a bersaglio nella Southeastern Conference della Ncaa. Piccolo particolare: l’ha raggiunto dopo aver sconfitto un cancro ai testicoli nell’estate precedente la sua stagione da senior a Tennessee. Nel febbraio 2009 ha rifilato 47 punti con 13/20 da 3 al Fenerbahce con la casacca del Mersin. Due mesi dopo, addirittura 61, con 17/23 dall’arco, al Kolejiller, sempre in Turchia. La battuta con le palle ve la risparmio.

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Qualche settimana fa, invece, ha annunciato il ritiro Johannes Lischka, alona tedesca che dirà poco ai più ma negli anni scorsi aveva vestito più volte anche la maglia della Nazionale. Poco più di un anno fa, dopo aver iniziato la stagione a Tubingen, era stato costretto allo stop dopo che gli era stato diagnosticato un tumore all’ipofisi. Operato, sembrava aver recuperato ed in estate era tornato a casa, nella sua Giessen, firmando per la locale squadra di A2 dove gioca anche il fratello. Le prestazione, però, non sono all’altezza. “Qualche mese fa ero un buon giocatore di Bundesliga, ora faccio fatica a giocare in ProA e sono troppo ambizioso per poter accettare questa situazione”, scrive sulla sua seguitissima pagina Facebook annunciando la volontà di lasciare, almeno per qualche mese, il basket giocato.

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Ma in tutto questo, Dajuan Wagner dov’è finito? Ho ripensato al “Messia”, come lo chiamavano nella natia Camden (non certo la Betlemme del New Jersey, visto che parliamo di una delle città più pericolose d’America), leggendo qualche giorno fa del fatto che si stia allenando per provare a tentare un ultimo sbarco in Nba. Ha 31 anni, è nato 9 giorni prima di me, ammettere che non sia finito la sento come una cosa molto mia.

Dajuan Marquett Wagner nasce il 4 febbraio 1983 con i cromosomi a forma di palla a spicchi. Papà Milt, “Ice” per gli amici, è una leggenda da quelle parti, quando nasce Dajuan ha già portato una volta Louisville alle Final Four e lo farà anche qualche settimana dopo la lieta novella. Di più farà negli anni a seguire, con il titolo Ncaa 1986 che chiuderà la sua carriera collegiale e addirittura un anello infilato al dito nel 1988, pur con un ruolo marginale nell’ultima edizione vincente dei Lakers dello Showtime.

Los Angeles Lakers

Milt, però, è molto vicino al modello Robert Swift e lascia il pargolo nelle mani di mamma Lisa. Il talento, però, è comunque tutto quello di papà. Dajuan scorrazza per le vie di Camden e a Whitman Park dà spettacolo, finché un giorno qualcuno non gli affibbia il nomignolo che si porterà dietro come una croce: “Da Messiah”.

Il ragazzino ci sa fare davvero, leggenda (o parabola) vuole che addirittura giri per il quartiere palleggiando con una pallina da tennis e delle scarpe zavorrate per migliorare il suo ball handling. Approda così all’high school locale e fa delle cose che, obiettivamente, non si erano mai viste non solo da quelle parti, ma in tuti gli Stati Uniti. Viaggia a 42,5 punti di media e considerate che parliamo di un ragazzino che, all’epoca, è sul metro e ottanta. Palleggio arresto e tiro, triple, penetrazioni, di tutto e di più, non c’è modo di arrestarlo e se ne accorge anche la Gloucester Township Tech, che il 16 gennaio 2001 si vede rifilare 100 punti dal Messia. A metà quarto quarto, arrivato a cifra tonda, si ferma ed inizia a firmare autografi per non rovinare la perfezione chamberlainiana della cifra.

Ci sono prove a sufficienza per ritenerlo pronto subito al salto tra i pro, visto che molte franchigie ormai stanno addosso a questo 18enne prodigio in cui tanti rivedono la classe cristallina di un piccoletto che sta imperversando dalle parti di Philadelphia. A differenza di quest’ultimo, però, Wagner non è genio e sregolatezza, anzi. È un gran lavoratore, suda coi compagni in palestra per cercare di affinare continuamente il talento che papà Milt gli ha lasciato in dote. Almeno quello. A fine anno, manco a dirlo, è miglior giocatore liceale d’America, mentre Iverson è Mvp della stagione Nba. I paragoni tra i due si sprecano, anche perché “The Answer” in persona lo segue da vicino, è molto spesso in tribuna per le sue partite e tra i due è nato un rapporto di amicizia e rispetto reciproco. L’hype intorno ad un possibile incontro nella stagione 2001-2002, insomma, è alle stelle

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Sfruttando la conoscenza del padre (cui offre la sedia di assistant coach), a soffiare il ragazzo alle grinfie della Nba è però John Calipari, che convince il Messia a venire a predicare il basket a Memphis. Wagner dice sì ed esegue: 21,2 punti di media (peccato, solo la metà dei 42,5 dell’anno precedente…), vittoria della Conference Usa e poi del Nit. È freshman of the year e miglior giocatore della competizione di consolazione per le squadre che non approdano al torneo Ncaa.

Nel suo unico anno di college, però, iniziano a manifestarsi i primi sintomi del male che gli distruggerà sul nascere la carriera Nba. Dolori di stomaco e cali di forze iniziano a farsi sempre più frequenti nel corso della stagione, ma con quelle prestazioni chi ci fa caso? Anche i Cavs al draft 2002, quello di Yao Ming e dei 17 giocatori internazionali selezionati, non danno troppo peso alla cosa, anche perché l’obiettivo vero è la lotteria dell’anno successivo, dove ci sarà da pescare un tipetto nato nella vicina Akron che con Wagner condivide un nomignolo di stampo religioso: Il Prescelto. I Grizzlies, che ce l’hanno sotto gli occhi per tutta la stagione e scelgono alla 4, sono andati sul sicuro con Drew Gooden da affiancare a Pau Gasol e allora Cleveland lo chiama alla 6. Il mantra della stagione è: perdere e perderemo. D’altro canto con Ricky Davis come go to guy non è che si possa aspirare a molto di più.

Il contesto, però, potrebbe essere ideale per consentire al Messia di predicare anche nell’Ohio. Potrebbe. Ma il male che lo contorce nelle viscere si fa sempre più aggressivo. Salta le prime 14 partite della stagione 2002-2003 per un’infiammazione della vescica, sinistro presagio di ciò che succederà. Ma poi sul campo fa vedere che ci sa fare. L’esordio, il 26 novembre 2002, è subito ok, con 17 punti rifilati ai Kings. Ma il cerchietto rosso è spostato 3 giorni più avanti, quando a Cleveland arriva The Answer. La tanto attesa sfida tra Iverson e Wagner. La partita va ai Sixers, ma la sfida personale è strepitosa, con i due a battagliare ad armi pari a colpi di crossover e canestri fantascientifici. Il duello finisce in perfetta parità: 29 punti a testa. Dajuan è raggiante per aver potuto combattere con il suo mentore: “Iverson è il mio fratellone – dirà a fine partita – in campo non siamo amici, ma fuori usciamo insieme, lo amo”. “La gente lo paragona a me ed io ne sono onorato – risponde al miele Iverson – ma non credo che sia giusto fare confronti. Io sono qui da 7 anni, lui è solo al suo primo anno”.

Parole che sembrano guardare alle nubi che si stanno addensando all’orizzonte. L’11 dicembre nella vittoria contro i Raptors, nona partita della sua breve storia in Nba, fa registrare il suo career-high a quota 33 punti, ma il destino è dietro l’angolo. La sua stagione da rookie, chiusa a 13,4 punti di media, finisce il 7 marzo 2003 con un infortunio al ginocchio. Le 47 partite disputate saranno poco meno della metà di quelle che riuscirà a fare tra i pro.

Come da previsione, i Cavs chiudono la stagione col peggior record della Lega e al draft 2003 non possono che scegliere Lebron James. Il Prescelto e il Messia insieme. Roba da far tremare il Papa.

La dirigenza di Cleveland spera di ritagliare a Wagner un ruolo di rottura dalla panchina alle spalle del Re. Ma i problemi all’intestino esplodono fragorosamente. Gioca metà stagione devastato dai dolori e perdendo peso di continuo e le cifre, ovviamente, ne risentono. 44 partite a 6,5 punti di media sono qualcosa di poco divino per il Messia. Si approfondiscono gli esami, non possono essere semplici infiammazioni quelle che massacrano le viscere di Dajuan. All’inizio della stagione successiva la diagnosi: rettocolite ulcerosa, una malattia autoimmune che irrita le pareti del colon, dell’intestino e degli organi ad esso collegati. Riesce a giocare 11 partite all’inizio della stagione 2004/2005, ma ormai è l’ombra del fenomeno cui si era inchinato anche Iverson. Non si può fare altro che intervenire chirurgicamente: nell’ottobre 2005 a Dajuan viene asportato completamente il colon, sostituito con una sorta di sacchetto fatto con parti del suo intestino tenue. Non c’è certezza sul se e sul come potrà recuperare, per cui Cleveland lo rilascia lasciando scadere il suo contratto da rookie .

Perde tutta la stagione, ma nell’estate 2006, quella che segna la fine del percorso del suo idolo Iverson a Phialdelphia, anche Wagner è pronto a una nuova sfida. AI finisce ai Nuggets, DW agli Warriors, che dopo un’ottima presesaon credono in lui a tal punto da fargli firmare un biennale da 1,6 milioni. Prende il numero 0, come Gilbert Arenas, a sottolineare quel nuovo inizio. Il sogno di una nuova sfida accende l’entusiasmo del Messia. Ma, proprio come un sogno, si dissolve in poche ore. La leggenda di Camden fa in tempo a segnare 4 punti in garbage time contro i Pistons l’11 novembre 2006. Saranno i suoi ultimi tra i pro. Non è più quello di un tempo e Golden State lo taglia a fine mese. La sua carriera, ad appena 23 anni, è a pezzi.

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“Nel posto in cui sono cresciuto, il verbo abbandonare non esiste”, dice il Messiah ad un giornalista del Courier Post dopo una partita di una summer league a Philadelphia dell’estate 2007. Si sta rimettendo in forma, vuole provare ad avere un’altra possibilità. Raccolti i cocci, vola in Polonia, al Prokom. L’Europa può essere un buon trampolino per il rilancio di un 24enne con quel talento. Resta per 4 mesi con i campioni polacchi e non va nemmeno male in Eurolega (8,3 punti di media). I più attenti tifosi virtussini se lo ricorderanno per la scintillante prova all’allora PalaMalaguti contro la Virtus, cui rifila 22 punti, pur martoriato dagli infortuni e da una condizione fisica ormai ai minimi termini. Si imbottisce di Gatorade per combattere i problemi di disidratazione e ormai ha un fisico minuto che è solo un triste ricordo del piccolo carrarmato che era un tempo. Non bastano i problemi intestinali, ci si mette anche il ginocchio, che cede all’improvviso. A Natale torna nella sua Camden.

Sono passati quasi 7 anni dall’ultima partita ufficiale giocata. Oggi il Messia vive serenamente nel New Jersey e sogna un futuro radioso per suo figlio Dajuan Junior. Non ha mandato tutto all’aria, i 10 milioni e passa guadagnati negli anni di Cleveland li ha gestiti con parsimonia.  Si allena duramente da tempo e spera di avere ancora un’ultima chance in Nba, magari passando dall’Europa, dalla Cina o dalla D-League. “Non voglio arrivare a 37 anni, guardarmi indietro e pensare a come sarebbe potuto essere giocare di nuovo – ha detto qualche settimana fa in un’intervista – se sarò forte abbastanza, se il mio corpo starà bene, so che ce la potrò fare. Il basket non è un problema. È quello che ho fatto per tutta la vita”.

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Marco Pagliariccio

Di Sant'Elpidio a Mare (FM), giornalista col tiro dalla media più mortifero del quartiere in cui abita, sogna di chiedere a Spanoulis perché, seguendo il suo esempio, non si fa una ragione della sua calvizie.

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