Ce la faranno gli Usa a vincere senza Durant & co.? La Spagna al gran completo può fare lo sgambetto? Chi può inserirsi in questa sfida? Domande legittime ma che ci entusiasmano il giusto. Il Mondiale è fantastico perché ci dà l’opportunità di conoscere storie esotiche, irripetibili, che ci consegnano un idolo o ci fanno riflettere tra una sangria e l’altra. Eccone cinque che vi metteranno voglia di vedere anche Corea-Angola.
RENALDO BALKMAN, L’AMICO DEI GILAS PILIPINAS
Il destino a volte è un gran burlone. Il Porto Rico, con Barea, Arroyo, nonno Santiago e una banda di esagitati da manicomio criminale si candida ad essere una delle squadre più pericolose del Mondiale. Non solo in campo.
L’emblema del mix di talento e follia che marchia il roster portoricano è senza dubbio Renaldo Balkman. Avesse sempre il cervello collegato, farebbe la sua porca figura anche sui campi americani, oltre che nelle galere della Florida (dove si è fatto un paio di gite premio per guida in stato di ebbrezza e roba simile). Ed infatti sarà una delle punte del team caraibico, del quale è stato tra i trascinatori già ai campionati Sudamericani 2013 chiusi dal Porto Rico al 2° posto.
Di alzate di ingegno, come avrete capito, l’Einstein delle Antille ne ha consegnate diverse alle cronache di questi anni. L’ultima è del marzo 2013, quando si trovava alle Filippine. A pochi minuti dalla fine di una gara che si avviava verso la sconfitta per i suoi Petron Blaze Boosters, Balkman va fuori di testa dopo un fallo fischiatogli contro. La 20° scelta del draft 2006 prima se la prende prima con l’arbitro, poi addirittura arriva alle mani con alcuni suoi compagni di squadra, intervenuti per calmarlo. Risultato: multa di 250.000 pesos filippini (circa 6.000 euro) e radiazione a vita dal campionato filippino.
Ci pensa il destino, come anticipato, a rimetterlo di fronte al suo recente passato: mercoledì 3 settembre, ore 13.30, Filippine-Porto Rico. Balkman ha già incrociato i suoi ex compagni June Mar Fajardo ed L.A. Tenorio nell’albergo di Vitoria che ospita entrambe le Nazionali. Per ora nessun morto né ferito. Per sicurezza e visto il calore dei tifosi filippini meglio dare un’occhiata al match.
JAROD STEVENSON AKA MOON TAE-JONG
“Eh vabbè, se prendo il passaporto coreano vado anche io ai Mondiali”. L’abbiamo pensato tutti. C’è però chi l’ha fatto sul serio. La Corea del Sud torna ai Mondiali a 16 anni dall’ultimo posto del 1998. Fare meglio non sarà facile, anche perché c’è più talento nel dopolavoro di Castelbellino che nel roster degli asiatici.
La star della squadra, comunque, è tale Moon Tae-Jong. Un nome che dirà nulla ai più. Forse però i tifosi di Avellino lo ricorderanno come Jarod Stevenson. Ala piccola versatile, con ottima mano da fuori, nel 2001-2002 era stato tra i migliori nella non scintillante annata che l’allora De Vizia di coach Dalmonte portò a termine in serie A chiudendo al 14° posto. Una stagione nella quale viaggiò a 14,6 punti col 41% da 3 e 4,2 rimbalzi di media. Da lì in avanti una solida carriera in giro per l’Europa, con le maglie anche di Fenerbahce e Unics Kazan.
Chiusa nel 2010 la parentesi europea, la decisione di tornare in Corea del Sud col fratello Greg, anche lui cestista di discreto livello (intravisto anche in Germania, Olanda e Francia). Tornare? Sì, mamma Stevenson è sudcoreana e lo stesso Jarod è nato a Seul, pur essendo cresciuto negli Usa. Così, nel 2011, arriva la decisione di prendere la doppia cittadinanza che spalanca al ribattezzato Moon Tae-Jong (Greg diventa invece Moon Tae-Young, quanta fantasia) le porte della Nazionale della quale, nonostante i 38 anni, è ancora uno degli elementi di spicco.
ARSALAN KAZEMI, OMAR ORABY E UNA NEBULOSA STORIA DI RAZZISMO
Nel girone A, verosimilmente Egitto e Iran faranno poco più che le comparse. Lo scontro diretto del 3 settembre alle 15.30, con tutta probabilità (BAGATTA ALERT), servirà solo ed evitare di chiudere a quota 0.
Uno di fronte all’altro si troveranno due ex compagni di college: Arsalan Kazemi, spalla del “faro” Hamed Haddadi nella nazionale iraniana, e Omar Oraby, che in assenza dell’infortunato Assem Marei sarà il go-to-guy dell’Egitto. I due erano insieme alla Rice University di Houston, college che insieme hanno abbandonato nella stessa estate, quella del 2012, per una vicenda che ha contorni piuttosto torbidi.
Nell’università texana, l’abilità nell’attività di reclutamento nei paesi arabi portata avanti dal vice allenatore (egiziano anche lui) Marco Morcos aveva fatto sbarcare a Houston Kazemi, Oraby e il libanese Ahmad Ibrahim nel 2009. Nell’estate 2012, però, misteriosamente ben 6 giocatori, compresi i tre mediorientali e coach Morcos, hanno deciso di lasciare Rice. Come mai? Pare che il direttore atletico degli Owls, Rick Greenspan, avesse tartassato il gruppo negli anni con continui insulti e discriminazioni razziste. Accuse mai confermate, ma il comportamento tenuto dalla Ncaa, che ha consentito a tutti i giocatori che hanno deciso di lasciare Rice per approdare ad altri lidi di farlo senza il classico anno di stop, lascia più di qualche dubbio.
Kazemi ha poi chiuso la sua carriera collegiale con una solida stagione a Oregon (9,4 punti e 10,0 rimbalzi di media), venendo chiamato alla 54 nel draft 2013 dagli Washington Wizards. Oraby invece ha chiuso quest’anno il suo quadriennio universitario dopo due stagioni a South California da buon role player (8,0 punti e 6,0 rimbalzi in stagione), finendo però fuori dal draft di quest’anno.
HAMADY N’DIAYE E LA FUGA VERSO LA VITTORIA
Come Kazemi, anche il senegalese Hamady N’Diaye ha provato ad assaggiare la Nba passando dalla capitale. Scelto dai Timberwolves alla numero 56 del draft 2010 e subito spedito agli Wizards, a differenza dell’iraniano almeno lui qualche minuto tra i pro se l’è fatto. In Magro-style, diciamo: in 3 stagioni, 33 partite disputate con 4,8 minuti di media, 20 punti e 25 rimbalzi in totale. Ciononostante (non è una parolaccia), me lo immagino immensamente felice in quei pochi attimi nei quali si realizzava il suo sogno. Anche perché per arrivarci la strada non è stata esattamente spianata. Anzi.
Il vice-Dieng del Senegal ai Mondiali arriva in America nel 2004, reclutato dall’ex allenatore dell’Under 18 dei Leoni Babacar Sy, ma solo nel 2005 si accasa a Florida Prep, una piccola scuola a Fort Charlotte della quale Sy nel frattempo diventa allenatore. Hamady è entusiasta, ma non sa che l’istituto è sull’orlo della bancarotta e che il suo “mentore” sta per darsela a gambe levate abbandonando lui e altri ragazzi africani al loro destino.
“Ci hanno piazzato in una casa dove c’era poco cibo, principalmente pizza, peperoni e panini con carne di maiale, tutta roba che noi, essendo musulmani, non potevamo mangiare”, ha raccontato lo stesso N’Diaye.
Dopo settimane in condizioni allucinanti, la decisione: tentare la fuga. Una scena da film: con l’aiuto dell’assistente allenatore Patrick Kunganzi, il gruppo di africani alle 3 di notte scappa dal tugurio, trafuga un furgone e lascia la città. Arrivano all’aeroporto ed ognuno se ne va per la propria strada.
Sy, nel frattempo, in realtà non era fuggito. Aveva rimediato un lavoro alla Stoneridge Prep, in California, cui un imprenditore aveva donato 350 mila dollari per sostenere le spese dei giovani africani. N’Diaye lo raggiunge e da lì, in seguito, partirà per approdare alla Rutgers University dove chiuderà una discreta carriera collegiale. E uno così dovrebbe aver paura di qualcuno sotto canestro?
JORGE GUTIERREZ, IL FIGLIO HIGHLANDER DI NAJERA
Un’altra storia di immigrazione, ancora con l’America nel mirino. Jorge Gutierrez, playmaker del Messico che si riaffaccia ai Mondiali 30 anni dopo l’ultima esperienza, è stato una delle sorprese dell’ultima stagione Nba. Arrivato ai Nets dalla D-League, è riuscito a ritagliarsi la sua nicchia in quel di Brooklyn nonostante le risatine di molti.
Gutierrez è un esempio di come la voglia di riuscire a superare ogni ostacolo può spingerti a traguardi inaspettati. Nato a Chihuahua (non il cane) da una famiglia benestante e cresciuto nel mito del suo concittadino Eduardo Najera, il primo messicano ad avere una carriera degna di questo nome in Nba, a 15 anni decide che è ora di valicare il confine per provare a confrontarsi coi migliori. Avete presente cosa vuol dire per un messicano cercare di entrare negli States? Ma la volontà è troppa e così, non proprio legalmente, si introduce in territorio americano per arrivare a Denver.
Trova rifugio alla Lincoln High School, una scuola frequentata per il 90% da ispanici, e vive in un appartamento con altri 3 coetanei messicani grazie ai pochi spiccioli che gli mandano i genitori dal Messico. In campo, però, Jorge è una furia. Durante una Summer League, ha un malore: la mano destra gli diventa blu, ha dei cerchi intorno agli occhi. Fermarsi? Neanche per sogno. Usando solo la sinistra, chiude la partita con 18 punti. Va in ospedale per le analisi: si scopre anemico. Colpa dell’alimentazione, visto che può permettersi solo lattuga e poco altro. Ma Jorge è testardo, vuole giocare ai massimi livelli e continua a lavorare duro: “Gioca e vive come se il mondo cospirasse continuamente contro di lui”, dice di lui l’allenatore dell’epoca.
Al college, a Berkeley, fa bene ma non abbastanza per entrare nel draft del 2012. Lo testano i Nuggets nelle Summer League ma non sono convinti, fa un provino anche al Partizan Belgrado ma niente da fare. Alla fine viene scelto al draft della D-League dai Canton Charges e lui risponde alla grande. Lo nota Jason Kidd, uno che di playmaker dovrebbe capirci qualcosa, e gli dà una chance: due contratti da 10 giorni ognuno. “Un duro – dice di lui lo stesso Kidd – si è slogato la caviglia ed ha continuato a giocare come niente fosse. Fantastico”.
I 4,1 punti e 2,0 assist di media convincono lo staff di Brooklyn a dargli fiducia, firmandolo con un contratto biennale. Jorge ce l’ha fatta. Ma non pensate che si fermerà qui.
Bel pezzo, complimentoni
pezzone, davvero complimenti
Bello e curioso