intervista di Roberto Gennari
foto di Derthona Basket
Pesaro, 20 Febbraio 2022. L’Olimpia Milano ha appena sconfitto la Bertram Yachts Tortona, i giocatori in maglia bianconera si girano verso il settore dei tifosi a prendersi e ricambiare un applauso meritatissimo lungo tutte le Final Eight. A bordo campo, un bimbo con la canotta della squadra cerca invano di entrare, lo steward lo ferma. Il coach di Tortona, un omone giovane che ha dato spettacolo lungo la linea laterale per tutte e tre le partite, tra arrabbiature fatte di espressioni dialettali (“con Mascolo parlo in dialetto perché mi capisce, ma ormai mi capiscono anche Tavernelli e Severini. Ma nei timeout parliamo italiano e inglese, non è che facciamo Natale a casa Cupiello”) e discussioni animate ma sempre rispettose con gli arbitri, parla con lo steward, gli fa capire che quello è suo figlio, lo prende in braccio con sé e lo fa entrare in campo. Il bimbo è sconsolato, sperava nella vittoria dei suoi. Suo padre si rivolge a lui e gli dice “non devi essere triste, guarda che abbiamo fatto una cosa grande. Sii felice!”. Tra canestri spettacolari, vittorie al cardiopalma, difese asfissianti e partite fisiche, uno dei personaggi più belli ad emergere da queste Final Eight è Marco Ramondino, giovane (compirà 40 anni a fine agosto) coach alla sua quarta stagione col Derthona Basket. Ha sfiorato un’impresa memorabile, ma la sua storia comincia da lontano. Ce la siamo fatta raccontare direttamente da lui.
La prima opportunità in Serie A a vent’anni, nello staff di un mostro sacro come Markovski. Com’è stato lavorare con lui?
Ripensandoci oggi, posso dire che non ero pronto per quell’occasione. A vent’anni si pensa di sapere molto quando invece si sa molto poco, è come se non si avesse il sofware giusto installato. Facevo l’assistente di un grandissimo coach come Markovski, nella squadra della mia città, con una rosa di giocatori di grande livello, ma io semplicemente non potevo ancora apprendere tutto quello che avrei potuto, sia dal coach che dai giocatori: semplicemente, quella cosa era troppo più grande di me,
Dopo Markovski c’è stato il sodalizio con Capobianco.
Io con Andrea Capobianco avevo già lavorato nelle giovanili ad Avellino, poi ci siamo ritrovati insieme a Salerno e poi di nuovo a Jesi. Definire quello che Andrea è per me è difficile e al tempo stesso semplicissimo: è un mentore, un amico, un fratello maggiore. Sono sicuro di non esagerare se dico che tutto quello che ho potuto fare nella pallacanestro è stato grazie alla sua capacità di guidarmi, di insegnarmi, di permettermi di sbagliare, quando era necessario.
Di nuovo con Capobianco anche a Teramo, nella stagione del terzo posto.
Quella è stata davvero una grandissima stagione, si sentiva sin dai primi allenamenti che sia la squadra che lo staff esigevano molto da loro stessi. Questo comportamento, che è sportivo e insieme professionale, è sintomo di una mentalità ben radicata nella squadra, la voglia di lavorare in palestra, di costruire una grande sinergia di gruppo. Certo, c’erano individualità importanti, che hanno avuto delle carriere strepitose dopo essere stati a Teramo, penso a Peppe Poeta, a David Moss e ovviamente a Jaycee Carroll. Ma quell’anno più di tutto fu la coesione, il segreto della squadra.
A proposito di Carroll: ci risulta che fosti tu ad andare a visionare Jaycee Carroll negli USA. Ci racconti com’è andata?
Eravamo io e Di Paolantonio, andammo alla palestra della Durango High School di Las Vegas (quella in cui peraltro fece il suo primo allenamento anche Marco Belinelli, NdR), dove si svolgevano non solo le partite ma anche degli scrimmage “privati” tra giocatori di varie squadre NBA. Noi ci eravamo arrivati tramite Maurizio Gherardini, all’epoca ai Raptors. Arrivammo alla palestra per scoprire che la porta d’ingresso si apriva solo da dentro, così che facciamo? Chiamiamo Gherardini dicendogli di venire ad aprirci, e dopo pochi minuti alla porta si presentò Masai Ujiri! Superato un primo momento di stupore, parliamo con coach Mitchell prima che Toronto faccia un 5 vs 5 contro Washington. Mitchell schiera Jaycee Carroll come point guard, e lui comincia a guidare la squadra, a dire ai compagni dove posizionarsi, a cercare i passaggi per il compagno in posizione favorevole. A un certo punto, però, Mitchell ferma il gioco e gli fa: “Ehi, Jaycee! Ma si può sapere come diavolo hai fatto ad essere il recordman di punti del tuo college se non tiri mai?”
Dopo Teramo, arriva a Veroli la tua prima occasione da capoallenatore in un campionato professionistico…
Per quanto riguarda il lato sportivo, la stagione a Veroli fu bellissima. Chiudemmo al sesto posto in campionato dopo che il girone di andata avevamo finito a pari punti con la terza. Arrivò la qualificazione ai playoff, dove fummo eliminati al termine di una serie tiratissima contro Verona. Certo, era un anno complicato: Veroli è una cittadina piuttosto piccola, ma con grande tradizione e aspettative alte, ma riuscimmo nell’impresa forse più difficile, quella di creare una chimica di squadra. In una stagione in cui, a parte Bartocci – che adesso sta con me a Tortona – la società praticamente non esisteva, la squadra mi dimostrò di essere fatta di uomini veri prima ancora che giocatori professionisti. Io mi rendo conto che in quel periodo vivevo in un mondo tutto mio: ero il capoallenatore di una squadra di basket professionistica, quello che avevo sempre sognato, e anche se non mi arrivavano due mesi di stipendio, chi se ne fregava? Però non è facile, ovviamente. Non tutti i giocatori la vivono allo stesso modo, e gestire una situazione del genere ti insegna tanto, ti fa crescere sul piano umano prima ancora che professionale.
A Casale Monferrato sei stato quattro anni, invece. Capoallenatore in A2, a poco più di trent’anni…
Beh, di certo rispetto a Veroli la situazione societaria era diametralmente opposta. Una società molto organizzata, serissima e puntuale in tutto: in queste condizioni, inutile negarlo, si lavora decisamente meglio. Riguardando a tutti e 4 gli anni è stato un bel percorso. In categoria c’erano anche budget più alti, certo, ma a Casale c’era l’ambizione di competere ad alti livelli grazie alla programmazione, alla gestione del settore giovanile e a investimenti mirati. Marco Martelli è uno dei migliori dirigenti sportivi con cui ho lavorato, e a Casale ho avuto la conferma di quanto avevo già imparato con Capobianco: non serve scegliere in fretta, serve scegliere pensando a ciò che è meglio, anche se ci vuole del tempo in più.per prendere una decisione. Questo aiuta perché anche se la decisione non dà frutti immediati, ha comunque una sua logica, e potrebbe dare frutti più avanti.
E i frutti si sono visti: Casale è salita alla ribalta delle cronache sportive nazionali con la vittoria di quella serie playoff contro la Fortitudo Bologna. Come l’hai vissuta, essendo passato anche da Bologna nel tuo percorso professionale?
Nessun senso di rivalsa, io a Bologna sono stato benissimo, è una piazza incredibile per fare basket, anche se quando io ero alla “Biancoblù” c’era una situazione un po’ paradossale per l’esistenza contemporanea di due squadre che reclamavano il nome e il titolo della Fortitudo. La gioia più grande non fu nel vincere contro Bologna, anche se era una vittoria di prestigio e la qualificazione ad una finale di playoff: la gioia fu soprattutto nel vedere la squadra che giocava esattamente il basket che volevo da loro. Dopo aver vinto le prime due partite in casa, in gara 3 giocammo benissimo ma non facevamo mai canestro, quindi perdemmo di più di trenta punti. In gara 4, sempre a Bologna, facemmo esattamente la stessa partita che avevamo fatto due giorni prima, con la differenza che facevamo canestro. Era tutto perfetto. Durante i timeout, riuscivo solo a dire ai ragazzi “continuate a fare quello che state facendo”. Era un sogno. Peccato solo per il risveglio brusco contro Trieste. Quella stagione lascia l’amaro in bocca, perché vincere tre serie playoff e non venire promossi è dura da mandare giù.
Tra l’altro, in quella stagione, anche in Coppa Italia sembrava dovesse essere una sfida a due tra Trieste e Casale, se non che siete uscite entrambe al primo turno e a spuntarla fu proprio Tortona… Segno del destino?
Tortona e Casale sono vicine geograficamente per cui c’è un po’ di rivalità tra le due squadre, quello sì. Non so se sia un segno del destino, magari no, ma di sicuro avendo allenato proprio lì vicino mi conoscevano bene. L’aver fatto bene a Casale può aver orientato la loro scelta, ci sta.
In effetti, ti sei spostato giusto di una cinquantina di chilometri, da una società con un progetto importante a un’altra.
A Tortona grazie al gruppo Gavio c’erano e ci sono ottime possibilità economiche. Ma anche in un contesto come questo, ci vuole una programmazione, perché serve a dare concretezza a sogni e ambizioni, che altrimenti sono campati in aria. A Tortona hanno la mia stessa filosofia, cioè raggiungere i risultati attraverso un percorso che abbia una logica. Ovvio che chi investe, ancor di più se investe tanto, vorrebbe un ritorno immediato e commisurato, ma per questo ci sono gli addetti ai lavori. Per convincere le società della bontà delle idee. La prima stagione a Tortona mi sono venuti i capelli bianchi, anche se poi alla fine ci siamo salvati. Per questo prima dicevo che la fretta è cattiva consigliera: le soluzioni si trovano lavorando.
E infatti al secondo anno è arrivato un trofeo, il tuo primo da capoallenatore.
La supercoppa è stata una gioia grandissima, era la prima volta per me e per diversi giocatori, in quei giorni è andato tutto come doveva andare, è stato bellissimo “bagnarsi i piedi” sia per me che per la squadra e lo staff. Soprattutto in una competizione da “dentro o fuori” com’è quella, in un contesto livellato com’è il campionato di A2 dove nessuno ti regala mai niente. Ci ha sicuramente aiutati nel nostro cammino di crescita.
Raccontaci dello scorso campionato: c’è stato un momento preciso, durante la stagione, in cui hai pensato che ce l’avresti potuta fare, a centrare la promozione?
Devo dire la verità: già dalla prima giornata contro Trapani ho percepito, dal campo e fuori, di avere un organico molto competitivo, sensazione poi confermata sia nella serie positiva di inizio campionato che durante la fisiologica flessione di risultati accusata più avanti. Ho avuto sempre e costantemente la sensazione di essere seguito dalla squadra, non c’è mai stato bisogno di “rimetterla in carreggiata”. Se però devo dire quando ho capito che ce l’avremmo potuta fare, dico che è stato dopo aver battuto l’Eurobasket Roma nei playoff: tutte e tre le nostre vittorie sono arrivate con uno o due punti di scarto, e questo mi ha fatto capire che la squadra era pronta e concentrata per tentare l’impresa.
Anche quest’anno la squadra ha lo stesso atteggiamento. Abbiamo visto anche durante le Final Eight una squadra sempre molto serena.
La squadra vive la serenità che è data dalla consapevolezza dei propri mezzi e della bontà del lavoro che viene svolto durante l’anno. Durante le sedute di tiro mattutine a Pesaro, ci sono stati dei momenti anche giocosi, come quando JP Macura si divertiva a giocare con mio figlio, c’era una bella atmosfera, ma poi quando c’è stato da lavorare duro non c’è mai stato bisogno di richiamare nessuno all’ordine. Noi a Pesaro eravamo arrivati con aspettative alte, ci tenevamo a dimostrare il nostro valore, e sapevamo che per farlo servivano serietà e serenità. Io poi magari posso essere anche uno un po’ sanguigno durante le partite. ma sono anche convinto che un giocatore debba essere concentrato perché è lui stesso ad essere convinto di stare facendo il meglio possibile per arrivare al risultato. Se un giocatore si impegna solo perché è intimorito dal coach, si va poco lontano.
Come hai preparato la semifinale contro la Virtus?
Non è stato semplice, ovviamente, prepararla in poche ore. Il piano partita era all’incirca quello che abbiamo avuto in campionato. Loro, avendo giocatori come Teodosic, Weems, Belinelli, Mannion e Cordinier, che interpretano il gioco in tanti modi diversi, dando imprevedibilità all’attacco, ti costringono al non poter fare un solo tipo di scelta. Ho la fortuna di avere giocatori molto flessibili alle richieste e ho attinto alla loro grande capacità di adattamento.
Cosa pensi del ricambio generazionale del basket italiano che latita? C’è qualcosa da cambiare anche a livello di settore giovanile?
È un discorso molto ampio che riguarda tantissime componenti. Una di queste riguarda noi allenatori di prima squadra che dobbiamo cercare di fare un grande sforzo per capire quello che possiamo fare per i giocatori giovani che ci vengono affidati alla fine del percorso giovanile. Un’altra componente riguarda il settore giovanile che dovrebbe sforzarsi di più a guardare la pallacanestro senior. Oggi c’è un gap troppo netto tra pallacanestro giovanile e senior. Se guardi una partita giovanile e poi una partita senior, hai l’impressione di assistere a due sport diversi. Bisogna capire che i soggetti dell’insegnamento sono i giovani, e dobbiamo fare in modo di aiutarli il più possibile ad essere pronti alla fine del percorso giovanile.
Facciamo un gioco, io ti dico una data e tu mi dici cosa stavi facendo: 4 maggio 2008.
Eh, 2008, io ero a Jesi, ma non mi viene in mente niente di preciso da associare a quella data.
Esatto. Tu eri a Jesi. E Tortona era in C2. Ettore Messina, invece, in quella data vinceva la sua quarta Eurolega sconfiggendo in finale il Maccabi.
La sensazione che ho provato affrontando uno come Ettore Messina, peraltro il giorno dopo aver affrontato Sergio Scariolo? Posso dirti questo: io come stazza sono grosso, ma camminare lungo la stessa linea laterale con due coach così grandi come Scariolo e Messina mi ha fatto sentire davvero piccolissimo. Se a maggio del 2008 mi avessero detto “tu nel 2022 giocherai la finale di Coppa Italia con Tortona contro l’Olimpia Milano e Ettore Messina”, di sicuro gli avrei risposto “cambia spacciatore!”
Siamo al telefono da tre quarti d’ora, ormai. Abbiamo parlato di basket italiano ed europeo, di vittorie memorabili e sconfitte brucianti, di coach suoi colleghi e giocatori. Si è quasi fatta l’ora di cena ed è giusto non abusare della sua disponibilità, quindi ringrazio, rinnovo i complimenti e saluto. Riguardo gli appunti che mi ero preso prima dell’intervista e mi dico “Cavolo! Non gli ho chiesto come mai quando esce per l’intervallo lungo rientra sempre di corsa negli spogliatoi, se è un rito scaramantico o che?”
Non fa niente, glielo chiederò un’altra volta, perché la carriera di coach Ramondino ha ancora tanti capitoli da scrivere. Mettiamoci comodi. Godiamoceli.