L’NBA, nata nel lontano 1946, ha attraversato due epoche principali: la prima, quella iniziale e sicuramente più breve, ha visto protagonisti alti mormoni ancora dubbiosi sul da farsi con la palla a spicchi in mano. La seconda, da metà anni ’50 ad oggi, è quella dove gli afroamericani si sono presi le luci dei riflettori, coi loro balzi a canestro e le loro acrobazie fuori dall’ordinario, che hanno contribuito ad avvicinare grandi masse di curiosi nelle arene di tutti gli Stati Uniti per ammirare da vicino le gesta di future leggende.
Esattamente come nella noiosissima ma utile storia che le nostre vecchie professoresse del liceo ci hanno obbligato a studiare, anche nell’NBA ad un certo punto è avvenuta una globalizzazione. Questo fenomeno, che ha visto l’avvento di giocatori internazionali nella lega dei cestisti più forti del mondo, ha avuto inizio alla fine del 20esimo secolo, per poi espandersi e raggiungere il suo picco nei primissimi anni 2000, e continuare ad assumere importanza anche nei giorni nostri. Chi fu l’alfiere di questo movimento, il maggior rappresentante del “Resto del Mondo” pronto ad invadere a spron battuto l’NBA? Un giovane Pau Gasol direttamente dal Barcellona? La versatile ala turca Hidayet Turkoglu? O il futuro boxeur serbo Darko Milicic, scelto alla 2 (eh…) dai Pistons, nel Draft di LBJ, Melo, Wade e Bosh?
Nessuno di questi baldi giovani.
Per conoscere dagli albori la storia della globalizzazione dell’NBA bisogna salire su un aereo, farsi 13/14 ore di viaggio ed atterrare sul suolo cinese, più precisamente a Shanghai.
Dove il 12 Settembre 1980, precisamente 36 anni e 10 giorni fa, nacque un bambino di nome Ming.
“Ci saranno almeno 3 milioni di persone di nome Ming in Cina”, direte voi. “Sono tutti uguali sti cinesi…”.
Mai affermazione fu più sbagliata. Perché di Ming è vero, probabilmente ce n’erano a bizzeffe in quel tempo.
Ma di Yao Ming ce n’era uno solo.
Figlio di papà Yao Zhiyuan e mamma Fang Fengdi, il piccolo Ming aveva probabilmente il futuro già scritto nelle stelle. Entrambi i genitori infatti erano giocatori di basket, ed ambedue riscossero un notevole successo sui parquet cinesi anche grazie alla loro altezza: 208 cm il padre, 188 cm la madre, manco a dirlo entrambi centri titolari delle nazionali cinesi maschile e femminile. Qualcuno dubitò sulla veridicità dell’amore tra Zhiyuan e Fengdi, parlando di una relazione obbligata dal governo cinese per ovvi motivi di interesse sportivo, ma è una tesi mai verificata completamente.
La crescita del “piccoletto” procedeva rapidissima, il giovane stava bruciando tutte le tappe ed a soli 10 anni misurava già 165 cm.
Inizialmente, da bambino, non c’era grande interesse per la pallacanestro, ma in famiglia c’erano problemi ben più importanti a cui far fronte. In un momento storico ed economico non facile per la Cina, che faticava a reperire risorse alimentari per sfamare 1.1 miliardi di persone, la famiglia Yao viveva di stenti, e spesso non riusciva a soddisfare l’appetito di questo bambino grande e grosso, con la mamma che si riduceva a bazzicare per i supermercati in orari di chiusura per cercare di comprare generi alimentari a prezzi più bassi.
Il tempo passava, i vestiti duravano sempre meno, c’era sempre più necessità di spazi per Ming, che grazie alla sua altezza ed alle proiezioni dei medici (“Arriverà a raggiungere i 221 cm”) si guadagnò le attenzioni della scuola sportiva di Shanghai, che fece carte false pur di averlo tra i propri banchi, certi che potesse avere un futuro brillante nel mondo dello sport.
Ma, come detto in precedenza, il basket non aveva la precedenza nelle priorità del ragazzo, almeno per il momento. Infatti Ming era appassionatissimo di storia, specialmente delle guerre del passato cinese, ed era un grande divoratore di libri e documentari.
“Da grande voglio essere un personaggio famoso. Uno scienziato, un politico… Qualunque cosa, basta che io sia famoso”.
Diamine, non vorrai buttar via quel fisico lì… Prendi una maledetta palla da basket in mano!
Per sua e nostra fortuna, piano piano si avvicinò alla squadra della sua scuola, e da subito fece vedere di essere dotato di un gran talento naturale oltre che di un aiuto non da poco come i suoi 180 e più centimetri.
Il basket iniziò a piacergli davvero: si rese presto conto di saperci fare e non poco, e inoltre capì che il mondo avrebbe potuto vederlo ancora da più in alto, visto che il suo sviluppo fisico non poteva terminare di certo a 13 anni. Lo stesso anno una delle squadre più importanti della Cina, gli Shanghai Sharks, si accorse che questo ragazzone avrebbe potuto mangiare riso in testa a tutta la nazione.
“Ehi, ti andrebbe di fare un provino per giocare negli Sharks?”
“Mi allenerei 10 ore al giorno pur di riuscire ad arrivare a giocare negli Sharks”.
Per 4 anni, Yao giocò nelle giovanili della squadra della sua città natale, apprendendo sempre qualcosa in più giorno dopo giorno, centimetro dopo centimetro.
Finalmente, nella stagione 1997/1998, arrivò il suo momento: a soli 17 anni venne lanciato nella mischia, con la faccia da bambino qual era ed un ingombrante corpo da scherzo della natura.
C’era qualcosa di strano in Yao Ming. Una strana ed improvvisa sensazione che fosse tutto soltanto un sogno vicino alla realtà.
Quel giovanotto alto 197 cm a soli 18 anni, quella maglia numero 15 così larga addosso a lui. Ma quel talento cristallino, quelle movenze così educate…
Era tutto troppo perfetto per essere vero. Infatti qualcosa non andò come previsto. Yao era sordo dall’orecchio sinistro. Un problema non da poco per uno sportivo qualunque, figuriamoci per un cestista che vive delle indicazioni di staff tecnico e compagni in mezzo al campo.
L’aura magica intorno a Yao Ming continuava a crescere di anno in anno. Cresceva l’attenzione, crescevano le sue statistiche. Cresceva pure lui, eccome se cresceva.
Yao continuava a lavorare, senza considerare che davanti a sé aveva una strada ricca di successo che avrebbe potuto condurlo chissà dove, ma sicuramente nei primi posti per quanto riguarda la storia dello sport nell’intero continente asiatico.
Nella prima stagione in maglia Sharks, quella da rookie, concluse l’annata a 10 punti ed 8 rimbalzi di media, cifre da capogiro se si pensa che stiamo parlando di un 17enne alla prima esperienza tra i professionisti.
Nella stagione seguente mettiamo un asterisco abbastanza grande.
Durante un classico allenamento settimanale, Yao si fratturò un piede. Era la seconda volta che il ragazzo soffriva di tale infortunio, con ogni probabilità dovuto all’eccessiva e rapida crescita ancora in tenera età, ed avendo ancora soltanto 18 anni (e tanti centimetri da reggere) non era certamente una cosa positiva.
Ma dopo una pausa forzata, il neo maggiorenne torna in campo più voglioso che mai per dimostrare il suo valore, e perché no, per vincere il campionato con i suoi Sharks. Ma non era questo il momento.
Le due annate seguenti videro la definitiva esplosione di Yao Ming nella CBA: 21.7 punti e 10.3 rimbalzi nella prima, 26.5 punti e 13.3 rimbalzi nella seconda, rispettivamente 3^ e 4^ stagione da pro. Ma entrambe le volte arrivò una sconfitta in finale, ed il sogno del campionato era ancora rimandato, ma non di molto questa volta.
Stagione 2001/2002, qui signori miei si fece la storia.
38.9 punti e 20.2 rimbalzi ad allacciata di scarpe del numero 15 condussero gli Shanghai Sharks al titolo, e Yao poté finalmente festeggiare la vittoria: sua, della sua famiglia, dell’intera città di Shanghai. Ma da questa vittoria anche l’intera Cina aveva guadagnato qualcosa: un nuovo fenomeno mondiale.
La vittoria del campionato fu soltanto la ciliegina su una torta sulla quale si lavorava da anni, quella torta che ormai era diventata alta 203 centimetri (e non smetteva di crescere) sulla quale tutti volevano mettere le mani.
A partire dagli americani dell’NBA, la lega dei grandi e grossi giocatori di colore che lentamente stava iniziando ad accogliere i primi talentuosi giovani bianchi europei, guardati sempre con molti dubbi sul fatto di poter reggere la categoria. Tantissime franchigie erano interessate al gigante gentile da Shanghai; lui, al contrario, non era così entusiasta all’idea di fare il grande salto, ma solo grazie al lavoro ai fianchi del GM degli Sharks, Li Yaomin, prese la decisione di dichiararsi per il Draft NBA 2002. Da subito iniziò la corte sfrenata nei confronti di Yao Ming da parte di mezza NBA, con i proprietari che si stavano sfregando le mani all’idea di allargare i propri mercati economico-finanziari fino all’Asia, continente in grande espansione in quel momento storico, proprio grazie a Yao. I pensieri a farlo diventare un grande giocatore ed una stella NBA erano secondari.
Ma non per gli Houston Rockets.
La franchigia texana, reduce da una stagione disastrosa da 28 vittorie e 54 sconfitte, aveva in Cuttino Mobley e Steve Francis le uniche due stelle a cui affidarsi, con un background ai limiti dell’imbarazzante, e l’inerme coach Rudy Tomjanovich aveva dannatamente bisogno di un centro puro, che potesse svoltare le sorti della franchigia. E Yao era lì, più puntuale di un treno svizzero, pronto a diventare la nuova asian sensation dei Rockets. Anche con un po’ di cu..ore nella serata della Lottery, dove la percentuale a favore dei razzi prevedeva per loro al massimo la decima scelta, e invece la dea bendata gli recapitò la prima.
1^ scelta -> Yao Ming -> Rinascita?
Dio solo sapeva cosa sarebbe successo con il gigante cinese dalla loro parte.
Dopo qualche problema creato dalla CBA e dall’intera nazione cinese per il passaggio di Yao negli Stati Uniti, ormai era tutto ufficiale: il non ancora 22enne Yao Ming sarebbe entrato nel Draft NBA 2002.
E senza troppi colpi di scena si prese il primo cappellino della serata (solo in maniera simbolica, visto che seguiva il Draft dal divano di casa sua a Shanghai con la sua famiglia ed il suo agente), quello rosso-bianco-blu targato Rockets, e diede il via ad una nuova epoca non solo per la franchigia di Houston, ma per l’intera NBA.
Tanti erano i dubbi a posteriori della chiamata dei Rockets, sia dei tifosi (che fischiarono al sentire il suo nome nella sala verde) che di parecchi addetti ai lavori. Uno su tutti Sir Charles Barkley, amante della polemica e delle affermazioni controcorrente.
Durante una diatriba in diretta tv tra l’ex Suns e Kenny Smith, Barkley si rivolse così nei confronti del collega: “Se Yao Ming segna più di 20 punti in una qualsiasi gara nella sua stagione da rookie, allora ti bacerò il culo”.
Il 18 Novembre, giorno dopo i 20 punti tondi tondi di Yao contro i Lakers di Shaquille O’Neal, successe questo.
Il numero 11 dei Rockets stava piano piano caricandosi sulle proprie spalle il presente ed il futuro dell’intera città di Houston, portando una ventata d’aria fresca in tutta la squadra e rilanciando le ambizioni della squadra allenata dal compianto Rudy T sebbene fosse nel suo primo anno in NBA.
L’accoglienza di Yao nello spogliatoio dei Rockets fu agevolata dal lavoro di Steve Francis, amuleto della franchigia nella notte della lottery e volto della squadra texana fino all’arrivo del centro cinese. Ma per quanto i suoi compagni e coach Tomjanovich potessero alleviare il passaggio in NBA, in un primo momento il 22enne da Shanghai ebbe non poche difficoltà ad inserirsi in una realtà completamente nuova e distante un abisso da quella precedente, vissuta a due passi da casa sua. Per un ragazzo timido ed umile come Yao, affacciarsi ad un mondo come l’NBA così esposto ai media e con una cassa di risonanza come quella della lega americana, il passo dal successo al fallimento può essere più o meno breve. La timidezza gli impedì addirittura di correggere i suoi compagni di squadra in un primo momento, quando tutti lo chiamavano Yao. Come racconta l’Hall of Famer cinese nel suo bellissimo articolo a The Players’ Tribune, “Tutti pensavano che Yao fosse il mio nome. In Cina, il cognome viene prima del nome. Così, per i miei amici cinesi ero Ming. Ora solo Yao. Ma non li corressi, ero troppo timido. Just call me Yao”. In questo caso, grazie all’ambiente affettuoso ed affidabile che i Rockets avevano costruito intorno a lui, il periodo difficile di Yao passò quasi velocemente, trovando una certa costanza sul parquet a cavallo tra le due metà di stagione e soprattutto trovando un buon equilibrio al di fuori delle arene d’America e senza le scarpe da basket ai piedi, svolgendo una vita regolare e mai fuori dagli schemi, proprio come accadeva in Cina. Più veloce del suo ambientamento andava solo la sua crescita:
Una delle cose più attese nella stagione da rookie di Yao era il suo primo scontro con Shaquille O’Neal. Il centro dei Lakers tricampioni in carica, 3 volte consecutive MVP delle finali, aveva cercato di alzare l’hype in vista della sfida del 18 Febbraio 2002 al Toyota Center di Houston con un po’ di trashtalking fuori dal campo, scimmiottando qualche frase in finto cinese con il suo fare da simpaticone sbruffone. Yao non se la prese. Prese tutto con il suo solito, diplomatico sorriso, e rimandò la sfida al campo. Dove andò così.
Da un lato la spavalderia americana, dall’altro l’efficienza cinese. È vero, Shaq ne segnò 31 con 13 rimbalzi, ma Yao lo stoppò ben 2 volte e chiuse la partita a 10 punti + 10 rimbalzi e la vittoria finale. Un buon biglietto da visita, no?
Ma il bello doveva ancora venire.
A Febbraio, si sa, è tempo di All Star Game. Le votazioni, affidate alla popolazione mondiale, erano sempre soggette a critiche dagli addetti ai lavori, per aver lasciato Tizio ed aver portato Caio, e via dicendo. Quell’anno, TUTTA l’Asia si mosse per portare il rookie Yao Ming nel quintetto titolare della Western All Stars. E ci riuscì.
Yao scalzò proprio quello Shaquille O’Neal diventato quasi padrone dell’NBA, grazie al movimento popolare asiatico, che gli garantì un quarto di voti in più rispetto a quelli del centro dei lacustri. Era proprio vero: ci trovavamo di fronte ad una nuova epoca del basket mondiale.
Yao Ming non era un centro monodimensionale, ma un giocatore in grado di colpire con più armi, eccezion fatta per il tiro da 3 punti che non era certo ciò che il coach gli chiedeva. Gancio, movimenti spalle a canestro, splendidi balletti sulla linea di fondo, virate, tiri in stepback. Non era un semplice rookie più bravo degli altri. Questo qua veniva dalla Cina, dove al basket nei giornali cartacei non era concesso spazio nemmeno nell’inserto del sabato. Si è forgiato da solo, aiutato chiaramente da una dote naturale come l’altezza concessagli dai genitori e da Madre Natura, che lo zampino ce l’ha messo per forza.
Il premio di Rookie dell’Anno se lo fece soffiare da Amare Stoudamire, uno dei pochi prospetti rivelatisi poi interessanti in quella classe del Draft ’02, ma non era questo che gl’interessava. Lo sviluppo tecnico ed umano del giocatore di 22 anni era solamente iniziato. Ma la nota che sorprende (fino a un certo punto) è il record a fine stagione dei Rockets: da uno squallido 28-54 passarono ad un ottimo 43-39, mancando i playoff per una manciata di W sul calendario. Ma si poteva già affermare che la scelta di Yao Ming come nuovo volto dei Rockets in campo e fuori aveva un suo perché.
La prima estate da giocatore NBA Yao non la passa in panciolle sul divano di casa o sparso tra una discoteca e l’altra. Non è mai stato un esibizionista o un festaiolo, l’ha sempre lasciato capire col suo comportamento temperato e rispettoso. Piuttosto, anche quando tornava in Cina per brevi o lunghi periodi, si allenava di continuo. Era arrivato negli States con una strana tecnica di tiro: al momento del rilascio del pallone, era solito mettere la mano guida, la sinistra, davanti alla palla, impedendogli di compiere un movimento del tutto naturale. Le estati in palestra con lo staff dei Rockets (che nel frattempo avevano sostituito il malato Tomjanovich con Jeff Van Gundy) gli hanno permesso di cambiare la sua tecnica di tiro e migliorarla, garantendogli un’efficienza sempre maggiore. La stazza era quella, croce e delizia di Yao: se da un lato lo facilitava nel catturare rimbalzi e stoppare avversari, dall’altro quei 229 cm per 140 kg lo privavano di velocità, rapidita e lo debilitavano in fretta, non permettendogli di calcare il parquet per troppi minuti in una singola partita, anche a causa di un problema ai polmoni che ne impediva la corretta respirazione. Manute Bol, il suo contemporaneo Shawn Bradley: giganti che furono niente a confronto di Yao, che per importanza faceva venire le sue dimensioni (non fate i maliziosi) soltanto dopo il suo talento e le sue squisite qualità umane, una su tutte l’umiltà, che lo caratterizza tutt’oggi.
Grazie alle sue ottime impressioni destate sul parquet e fuori, Yao Ming iniziava a guadagnare consensi in lungo ed in largo nell’intera NBA. Per la Cina era ormai un vanto, ancor più dell’avanzato settore terziario e del producente turismo. Allora, quando si parlava della Cina, invece che accostargli riso, ramen e qualche animale da cortile cotto allo spiedo, si faceva sempre il nome di Yao Ming, cambiando una volta per tutte le prospettive presenti e future di un paese in costante crescita sotto tutti i punti di vista.
La carriera di Yao in NBA procedeva a passo spedito. La sua ambientazione a Houston era ormai completata, era diventato uno di casa. Specie al Toyota Center, dove sugli spalti il coro più in voga era “YA-O, YA-O, YA-O”, e migliaia di canotte numero 11 andavano in giro a qualsiasi orario del giorno e della notte per le vie della città texana.
Nelle stagioni seguenti le sue medie andarono in crescendo, così come le persone che sostenevano il cinese con opinioni sicuramente meno discordanti dell’inizio. Dopo un’altra ottima stagione, guidati ancora dal trio Yao-Francis-Mobley, i Rockets si assicurarono la posizione numero 7 nella Western Conference, conquistando quei playoff che mancavano da 5 anni, e nonostante l’uscita al primo turno contro i Lakers non erano più la “squadra materasso” dell’NBA, ma potevano dar fastidio a tutte le altre 29 squadre della lega.
L’estate seguente la dirigenza di Houston mise in piedi una piccola ma sostanziosa trade che portò i 2 terminali offensivi al fianco di Yao, grandi amici del cinese, Steve Francis e Cuttino Mobley, dritti dritti in Florida, a vestire la maglia degli Orlando Magic. Pedina di scambio? Un 25enne Tracy McGrady, uno dei prospetti più floridi dell’intero panorama NBA con 30.1 punti di media nelle ultime 2 stagioni in maglia Magic. “Yao e T-Mac, che coppia!”, “Houston da titolo!” furono soltanto due dei tanti titoloni ed aspettative che piombarono sulla schiena dei Rockets in quell’Agosto 2004. Yao era ormai un giocatore affermato, pronto sulla rampa di lancio per spiccare definitivamente il volo verso i piani alti dell’NBA; McGrady era quel talento cristallino che non se ne vedevano molti in giro, già ai vertici della lega. Il tutto condito con ottimi giocatori di sistema ed un allenatore come Jeff Van Gundy: insomma, gli ingredienti erano più che ottimi, ora c’era solo da amalgamare e lasciar cuocere in forno.
Per Yao fu dura abbandonare un compagno di squadra come Francis: fu il primo ad aiutarlo nell’inserimento in un nuovo mondo ed in una nuova cultura, sebbene con dei modi abbastanza sui generis, ed a preoccuparsi che tutto andasse bene. I due rimasero sempre in continuo contatto, incontrandosi spesso tutt’ora fuori dalle arene di pallacanestro.
Yao iniziò a Dominare con la D maiuscola. In quella stagione fece registrare 18.3 punti e 8.4 rimbalzi di media giocando 80 delle 82 partite complessive di regular season, prime 2 partite saltate in 3 anni NBA. Unico neo, i playoff: ancora stop al primo turno per Houston dopo 7 partite contro Dallas. Nell’anno seguente segnò 22.3 punti e catturò 10.2 rimbalzi di media ma i Rockets, complice anche un infortunio a metà stagione occorso a McGrady che lo tenne out for the season, non arrivarono nemmeno ai playoff, sebbene le aspettative fossero ancora alte. E inoltre, ahinoi, è arrivato il momento di andare a ripescare quell’asterisco di cui sopra. A Dicembre, quando Yao stava viaggiando ad ottime cifre ed iniziava a ventelleggiare con continuità, bussò alla porta del centro cinese una brutta infezione al midollo del piede per Yao, che lo tenne fuori per più di 20 partite a cavallo tra 2006 e 2007. Dunque, terzo infortunio al piede in meno di 10 anni, che gli fece perdere più di 20 partite di stagione regolare ed una buona parte di forma fisica. In più, a fine stagione arrivò un altro infortunio, sempre al piede destro ma stavolta una frattura, che gli impedì di svolgere il suo classico lavoro estivo preseason.
La sfortuna che tartassava le due superstar dei Rockets erano una parziale scusante per i mancati risultati della squadra, che ancora non riusciva a superare il primo turno. Com’era possibile? Per Yao era un quesito irrisolto. Il centro cinese non ha mai fatto mancare il proprio apporto alla causa, allenandosi anche oltre il dovuto e maltrattando quel fisico che tanto lo aveva agevolato fino a quel momento. Tutto pur di vincere e smentire gli scettici, insomma, che nel frattempo erano passati dal “Yao non sarà mai una superstar NBA” al “Yao non porterà mai i Rockets in cima all’NBA”.
Per tutti i suoi detrattori, Yao avrebbe potuto utilizzare tale proverbio cinese: “Se le vostre parole non sono migliori del silenzio, dovreste restare zitti”.
L’offseason e il mercato edizione 2006 portò un ottimo difensore e specialista da 3 punti come Shane Battier alla corte di Van Gundy, a cui era stata data ancora massima fiducia. Con un organico sulla carta migliore degli scorsi anni (ed un 24enne rookie greco, tale Vassilis Spanoulis), Yao ed i suoi Rockets si preparavano ad un’altra stagione, l’ennesima, con il tentativo di andare oltre quel maledetto primo turno.
Niente da fare: stavolta a tradire Yao fu il suo ginocchio, ancora a Dicembre, compromettendo nuovamente il futuro e le ambizioni della squadra, che ancora una volta terminarono la loro corsa al primo turno di postseason, nonostante l’inserimento del loro pivot nel secondo miglior quintetto NBA.
Questo fu l’ennesimo episodio negativo per il fisico di Yao Ming, e da qui iniziò ad accusare tutta la sua stazza, partita dopo partita. E l’NBA continuava a globalizzarsi, come conferma lo sbarco in NBA di un altro cinese, Ji Yianlian, in maglia Bucks: la sfida tra i due fu teatro di 200 milioni di telespettatori soltanto in Cina, e risultò come la più vista di tutti i tempi. Ma un altro, l’ennesimo infortunio attendeva Yao al varco: a fine Febbraio il cinese soffrì di una frattura da stress al piede, lo stesso martoriato dagli infortuni negli anni precedenti. E via, altra metà stagione buttata nella spazzatura, tra operazioni e riabilitazione. Il tutto, in ottica delle Olimpiadi di Pechino 2008. Yao sarebbe stato il portabandiera della Cina, nazionale ospitante, e voleva provare a regalare qualche gioia al suo paese sul campo da basket. Il recupero (troppo affrettato?) dall’infortunio di Yao portò tanta autostima in più nella selezione cinese, che affrontò nella prima partita del torneo Team USA a testa alta, sebbene sconfitti di 31 punti.
Ma tutti riconobbero a Yao il suo grande lavoro spirituale prima che tecnico, dall’alto della sua esperienza americana ed essendo stata quella la sua terza partecipazione ai Giochi Olimpici. Come racconta lui stesso, “Perdemmo 101-70, ed un giocatore americano – credo Michael Redd – venne da me dicendo ‘Grazie per averci ospitato’. Lì capii che non si riferiva a me individualmente, ma lo vidi come un messaggio all’intera nazione. Abbiamo perso la partita, ma ho avuto la sensazione di aver guadagnato il rispetto dell’avversario”.
I pezzi del puzzle nella vita di Yao iniziavano quasi ad incastrarsi bene l’uno con l’altro, mancava soltanto quel maledetto secondo turno di playoff NBA.
Con Rick Adelman in panchina e nonostante un Tracy McGrady fuori per infortunio, nel 2009 arrivò anche quello. Una stagione finalmente senza infortuni per Yao Ming, anche se…
Anche se in Gara 3 del secondo turno arrivò un problema alla caviglia destra. Sembrava dovesse trattarsi di un infortunio di lieve entità, ma i medici il giorno dopo smentirono questa ipotesi: stagione finita. Ancora.
Yao non era un tipo molto emotivo, o se lo era non lo andava ad esporre davanti alle telecamere o ai microfoni degli Stati Uniti. Ma sono sicuro nel mio piccolo che quell’estate 2009 fu davvero difficile da lasciarsi alle spalle per un ragazzo così. Come se non bastasse, nell’estate 2009 dovette andare di nuovo sotto i ferri per sistemare la stessa frattura da stress al piede, ed il recupero lo tenne fuori per TUTTA la stagione 2009/2010.
“Never understimate the heart of a champion”, diceva il buon Tomjanovich.
Anche un guerriero come lui, uno che non si è mai arreso a nulla nella sua vita, stavolta sembrava spacciato, dritto dritto tra le mani di un destino più beffardo che mai.
Eppure, nonostante il popolo cinese continuò a sostenerlo anche per l’All Star Game (ancora votato titolare, per l’ottavo anno su 9 di cui uno saltato interamente per infortunio). Yao era in missione per conto della Cina, ma una forza maggiore gli impedì di portare a termine il proprio lavoro oltreoceano.
Della stagione 2010/2011 giocò solamente 5 gare, nonostante inizialmente lo staff tecnico e medico dei Rockets avesse studiato dettagliatamente un piano per il minutaggio della loro ex prima scelta nella stagione, fatto di tante pause nel corso della partita, 20/25 minuti di gioco e niente back-to-back in trasferta.
Ma niente, il destino a volte è più potente della determinazione, e la costante della parte finale della carriera di Yao Ming è la sfortuna.
Sfortuna per non aver mai avuto una corporatura normale, che ha sì agevolato la sua scalata verso l’NBA ma lo ha anche gravemente penalizzato.
Sfortuna per non aver mai visto Yao ai massimi livelli, con un fisico al 100% ed uno sparring partner come McGrady (anch’egli infortuni permettendo).
Sfortuna per non aver terminato una bellissima favola con un lieto fine degno dei migliori film hollywoodiani, perché era questo ciò che Yao Ming meritava.
Dopo le 5 partite giocate, Yao da Shanghai indice una conferenza stampa dove comunica ufficialmente il suo ritiro dal basket giocato, una volta per tutte, gettando la spugna dinnanzi a difficoltà insuperabili anche per uno stoico e volonteroso come lui.
Da sempre impegnato nel sociale a 360°, come dimostra il fatto di essere ambasciatore mondiale NBA ed al tempo stesso uno dei più grandi esponenti della lotta al maltrattamento domestico della donna, il legame tra Yao Ming e la pallacanestro era ormai inossidabile, ed anche una volta ritiratosi non smise di vivere di basket. In Cina fu il motivo numero 1 del boom di iscrizioni di giovani ragazzini ai corsi di basket, le partite NBA iniziavano a venire trasmesse in più canali televisivi, la stessa CBA iniziò a guadagnare importanza, ma soprattutto lasciò una traccia indelebile nel cuore e nella mente dei giovani giocatori di basket di tutto il pianeta. Ed anche nei nerd, che crearono un meme da una sua simpatica espressione.
Nel giorno del Draft NBA 2002, lo stesso dove venne scelto Yao con la numero 1, di 60 prospetti solo 17 venivano al di fuori dagli Stati Uniti. Nello scorso Draft 2016 furono ben 28 le chiamate “straniere”. Quasi una scelta straniera in più per ogni anno passato. Ed è doveroso sottolineare che nell’ultimo Draft addirittura 2 giocatori cinesi sono stati scelti, tra cui il giovanissimo e promettentissimo Zhou Qi, alto ben 218 cm a soli 19 anni.
Yao è anche presidente dei “suoi” Shanghai Sharks, e quest’anno è stato inserito nella Hall of Fame NBA insieme a due mostri sacri del gioco, come Allen Iverson e lo stesso Shaquille O’Neal, rivale sempre dentro il rettangolo di gioco ma anche lui grande estimatore della splendida persona che è Yao Ming.
L’ex Rockets ha fatto divertire ed emozionare una folta platea tra humor e ringraziamenti, e non posso non allegarvi il video del suo discorso.
“Il vaso vale per ciò che può contenere”, recita un proverbio cinese.
E quello che contiene Yao è amore, passione ma anche tanto dolore: dolore di chi ha lottato con tutto sé stesso ottenendo nemmeno una minima percentuale di ciò che la vita avrebbe dovuto restituirgli.
Non sarà stato il giocatore più emozionante di sempre o quello più incisivo, ma Yao Ming ha cambiato per sempre la storia di questo sport.
E noi gliene saremo eternamente grati.