illustrazione grafica di Paolo Mainini
“Per la madre di Marco Spissu. Le comunico che Marco oggi non ha seguito la lezione perché pensava al basket. Cordiali saluti”.
(Sassari, 4 novembre 2010. Nota sul diario)
Ok, questa perla di aneddotica nell’ambiente del basket la conoscono un po’ tutti. Ma quella di Marco Spissu non è la storia di uno studente scarso diventato un genio, né quella di un discolo trasformatosi in secchione: la sua è semplicemente la parabola di un ragazzo normale, partito con una buonissima base di talento, che ha creduto così tanto nel suo sogno da riuscire a entrarci dentro, forzarlo e farlo diventare realtà. Quella di Marco Spissu è la storia di un play che ha smazzato assist e infilato triple in tutte le categorie federali, dalla serie C regionale in su. A ogni step si è sentito dire che sì, in quel campionato ci sarebbe potuto stare, ma di salire di categoria neanche a parlarne. Con quel fisico, poi. Ogni volta lui ha abbassato la testa, si è messo a lavorare ancora più duramente e ha lasciato che a parlare fosse l’unico titolato a farlo: il campo. Dalle minors alla finale scudetto, alla fine ha avuto ragione lui. E non è finita qui.
1° flashback.
Bari, 22 settembre 2019.
Le 3 di notte sono passate da un pezzo, forse anche le 4. Anche le belle serate di festa prima o poi hanno una fine. Un gruppetto di giocatori della Dinamo Sassari sta festeggiando insieme a un ristretto gruppo di amici la conquista della Supercoppa Italiana. Hanno appena chiuso l’ultimissimo locale del centro, hanno pagato con la carta di credito di coach Pozzecco e hanno trattato col titolare per portare via qualche bottiglia. Si sono fermati poco lontano, su un muretto del lungomare, a miscelare qualche cocktail per un ultimo brindisi. Marco Spissu, tra l’alticcio e il romantico, respira a pieni polmoni la brezza marina di fine estate e guarda oltre il molo. “La prima volta che sono andato via di casa per giocare sono venuto qui – sospira – Avevo 18 anni, abitavo proprio là dietro, dentro la palestra”.
I conti sono presto fatti: è il 2013, a Sassari c’è questo play promettente, 18 anni freschi freschi, che domina a livello giovanile e nelle minors sarde. Ha bisogno di fare esperienza e viene mandato in prestito al Cus Bari, in Dna Silver. Viene alloggiato all’interno della palestra, a pochi metri dal mare, dorme in uno spogliatoio riadattato e trasformato in mini-appartamento. Il vicino di spogliatoio… pardon, di casa, è Diego Monaldi, oggi alla Gevi Napoli. Dalla sua camera, a Marco basta aprire una porta per entrare in campo. Anche per superare i momenti difficili quella è la principale via di fuga: ogni attimo è buono per allacciare le scarpe e andare sul parquet a tirare. “Stare lontano da casa ti insegna a cavartela da sola, a superare le difficoltà senza l’aiuto di babbo e mamma. Mi ero preparato bene, quell’estate, presentandomi per il raduno con 7 chili di muscoli in più. Il lavoro duro non mi ha mai spaventato. Poi però sei solo con te stesso e quella è la vera prova”.
2° flashback.
Wurzburg (Germania), 1 maggio 2019.
La finale di ritorno della Fiba Europe Cup è finita da un’oretta. All’esterno della S.Oliver Arena una cinquantina di tifosi della Dinamo sta cingendo d’assedio un pullmino decappottabile riadattato come chiosco-bar. Altri 100 sardi ebbri di gioia, in un parcheggio poco lontano, stanno dando vita a un’incredibile festa a base di prodotti isolani, al quale prendono parte anche diversi tifosi tedeschi. “Cofani aperti”, la chiamano, ma come diavolo abbiano fatto ad arrivare sino alla Baviera quintali di formaggio, ettolitri di cannonau, pedane di pane carasau e persino un porcetto surgelato non è dato sapere.
In mezzo a questo delirio, Achille Polonara e Marco Spissu escono dagli spogliatoi con il sorriso delle grandi occasioni, si fanno largo tra la folla e arrivano al baretto. Ordinano 10 gin tonic ciascuno, attendono diligentemente che siano pronti e li offrono alle prime venti persone che gli si parano davanti. Spissu, che per ricordare il primo trionfo europeo della storia di Sassari si è portato via come trofeo il pallone della partita, è il più richiesto: ha da salutare e abbracciare fratelli, cugini, parenti sino al terzo grado, compagni di scuola, amici di suo padre, vicini di casa.
“Il dopo-gara di Wurzburg è uno dei ricordi più belli che ho di questi miei primi anni di carriera. Un’invasione di tifosi sardi, un clima di allegria e spensieratezza che poi riproduceva in larga scala quello che era il nostro spogliatoio”.
Capitan futuro.
In mezzo a quella baraonda biancoblù, Marco Spissu è semplicemente a casa sua. “Sono cresciuto sui gradoni del settore D, da ragazzino sono partito in trasferta diverse volte, mi vengono in mente i campi di Venezia e Ferrara. Una volta, nei primi anni in cui facevo parte delle giovanili della Dinamo, saltai una partita e avvisai il coach: ‘non sto bene, non posso venire’. In realtà mia zia Giovanna mi aveva proposto di seguirla in trasferta a Reggio Emilia e non ci avevo capito più nulla. Solo che il giorno dopo, sulla Nuova Sardegna comparve la foto di un giovane tifoso al PalaBigi. Avevo il viso colorato di biancoblù, ma ero riconoscibilissimo. Insomma, mi presentai all’allenamento successivo con le orecchie basse, il coach fece finta di cazziarmi ma poi si fece una gran risata. Giocare per questi colori è una cosa bellissima, e farlo davanti alla mia famiglia e alla mia gente lo è ancora di più. In fondo un giocatore sogna anche questo. A 19 anni andare fuori dalla Sardegna è stata una scelta quasi obbligata. Ho girato tanto e rifarei mille volte quello che ho fatto. Non ho mai avuto fretta di tornare alla base ma sentivo che il mio posto era questo. Il futuro? Non chiudo le porte a nessuno, ma è chiaro che mi piacerebbe diventare un giorno un capitano e magari una bandiera della mia Dinamo”.
Un nome nel destino.
Papà allenatore di basket, mamma giocatrice arrivata sino alla serie A2 con il Sant’Orsola, tre fratelli, tutti maschi, tutti in qualche modo sportivi. Sino alla seconda media Marco si è diviso tra calcio e basket, poi ha scelto la palla a spicchi. Il suo primo cartellino appartiene alla Sportissimo Sassari, e non è un dettaglio secondario: l’anima di questa scuola basket è Nunzia Serradimigni, olimpionica con le azzurre a Mosca 1980 e sorella di Roberta, a sua volta ex giocatrice della nazionale, già Premio Reverberi come migliore giocatrice della serie A. A quest’ultima, scomparsa tragicamente a 32 anni, è intitolato il palasport di piazzale Segni, oggi teatro delle gesta di Marco Spissu e della Dinamo.
Ma “il biancoblù è il nostro amor”, come recita il coro che oggi Marco canta insieme ai tifosi alla fine di ogni partita interna, e allora la strada per arrivare nel settore giovanile della Dinamo è breve. Le tante partite vissute a bordo campo con in mano lo spazzolone per asciugare il parquet, durante le partite della serie A2, sono cosa nota. Ciò che quasi nessuno sa è che già da adolescente, ben prima di venire aggregato alla prima squadra di coach Meo Sacchetti, gli capitava di sfidare al tiro da 3 gente come Drake Diener. Non vinceva, Marco, ma se la cavava. E infatti la stella americana e suo cugino Travis lo presero subito in simpatia.
Record mondiale di gavetta.
“A 16 anni sono passato dai campionati giovanili a quelli senior, con la maglia della Torres, club satellite della Dinamo, e l’impatto non è stato dei più semplici. Ero un bambino che giocava contro uomini maturi, ma ho avuto la fortuna di trovare un allenatore come Antonio Mura, che per me è stato come un padre. Mi ha aiutato a crescere, e per far questo qualche volta mi ha letteralmente appeso al muro dello spogliatoio. Grazie al suo aiuto già nel girone di ritorno di quella prima stagione le cose per me andarono nettamente meglio”.
L’anno successivo, siamo nel 2012-’13, Marco gioca in tre squadre: col Sant’Orsola in Dnc, con l’under 18 della Dinamo e in prima squadra. Meo Sacchetti l’ha già buttato dentro: il 30 ottobre 2011, di fronte alla leggendaria Olimpia Milano, il futuro coach della nazionale concede gli ultimi 4 minuti a questo play di 16 anni, smilzo e sbarbato. “Bello l’esordio in prima squadra, certo, ma la mia vita non era quella del giocatore di serie A. Ogni giorno facevo il pendolare in giro per tre diverse palestre di Sassari, con coach Mura o qualche genitore che faceva la staffetta per accompagnarmi da un capo all’altro della città. Mi allenavo, mi sedevo in macchina, mi riallenavo, mi allenavo ancora”.
Nell’estate 2013 la partenza per Bari, dove però la società va presto in difficoltà. Dopo pochi mesi Marco torna a casa per poi andare in prestito a Casalpusterlengo, che gli mette in mano le chiavi dell’Under 19 e gli dà qualche piccola chance nelle rotazioni in prima squadra, in Dna Silver. “Il primo mese è stato pesante. Io da casa mia a Sassari vedo il mare, lì uscivo la mattina e vedevo solo nebbia. Insomma, c’è voluto un po’ per sentirmi a mio agio”. Come per gestire una palla importante, per superare quella fase Marco ci mette sangue freddo e forza di volontà. E alla fine il momento giusto arriva.“Il play titolare si fece male e riuscii a farmi trovare pronto. Insomma, iniziai a giocare con continuità e tutto fu più facile”.
In quella primavera del 2013 si infila un frullatore di emozioni, che lo porta nel giro di tre giorni a conquistare lo scudettino con l’Under 19, vincendo il titolo di Mvp delle finali, e poi a giocarsi il salto di categoria con la prima squadra, con la sconfitta in gara5 per un punto contro Mantova. Tra una finale e l’altra Spissu riesce anche a sostenere l’esame di maturità. Casalpusterlengo, che nel ruolo di ala schiera anche un ventireenne Pippo Ricci, verrà poi ripescata.
I due anni successivi sono ancora all’insegna del “testa bassa e lavorare”. Dopo la conferma a CasalP, per lui le cose non si mettono bene: poco spazio, pochissime opportunità. Allora a metà stagione la chiamata di coach Giovanni Benedetto a Reggio Calabria diventa determinante, così come quella dell’anno successivo al Derthona di Demis Cavina. In riva allo Stretto e a Tortona Marco gioca campionati di vertice, i minuti sul parquet crescono, le responsabilità e la fiducia pure. E nell’estate 2016 arriva la telefonata di Ramagli: dai, vieni alla Virtus, possiamo fare buone cose.
Ramagli, Spissu e gli altri con la Virtus faranno in realtà cose eccellenti, riportando le Vu Nere nella massima serie dopo una sola stagione e soprattutto riconquistando il pubblico. “La Coppa Italia è stata il momento chiave della nostra stagione. Abbiamo vinto il trofeo e da quel momento in poi anche tutta la tifoseria ha capito che eravamo un grande gruppo e ci ha sostenuto in maniera incondizionata”.Per lui, quella Coppa Italia rappresenta anche un doppio trionfo personale: a casa porterà il premio di Mvp della finale e di miglior Under 22 dell’intera manifestazione.
Home sweet home.
Il 19 giugno 2017 la Virtus batte Trieste in gara 3 e viene promossa in serie A. Alle 21,57 Stefano Sardara posta un tweet:
Grande Marco, stagione fantastica e prestazione maiuscola…..ora riposo, mare, sole, sardegna e ……Dinamo!!!! 👏👏👏👏👏 pic.twitter.com/K2bnW6T4ZA
— stefano sardara (@stefanosar) June 19, 2017
“A Bologna sono stato da Dio, non mi sarei mosso da lì per un’altra destinazione. Ma dopo tanti anni il cassetto dei sogni si era aperto: l’idea di giocare davanti alla mia gente, con la maglia della mia squadra del cuore… Ricordo che quando lessi quel tweet pensai: ok, forse è il momento di tornare a casa, in fondo la serie A me la sono guadagnata sul campo”.
Anche a Sassari non è stato tutto rose e fiori, ma ancora una volta Spissu ha fatto tesoro dell’esperienza e ne ha approfittato per crescere. Dopo il primo anno, con Federico Pasquini in panchina, e dopo i mesi con coach Vincenzo Esposito, la svolta arriva con l’atterraggio sul golfo dell’Asinara di Gianmarco Pozzecco. Che lo valorizza, lo coccola, lo responsabilizzato e infine – da questa stagione – lo promuove in quintetto dopo un annuncio “urbi et orbi” fatto già in estate.
Oggi Marco è tra i migliori play del campionato, con un impatto sulle gare che va molto al di là delle cifre, peraltro buonissime: 9,2 punti, 3,6 assist e 3,8 rimbalzi a partita, con il 48,5% da 3 punti e un plus/minus (+10,1) tra i più alti della serie A. “Poz ha messo sullo stesso piano tutti, italiani e americani, ci ha cambiato la mentalità da subito. Vincere 22 partite di fila non può essere un caso, deve esserci dietro qualcosa di davvero speciale. Abbiamo vinto la coppa a Wurzburg, abbiamo disputato dei playoff straordinari, battendo Brindisi e Milano per 3-0, e con Venezia ce la siamo giocata sino a gara7. Perdere ha fatto male, ma eravamo sereni e trovare 5mila persone ad accoglierci in piazza d’Italia, al nostro ritorno a Sassari, è stato qualcosa di inimmaginabile. Quest’anno ci sono diversi compagni nuovi, ma la mentalità è rimasta la stessa”.
Ambizioso, umile, un po’ pazzo, estremamente determinato. Marco Spissu, quello che da ragazzino prendeva note sul diario “perché pensava al basket”, oggi è un vero profeta in patria. Provate a fermarlo.
Profumo d’azzurro (bonus story)
Dopo le tante parole spese (da altri) in questi mesi, Spissu dribbla ogni discorso sulla nazionale azzurra. La possibile convocazione viene vissuta dal play sassarese come un sogno da inseguire, l’ennesimo, ma non certo come un assillo. E allora tanto vale raccontare uno degli aneddoti più curiosi legati alle sue frequentazioni con le nazionali giovanili, di cui ha vestito tutte le maglie dai 15 ai 19 anni.
Liepaja (Lettonia), luglio 2013. La nazionale Under 18 è in ritiro in vista dell’inizio degli Europei. A tre giorni dalla prima gara, con le liste definitive ancora non consegnate alla Fiba, Spissu si scaviglia in allenamento. Il dolore è forte e la paura di restare fuori è grande. La notte non chiude occhio e la mattina dopo, prestissimo, qualcuno bussa alla porta della sua stanza. È coach Andrea Capobianco, in maglietta, mutande e ciabatte, che gli intima di alzarsi: “Mettiti le scarpe, vieni in corridoio, devo consegnare la lista definitiva e devo sapere se ce la fai”.
Se qualcuno fosse passato, un minuto dopo, nel corridoio di quell’albergo lettone, avrebbe trovato un coach in déshabillé che osservava con attenzione un giovane cestista con la caviglia gonfia fare scivolamenti sulla moquette da una parte all’altra, mordendosi le labbra per non mostrare il dolore. Perciò non chiedetegli mai cosa sarebbe disposto a fare per una maglia azzurra.
di Andrea Sini
giornalista della Nuova Sardegna, nell’ultimo decennio ha seguito la Dinamo come inviato su tutti i campi d’Italia e d’Europa.