Agosto 2005. Il Real Madrid ha rimesso le mani sulla Liga dopo cinque anni di digiuno ed un unico titolo vinto negli ultimi 11. Bozidar Maljkovic ha centrato l’obiettivo minimo, ma per tornare davvero in alto bisogna puntare al bersaglio grosso: l’Eurolega. E se c’è uno che sa come vincerla quello è sicuramente Bozo. L’ha vinta al Pana, l’ha vinta a Limoges, ma soprattutto è stato il regista di una delle più folgoranti dinastie del basket europeo contemporaneo: quella del KK Spalato, per tutti la Jugoplastika. Bozo, però, ha un peso sul petto, un peso grande come i 220 kg di Toni Kukoc e Dino Radja e con impressa una data: 18 aprile 1991.
Anche a Barcellona, come a Madrid, Bozo era arrivato per liberare la società dalla maledizione dell’allora Coppa dei Campioni. I blaugrana se l’erano vista sfilare sotto il naso prima da Larry Wright e Valerio Bianchini nel 1984 e poi dalla Jugoplastika di Bozo, Toni e Dino nel 1990. Dodici mesi dopo, era rimasta solo la “Pantera Rosa di Spalato”, oltre ai fidi scudieri Velimir Perasovic, Zoran Sretenovic, Zan Tabak, Luka Pavicevic e un giovanissimo Petar Naumoski. Anche Dino era volato via, attirato dalle milionarie sirene romane. Bozo contro Toni, Bozo contro la creatura leggendaria che aveva plasmato. Ma non è ancora tempo per il Barça. Come 12 mesi prima aveva zittito i 14 mila di Saragozza, Kukoc, con il fondamentale aiuto di Zoran Savic, trascina l’allora Pop 84 al primo dei “Three-peat” della sua carriera (ricordate il secondo?): la Coppa dei Campioni resta per il terzo anno in fila in riva all’Adriatico.
Fast forward.
Bozo ha bisogno di Toni e Dino se vuole portare la coppa a Madrid. Nel 2005, il primo sta svernando ai Bucks, il secondo è fermo da un anno dopo un nostalgico ritorno all’ovile. La società tentenna, dubitando delle loro condizioni fisiche. D’altro canto parliamo di due ragazzoni di 37 e 38 anni logorati da mille battaglie. Non se ne fa nulla e Bozo sbotta: “Paghiamo per qualunque tipo di giocatori un milione di euro a testa e diamo due milioni a dei bambini che non sanno ancora soffiarsi il naso, mentre i veri crack lasciano anzi tempo. Radja ha ancora un fisico migliore dell’80% dei centri in attività”. Non avremo mai la riprova di come sarebbe andata a finire. Quel che è certo è che il Real fallì il bis in Liga e in Eurolega dovette pure subire l’onta dell’eliminazione nei quarti di finale per mano del Barça.
Molti ricordano Maljkovic come una fautore del “non-basket”, con squadre votate a ritmi tartarugoidi e a una difesa che ti toglie il fiato. Il Limoges con il quale si prese la rivincita sul Kukoc biancoverde ne fu l’emblema. Ma la sua Jugoplastika, la cenerentola che al gran ballo del 1989 sorprese l’Europa, era poesia in movimento. Sretenovic e Pavicevic a dettare i ritmi, Ivanovic con licenza di uccidere da fuori, Kukoc a inventare e Radja a imporre la sua legge in post basso: terrificanti, col senno di poi.
Ma all’inizio della stagione 1988-89, Spalato era considerata squadretta di giovani promesse e nulla più. Evidentemente, qualcuno si era già dimenticato dello scherzone che Kukoc e compagni avevano tirato alla Nazionale Under 18 americana ai Mondiali di Bormio 1987:
A fari spenti, la Jugoplastika però avanza e arriva alle Final Four di Monaco, dove ad attendere indovinate un po’ chi c’è? Il Barcellona. “Per favore, non prendiamone 20”, disse qualcuno nello spogliatoio. Poi sulla soglia della porta appare un semi-dio: Aza Nikolic. Il professore è il mentore di Bozo, che l’ha voluto lì per parlare ai ragazzi prima di scendere in campo per il loro primo grande appuntamento con la storia. “Siete la miglior cosa che mi è accaduta da quando sono nel basket. Giocate duro, ma non fatevi uccidere perché tutti direbbero che è successo per caso”, disse loro, secondo il ricordo di Dino Radja.
Altroché se evitarono di farsi uccidere: Kukoc e Ivanovic fanno impazzire San Epifanio e soci, Radja mette a ferro e fuoco l’area blaugrana ed è finale. Un’altra batosta catalana.
Il gioco della banda di Bozo è una sinfonia perfetta: ribaltamenti da un lato all’altro, palleggi ridotti allo stretto necessario, uso minimo del pick’n’roll. E, ovviamente, l’incredibile talento dei figli di Spalato. Ma ora c’è il Maccabi da abbattere. Il Maccabi del cecchino Doron Jamchy e della batteria di americani guidata da Ken Barlow. Jamchy infila 15 punti in un amen, ma la partita è tiratissima. La Jugoplastika prende il comando nel finale con un Radja che manda in tilt Barlow e Magee stuprandoli in post basso e, nonostante la sua scarsa predisposizione per la difesa, spegnendo loro la luce nella propria metà campo. Dino si prende pure l’Mvp, ma soprattutto la Coppa vola a Spalato: l’impero della Jugoplastika è al suo apice.
Ora la cenerentola, però, è diventata una regina. Radja ha su di sé gli occhi di tutto il mondo, i Boston Celtics lo chiamano alla numero 40 al draft 1989 e lui fa vedere perché al McDonald’s Open di Roma, il 22 ottobre 1989. La Jugoplastika, arricchitasi di un altro giovane talento di nome Zoran Savic, mette i brividi ai Denver Nuggets perdendo per 135-129 ma Dino stampa 29 punti in faccia a Danny Schayes. La squadra, però, si sta trasformando nel team di Toni. La sua crescita è abbacinante. Stavolta la Jugoplastika è nel mirino di tutte le avversarie, ma la pressione non schiaccia i croati, che arrivano alle Final Four di Saragoza.
Il primo ostacolo è una formalità. La semifinale contro Limoges scivola via senza problemi. “Sapevamo che era la parte facile dell’impresa. E sapevamo che il Barcellona avrebbe vinto contro l’Aris. Il Barcellona era il nostro più grande avversario. L’unico. Il Barcellona era una grande squadra, ma in qualche modo sapevamo che non c’era modo nel quale potessimo perdere. Forse per Monaco? Non lo so. Il Barcellona non era una minaccia nelle partite importanti”. Parole e musica di Toni Kukoc. Che in finale parte dalla panchina, infila 20 punti e mette il sigillo sul secondo capitolo della saga: Jugoplastika Campione d’Europa, atto secondo.
Le sirene milionarie diventano sempre più forti alle orecchie degli eroi dalmati. Il Barcellona, dopo due brucianti sconfitte consecutive, prova ad affidarsi a Maljkovic, Radja è volato a Roma, Ivanovic in Spagna e se ne va pure lo storico sponsor, che lascia spazio al marchio Pop 84. Ma Savic e Tabak sono cresciuti e per la prima volta c’è anche un americano a dare una mano, l’ex Wolfpack Avie Lester.
Soprattutto, però, Kukoc, nonostante la chiamata numero 29 al draft degli Chicago Bulls, è ancora al suo posto. È la sua squadra ormai, quella della quale è leader e uomo immagine. È l’unico giocatore cui la società, oltre allo stipendio, dà anche una macchina. Una Fiat 126, nella quale per starci dentro deve tirar via il sedile anteriore guidando dal posteriore. Ma l’atteggiamento è tutto fuorché quello di una star.
A inizio 1991, l’azienda di calzature sportive marchigiana Dribbling, grazie ai contatti con l’allora agente del giocatore Mira Poljo, vuole avere Kukoc come testimonial. “Non ricordo bene la cifra che gli offrimmo, credo un milione o due di vecchie lire – ricorda Roberto Vallasciani, allora titolare dell’azienda – andai a Spalato a conoscerlo e lui rispose alla nostra offerta in una maniera che mi lasciò di stucco. Mi disse “Roberto, io mi sento un privilegiato rispetto agli altri, i compagni già mi guardano un po’ male quando arrivo in 126. Fai così: invece di dare dei soldi a me, sponsorizza tutta la squadra”. Finì che fornimmo il materiale tecnico a tutta la squadra, grazie a Toni”.
Intanto, però, col suo sconfinato talento e la sua leadership silenziosa e gentile, Kukoc continua a far impazzire l’Europa. E la Pop 84, pur non incantando, arriva alle Final Four di Coppa dei Campioni in programma a Parigi. Così come i nemici di sempre, il Barcellona del grande amico Bozo che stavolta sembrano chiaramente favoriti per la vittoria, con pure un “Piculin” Ortiz in più nel motore rispetto all’anno precedente. Ma non c’è niente da fare: Three-peat, signori.
Un paio di mesi dopo, in Croazia esploderà la guerra contro i nemici-amici serbi e con essa si frantuma una generazione dorata, che inizia la sua diaspora per il mondo. Non prima di un ultimo ballo: la finale del campionato yugoslavo 1991, l’ultimo prima della disgregazione. La Pop 84 affronta il Partizan Belgrado di Danilovic e Djordjevic. Ma non è ancora tempo per loro, quel tempo che arriverà 12 mesi dopo. I croati vincono la serie per 3-0, chiudendo davanti al pubblico serbo. A 1’ dalla fine di gara 3, con Spalato in controllo, coach Pavlicevic richiama in panchina Toni. Ebbene, il pubblico del Pionir si alza in piedi ed applaude lo sconfinato talento di uno di quelli cui, qualche mese dopo, avrebbe giurato morte. Cala il sipario su una squadra, su un epoca, su un mondo.
Bellissimo pezzo per una squadra irripetibile
Semplicemente BRIVIDI!!!
Se penso alla nazionale jugoslava di quei tempi mi vengono i brividi e anche una lacrima