illustrazione grafica di Christina Pignoli
Il rumore degli stivali del cowboy riecheggiava nell’edificio mentre si avvicinava al suo obiettivo. La parte inferiore dei chaps che indossava sfiorava il pavimento, la camicia di flanella era un po’ sgualcita. Man mano che si avvicinava, sentiva crescere il rumore delle voci provenienti dalla stanza dove sarebbe entrato di lì a poco e fu sicuro che non potevano sentirlo. Si aggiustò il cappello a tesa larga sulla testa e slacciò la fondina che aveva sul fianco destro, si appoggiò con la spalla sinistra alla pesante porta di legno e mise la mano sul pomello. Dall’altro lato della soglia sentiva un allegro chiacchiericcio e qualche risata. Respirò profondamente e girò la maniglia, spalancando la porta con un colpo di spalla. Piombò nella stanza e puntò la Colt calibro 35 sui presenti, premendo il grilletto.
Ebbe appena il tempo di incrociare lo sguardo sbalordito di qualcuno.
Con un sonoro scatto metallico, il revolver espulse un cilindro intorno al quale era avvolto un piccolo drappo di stoffa rossa che si aprì istantaneamente. Al suo interno, in un riquadro bianco, era stampata in nero la scritta “Bang!”.
Lo spogliatoio dei Golden State Warriors rimase paralizzato per un istante, che fu tanto breve quanto interminabile: Andris Biedrins con le mani intorno ad una bottiglia di Gatorade che stava per aprire, Al Harrington con la felpa tolta a metà, J-Rich seduto e piegato su sé stesso a fasciarsi il ginocchio. Poi scoppiarono tutti in una risata collettiva.
– Non posso crederci!
– Ma che cazzo?!
– L’ha fatto di nuovo!
Tutti si fecero attorno a Baron Davis, il quale fece un mezzo inchino levandosi il cappello che poco dopo gli fu immediatamente sottratto da qualcuno. Ricevette saluti, sorrisi e pacche sulle spalle. Monta Ellis non riusciva a smettere di ridere, le mani sulla testa.
– Non credevo l’avresti fatto davvero! – riuscì a dirgli col poco fiato che gli restava tra un attacco di risa e l’altro.
– Kid, ti ho portato io in questa squadra e ancora non hai capito con chi hai a che fare! – gli rispose con esuberanza Baron.
Sotto un certo punto di vista c’era della verità nella gag di Davis. Un paio d’anni prima, nonostante fosse in squadra da pochi mesi, c’era un tale entusiasmo attorno a lui che avevano deciso di mandarlo come rappresentante della franchigia al Draft di quell’annata: proprio in quell’occasione la squadra aveva selezionato Ellis al secondo giro.
– E voi str**zi che avete da dire adesso? Avete ancora sfide per BD? – inveì Baron ridendo verso i responsabili della suo look. Al, J-Rich, Matt Barnes e Stephen Jackson erano uno appoggiato all’altro, piegati in due dalle risa.
Erano quelli con cui aveva legato di più da quando era arrivato ad Oakland, quelli che più considerava suoi amici. Uscivano quasi sempre insieme per locali – Harlot, John Collins, posti del genere – e quando la giornata era giusta si trovavano a casa di uno di loro per grigliare e bere qualche birra fredda. Di solito era casa di Baron, che era proprio nel quartiere dei locali. È importante sempre tenere d’occhio la situazione.
Si facevano un sacco di scherzi, il trash talking in partita era durissimo ma erano anche pronti a parlare di argomenti seri quando serviva: era un po’ come essere tornati al college, ma con molti più soldi a disposizione.
Jackson e Harrington erano arrivati insieme da Indiana pochi mesi prima e dunque si conoscevano già. Stephen aveva però legato molto di più con Matt, che si trovava già nella Bay Area dall’estate precedente. Entrambi avevano la fama di essere due enforcer duri e cattivi in campo – cosa che effettivamente erano – ma in realtà erano ragazzi piuttosto tranquilli e riservati. Entrambi avevano una passione per l’erba e proprio su questo particolare hobby si era fondata la loro amicizia. Baron apprezzava le serate trascorse a fumare sulla terrazza di Matt, con vista sulla baia, musica chill e non troppe parole.
– Ok fair enough, sei un uomo di parola – gli disse Jason Richardson sorridendo.
– Lo sai, amico! – rispose Baron scuotendo il dito indice avanti e indietro.
Nutriva grande rispetto per Jason. Da quando Davis era ad Oakland si era conquistato sul campo il titolo di volto della squadra ma, negli ultimi anni, una delle poche note positive della squadra era stato lui. Aveva ridato un po’ di lustro alla franchigia con le sue schiacciate spettacolari, vincendo anche due Slam Dunk Contest. A dirla tutta, a sentire Jason, ne aveva vinti tre. E forse non aveva tutti i torti. Era però anche un giocatore generoso e professionale: dava sempre il massimo e si spingeva sempre al limite.
Soprattutto era un capitano vero che metteva le necessità della squadra al primo posto. Non aveva infatti esitato a consegnare le redini della squadra a Baron.
– Dai su non farla troppo lunga e datti una mossa, Clint Eastwood – lo apostrofò Al Harrington con tono canzonatorio, – che ti abbiamo portato ai playoff ma dovrai iniziare a fare qualcosa anche tu se vogliamo andare avanti!
– Hey! Hey! Quattordici assist baby! – gli gridò dietro Baron mentre Harrington usciva dallo spogliatoio, seguito dai compagni.
– Trentuno punti fratello, trentuno! – rispose Al, canticchiando l’ultima parte della frase. Il corridoio vuoto faceva risuonare il suo vocione.
Forse non era il suo migliore amico, ma Baby Al era certamente un buon giocatore. Era un 4 in grado di aprire il campo con le sue bombe – My name is Al Harrington and i get buckets! – ma non aveva timore a difendere sugli esterni quando necessario. Certo, forse l’opinione che aveva di sé stesso era un po’ troppo alta, ma era divertente stargli vicino anche per questo. Soprattutto erano divertenti le sessioni di trash talking.
Baron iniziò a togliersi gli stivali, un’operazione di cui aveva sospettato la complessità fin dal momento in cui li aveva indossati. Il costume glielo aveva trovato sua sorella Lisa che restava il suo punto di riferimento per qualunque questione riguardasse l’abbigliamento, con buona pace della fidanzata di turno. Era stato l’ultimo atto di giorni di follia e festeggiamenti: erano riusciti a raggiungere i playoff con l’ultimo posto disponibile, vincendo l’ultima partita della stagione. Il suo compleanno era stato esattamente una settimana prima, ma aveva deciso di rimandare la festa perché arrivare ai playoff, per loro, era come vincere un campionato. Già un mese prima si era iniziato a mormorare che forse questo era l’anno giusto per riuscirci e proprio in quell’occasione, durante una trasferta a Dallas, i suoi quattro amici lo avevano sfidato a venire vestito da cowboy se fossero riusciti ad arrivare ai playoff.
La festa di compleanno l’aveva celebrata il giorno dopo in un capannone di San Francisco affittato per l’occasione. Baron era abbastanza convinto che, tra capannone e locali adiacenti, ci fosse abbastanza gente per riempire buona parte della Oracle Arena. Se non tutta. Non ricordava molto altro della festa: Biedrins che balla sulle note di Rihanna, gente che continuava a passargli drink e di aver parlato per dieci minuti con una ragazza senza capire nulla di quello che stesse dicendo. Il giorno dopo i suoi postumi erano stati resi peggiori quando gli avevano chiesto di cosa stesse parlando con Jessica Alba.
Baron indossò la maglietta da allenamento. In realtà non era la classica maglietta da allenamento, quella Spalding con scritto “Golden State Basketball”. Era una maglietta blu con una scritta gialla sul fronte: “We Believe”.
Si trattava delle magliette che la franchigia aveva diffuso seguendo quello che era diventato il motto della stagione. Era tutto nato da un cartellone di un tifoso che era finito sul giornale, o qualcosa del genere: Baron non ne era sicuro, ma sapeva che con le televisioni e i giornali qualunque cosa poteva avere grande risonanza. Per non parlare di Internet – Youtube, MySpace, tutta quella roba.
Fatto sta che, con la loro serie di vittorie dopo l’All Star Break, ben presto “We Believe” era sulla bocca di tutti i tifosi e i giornali della Bay Area. E la società aveva intelligentemente capitalizzato.
Baron era ammirato dall’efficienza e dall’organizzazione societaria dei Warriors. Decisamente superiore a quanto aveva visto agli Hornets, nonostante la sua squadra precedente avesse una storia recente – beh, forse non proprio recentissima – con risultati migliori.I Warriors non andavano ai playoff dal ‘91, gli avevano detto. O forse dal ‘94? Baron non se lo ricordava, in quel momento. Certo è che i tifosi avevano avuto ben poco da festeggiare nell’ultima decade, passata a lottare con i Clippers per decidere chi stava peggio. La situazione era cambiata, almeno parzialmente, quando era arrivato lui.
Ricordava il pomeriggio di febbraio di due anni fa in cui gli era stato comunicato che avrebbe lasciato New Orleans.
Aveva trascorso cinque stagioni e mezza con gli Hornets, cercando sempre di dare il massimo. Nelle prime tre stagioni c’era anche riuscito: partendo prima come leader della second unit, poi guadagnandosi un posto in quintetto e infine diventando la stella della squadra. Era stato convocato per l’All Star Game – anche se solo per rimpiazzare Vince Carter – ed era andato, anche se avrebbe preferito tornare a Los Angeles e stare accanto a sua nonna Lela che aveva avuto un attacco di polmonite. Erano stati i suoi nonni materni a crescere lui e sua sorella, ed era molto legato a loro.
I guai erano cominciati quando aveva iniziato a soffrire di tanti infortuni, più o meno gravi, che avevano cominciato a fargli trascorrere più tempo del dovuto sugli spalti. L’allenatore con cui andava più d’accordo, Paul Silas, era stato silurato e sostituito prima dal mediocre Tim Floyd – che tollerava ma che mai era riuscito ad ispirarlo – e poi da Byron Scott, che non mancava mai di fargli pesare le sue assenze. Come se fosse colpa sua se la squadra era passata da 41 a 18 vittorie nel giro di un anno.
La situazione non era migliorata quando Baron aveva fatto notare che non era esattamente l’unico a soffrire di infortuni ricorrenti e che forse si trattava di un problema più ampio, inimicandosi definitivamente Scott e il suo staff. Il fondo si era raggiunto quando si era fatto male al tendine d’Achille e aveva dovuto saltare gran parte della stagione: aveva deciso di farsi curare e fare riabilitazione a Los Angeles, dove aveva dei contatti con dottori di cui si fidava. Scott gli aveva detto che andava bene, ma il giorno dopo sull’aereo aveva letto sul giornale che secondo il suo allenatore era un egoista. Questo aveva sancito definitivamente la rottura dei rapporti e appena tornato si era trovato senza troppi convenevoli nell’ufficio del proprietario, George Shinn, a discutere del suo futuro.
Baron uscì dallo spogliatoio e percorse il corridoio che portava al campo. Le mura bianche erano inframezzate da una fascia blu – o era azzurra? – con in trasparenza una foto panoramica del pubblico dell’arena. Poco più avanti, vicino all’ingresso, c’erano i cartonati a grandezza naturale dei giocatori.
Entrò in campo, dove i suoi compagni si stavano riscaldando. Qualcuno faceva stretching, altri facevano giri di campo. Altri ancora, come Monta e J-Rich, erano già con la palla in mano: Ellis provava dei layup con la mano debole, Richardson tirava dall’angolo.
Davis gli si avvicinò, si sedette su una sedia della panchina e iniziò la sua routine di allungamenti.
– Comunque Dallas l’abbiamo sempre battuta quest’anno, – borbottò Jason.
Russell, uno degli assistenti, gli passò un pallone. Richardson lo prese, lo fece passare tra le gambe e fece un side step verso la linea di fondo, caricando il tiro.
– Come hai detto? – gli disse Baron. Aveva sentito benissimo, in realtà.
– Ho detto che abbiamo sempre battuto Dallas, quest’anno. Tre volte su tre. – aggiunse tirando un po’ il fiato e portando il pallone verso l’alto. Rilasciò il tiro, inclinandosi leggero. Il pallone rimbalzò sul ferro ed entrò.
– Beh possiamo batterli ancora se hai voglia. – rispose Baron – Tu hai voglia di batterli?-
Richardson non rispose. Ricevette palla, fece un altro side step, tirò ancora. Il pallone entrò.
Baron non aveva davvero bisogno di una risposta, ma ritenne di averla ricevuta. Conosceva abbastanza Richardson ormai da sapere quanto ci teneva.
Le ore trascorse dopo aver parlato con Shinn furono terribili: non poteva credere che l’intera organizzazione gli stesse voltando le spalle in questo modo, dandogli dell’egoista e sminuendo le sue motivazioni. Quando gli era stato proposto di andare ai Warriors, la sua risposta era stata “Hell No! Fanno schifo!”. Aveva risposto brutalmente, soprattutto per essere maleducato nei confronti di Shinn. Però era vero. Non ricordava l’ultima volta che erano stati ai playoff. Non sapeva niente della zona. Che ci andava a fare lì?
L’alternativa era Minnesota. Anche la loro stagione era stata fino a quel momento deludente e il cambio di allenatore non aveva migliorato la situazione. Però l’anno precedente avevano fatto le finali di Conference, avevano Garnett, Sam Cassell e un quintetto in cui tutti erano in grado di fare canestro con costanza. L’idea era allettante.
Quella sera aveva ricevuto una telefonata, ma l’area code non era Minneapolis. Era Oakland. Aveva trascorso quasi un’ora e mezza a parlare con Jason Richardson, che fino a quel momento conosceva appena. Gli aveva raccontato della squadra, dello staff, della gente, dell’aria della Baia, delle strade di San Francisco, la musica, la Silicon Valley. Gli aveva detto che avevano bisogno di lui.
Una volta chiusa la comunicazione, Baron si era scoperto a pensare che tutto sommato i Warriors non erano così malaccio. Sarebbe stato più vicino a casa, o almeno più vicino di quanto era stato negli ultimi sei anni. Da Minnesota non gli aveva telefonato nessuno. Non gli andava poi tanto di fare la guardia. Sam “I Am” Cassell era un ballhog incredibile, non gli andava di giocarci. GLI INVERNI! Gli inverni di Minneapolis! Che ci andava a fare lì?
J-Rich era stato onesto con lui: nella baia la pallacanestro era morta. Ed è esattamente quello che Baron aveva constatato al suo arrivo. La squadra veniva da circa tre vittorie nelle ultime venti o ventiquattro partite. Richardson era infortunato, Troy Murphy arrivava ad allenamento a testa bassa, Mike Dunleavy non parlava con nessuno.
Baron non sapeva niente di Oakland. Assolutamente niente. Era nato a Los Angeles, era cresciuto sull’ 85esima strada, era andato a UCLA. Apparteneva all’altra barricata della rivalità californiana, che non era solo cestistica. Riguardava tutto, dall’abbigliamento, alla musica, allo stile di vita: Los Angeles e San Francisco erano – e sono – due mondi diversi.
Eppure, al suo arrivo nella baia, era rimasto colpito. Le persone che incontrava per strada erano quasi sempre amichevoli anche se non lo conoscevano. I tifosi mostravano sempre il loro supporto alla squadra, anche se i risultati non arrivavano. Il livello di rumore che faceva la Oakland Arena per sostenere i propri giocatori non aveva rivali negli altri palazzetti.
Tutto ciò aveva pompato nelle sue vene una dose di energia che non ricordava di aver mai provato in vita sua: forse era il contrasto con l’ambiente che aveva appena lasciato, forse era l’entusiasmo di una nuova avventura. Dopo il suo arrivo, i Warriors vinsero 18 delle successive 28 partite. J-Rich ha sempre sostenuto che era merito suo. Baron non era sicuro di avere tutte queste responsabilità: magari aveva aperto un po’ gli occhi ai compagni sull’ambiente che li circondava, questo sì.
Forse gli aveva restituito un po’ di fiducia nei loro mezzi.
He made them believe.
Terminò lo stretching, si procurò un pallone e si diresse alla linea del tiro libero. Fece un respiro, guardando il canestro e tenendo la palla contro il fianco sinistro. Fece un palleggio, inclinando la schiena in avanti. Si raddrizzò e rilasciò il tiro. Canestro.
Silas gli ripassò la palla: era il figlio del suo ex allenatore a New Orleans, si conoscevano da allora ed erano in rapporti piuttosto buoni.
Provò ancora. Fianco, palleggio, schiena, tiro. Canestro.
Ancora. Fianco, palleggio, schiena, tiro. Ferro dietro.
– Ehi buckaroo, sbagliamo i liberi? – gli ridacchiò dietro Baby Al che nel frattempo gli si era avvicinato.
– Sapete da dove deriva il termine buckaroo? – disse una voce che arrivava da dietro entrambi. Era il coach, Don Nelson. Aveva gli occhi stretti, il viso solcato dalle rughe, i capelli bianchi come la neve sempre ribelli ai suoi tentativi di metterli in ordine. Era stato cinque volte campione NBA. Era probabilmente uno dei migliori dieci allenatori di sempre.
Sia Baron che Al scossero la testa alla sua domanda.
– Deriva da vaquero, il termine spagnolo che indica i mandriani. Gli Stati Uniti sono un paese talmente nuovo che abbiamo rubato le parole agli altri e adesso siamo lì a comandare tutti. Il mondo è davvero uno strano posto, non trovate? –
I compagni si erano avvicinati. L’arrivo del coach segnava l’inizio imminente della partita d’allenamento. Non si sarebbe fatto altro quel giorno, non con Gara 1 a pochi giorni di distanza.
Don Nelson si guardò intorno.
– Che volete tutti? Non so altro su mandriani e cowboy, sono cresciuto nell’Illinois! – disse, causando una contenuta risata di tutti.
– Tutto quello che so a riguardo l’ho imparato a Dallas. – questa volta nessuno rise.
Don Nelson, per contro, sorrise obliquamente, solcando ulteriormente il suo viso con altre rughe. Aveva trascorso quasi un decennio come allenatore e General Manager dei Mavericks. Aveva scelto e cresciuto lui l’attuale MVP della lega, Dirk Nowitzki. Tutto quello che erano stati, che erano al momento e che sarebbero diventati nel futuro prossimo dipendeva dal suo lavoro.
Si era dimesso dal suo ruolo nel marzo dell’anno precedente, quando il proprietario Mark Cuban aveva ceduto un altro suo pupillo, Steve Nash, contro le sue indicazioni.
Baron provava un immenso rispetto per lui. Riteneva che fosse il suo stile di gioco, la Nelson Ball (o Nellie Ball) il principale responsabile del successo dei Warriors durante gli ultimi mesi. Certo, l’arrivo di Stephen Jackson e Al Harrington aveva aiutato: ma tutti sapevano che il general manager, Chris Mullin, aveva solo accontentato le richieste di Nelson.
Il coach voleva giocare con quintetti bassi per poter cambiare su tutti gli avversari, voleva aprire il campo con i lunghi e giocare a ritmi alti: Al e Jack erano perfetti per il suo stile di gioco.
– Sapete che a Dallas c’è ancora mio figlio Donnie, immagino. – interloquì Nelson. – Mi ha telefonato l’altro giorno facendomi i complimenti per il risultato. Non ha parlato della partita di dopodomani, ma non sembrava particolarmente preoccupato.
I Mavericks erano il loro avversario designato, avendo il miglior record ad Ovest. Tutti ad Oakland sapevano che, se fossero arrivati ai playoff, sarebbero necessariamente capitati contro Dallas.
– D’altro canto, non sembrava neanche particolarmente preoccupato quando l’ho messo sulla bicicletta senza rotelle per la prima volta. Eppure è finito col culo per terra. – disse Nelson, causando ancora qualche risata. Ridacchiò lui stesso per qualche minuto, poi si fece serio. – Che dite? Iniziamo?
La proposta fu accolta da diversi cenni d’assenso e si formarono i due quintetti: titolari contro riserve.
***
Baron prese il blocco di Monta, che gli creò la separazione che cercava dal suo marcatore, Devin Harris. Un blocco precedente aveva portato Nowitzki in marcatura su Ellis, in un matchup che favoriva il suo compagno: con quel blocco aveva l’opportunità di servirlo mentre tagliava a canestro. Nowitzki subito gli tagliò la strada, staccandosi da Monta.
Il tedesco smanacciò verso il pallone, cercando di rallentare Davis per non permettergli di sfruttare il vantaggio creato.
Baron lo vide fuori equilibrio e lo colpì con la spalla: mentre Nowitzki rovinava in terra, caricò il tiro con un leggero fade away. Era una posizione irreale, ne era consapevole, ma l’istinto gli aveva suggerito di andare su anziché cercare di servire Monta.
Il pubblico si alzò in piedi, la palla entrò. Baron si lasciò sommergere dal boato. Un paio di possessi suonò la sirena, sancendo la fine del primo tempo. Un libero di Matt Barnes aveva consegnato a Golden State un vantaggio di due punti.
La serie era stata combattutissima. I Warriors erano riusciti a procurarsi un insperato vantaggio vincendo la prima partita fuori casa: Quella notte aveva preso in giro Baby Al, dicendogli che insieme avevano realizzato 40 punti, di cui però solo sette erano suoi. Dallas aveva reagito e vinto la gara successiva. Dopo altre due vittorie dei Warriors a Oakland, i Mavericks avevano ancora una volta vinto in casa.
Baron sapeva che questa era la loro grande occasione: dovevano vincere stasera, non potevano permettersi una gara 7 in Texas. Tutti lo sapevano. Nello spogliatoio c’erano solo volti concentrati. Don Nelson non fece discorsi alla nazione, limitandosi a comunicare alcuni commenti tattici ai diretti interessati.
Baron guardò Jason Richardson. Due anni fa, a fine stagione, aveva scritto una lettera di scuse ai tifosi per aver mancato i playoff per l’ennesima stagione. Adesso era lì con lui a tentare un’impresa: essere la prima squadra qualificata alla postseason con l’ultimo posto disponibile a battere al primo turno la migliore della stagione regolare.
Bevve un sorso d’acqua.
Di solito in questi momenti i commentatori “ecco che iniziano a crederci!”; “il pubblico ci crede!”; ma no, non era quello il caso. Il pubblico ci aveva sempre creduto. I suoi compagni avevano imparato a crederci. Jason, più che crederci, ci aveva sperato. Ma il primo a crederci, dopo quella telefonata di febbraio, era stato lui.
***
Mancavano cinque minuti alla fine del match. Dallas stava provando a pressare alto, ma Baron riusciva a vedere che era più un segno di buona volontà che non un reale pericolo. Il tabellone segnava 19 punti di vantaggio per i Warriors e Matt Barnes of all people stava tenendo palla vicino al cerchio di centrocampo. Il suo marcatore era con le mani sulle ginocchia, piegato in avanti. Barnes si girò improvvisamente verso Baron, che era collocato sull’ala destra. Davis scattò, andando a ricevere una palla consegnata a dieci metri dal canestro. Prese un po’ di contatto spalle a canestro da Devin Harris, cercando un varco. Josh Howard si alzò dall’ala sinistra per raddoppiarlo: era il varco che cercava.
Servì Jackson, l’uomo che Howard aveva abbandonato: come ricevette, Jack la girò subito in angolo, prendendo in controtempo il difensore che era corso in aiuto. La palla finì a J-Rich, con un secondo rimasto sullo shot clock. Il capitano dei Warriors rilasciò immediatamente il tiro e, come la palla baciò la retina, il pubblico esplose di gioia.
Baron, ancora una volta, si lasciò sopraffare dal boato. Si era infortunato all’adduttore all’inizio del quarto ed era andato avanti stringendo i denti ma, sentendo il calore del pubblico e la consapevolezza di ciò che ormai era inevitabile, d’un tratto non percepiva quasi più il dolore. Adesso non era più questione di crederci. Adesso sapevano. Recuperare ventidue punti in quattro minuti è un’impresa disperata che diventa impossibile se non hai più la determinazione per farcela. E i Mavericks buttarono via subito due possessi: ormai volevano solo andare a casa.
Con poco meno di tre minuti sul cronometro Barnes portava ancora una volta palla. Davis claudicò fino all’angolo destro del campo. Fecero scorrere il più possibile lo shot clock, dopodiché Baron si alzò a portare un blocco cieco a Richardson che era posizionato sull’ala, si allargò sull’ala a sua volta e ricevette lo scarico da Barnes: senza pensarci un attimo prese subito la tripla aperta. Il pubblico si alzò in piedi ma il pallone rimbalzo sul lato esterno del ferro e terminò fuori.
Poco importava: Nelson chiamò la sostituzione e il pubblico scattò in piedi come se avesse segnato, applaudendo e festeggiando.
Era fatta. Era fatta per davvero. Davis abbracciò chiunque gli capitasse a tiro, spettatori, staff, compagni, per poco non abbracciò anche l’arbitro. Mentre dava il cinque a Monta Ellis, il suo sostituto, pensò un momento all’ironia della vita: ci era voluto un losangelino per riportare il basket nella Bay Area. Fece un cenno a Steve Kerr e Marv Albert, passando davanti al tavolo dei commentatori, e poi abbracciò Don Nelson.
– Non vedo l’ora di sentire i complimenti di mio figlio! – gli disse il coach. Baron rise. Il dolore all’adduttore era completamente scomparso.
***
Il dolore era lancinante. Le luci al neon sopra di lui ronzavano in maniera insopportabile. C’era un odore acre e penetrante di alcool puro. O forse era qualche altro disinfettante. Baron non lo sapeva.
Il ginocchio destro era fasciato e compresso da una ginocchiera che gli bloccava tutta la gamba. Sotto quella sorta di impalcatura, di gabbia metallica il ginocchio pulsava ritmicamente. La notte precedente, durante gara quattro contro gli Heat, lo aveva sentito cedere mentre conduceva un contropiede. L’aveva piantato davanti a sé per iniziare un layup ma qualcosa non aveva funzionato. Forse aveva esteso troppo il passo, forse Mike Miller l’aveva urtato mentre tentava di tagliargli la strada e frapporsi tra lui e il canestro.
Baron non lo sapeva.
Sapeva solo che aveva ceduto, facendogli provare un dolore ormai familiare per i molteplici infortuni di cui aveva sofferto negli ultimi anni.
Questa volta però c’era qualcosa di diverso. L’aveva intuito nella caduta, l’aveva sentito mormorare dai medici dei Knicks. Adesso lo vedeva confermato sul volto del chirurgo che gli si avvicinava su quel corridoio fastidiosamente asettico.
– Signor Davis, i suoi risultati sono arrivati. Vuole che l’aiuti? – gli disse il medico, un uomo dal viso austero e dai capelli brizzolati.
– Grazie Doc, non c’è bisogno. – Davis mise le mani sulle ruote e smosse la sedia a rotelle in avanti. Il medico, dopo un attimo di esitazione, si girò e gli fece strada, indirizzandolo in un ufficio adiacente. Lo fece entrare e lo seguì, chiudendo la porta dietro di lui.
Mentre sentiva pulsare il ginocchio, Davis buttò l’occhio sulla data. Era l’11 maggio. Cinque anni prima stava schiacciando in testa a Kirilenko, nell’unica partita che i Warriors erano riusciti a vincere nel secondo turno giocato contro i Jazz. Ricordava che uno o due possessi prima aveva segnato un layup su di lui e il russo gli aveva ammiccato, in maniera più minacciosa che amichevole. E due possessi dopo aveva fatto quella roba! Baron ricordava che mentre andava su e prendeva consapevolezza di quanto stava facendo, per qualche secondo, era stato sinceramente preoccupato per le botte che avrebbe preso dal russo nei possessi successivi. Poi aveva chiuso la schiacciata e per dieci secondi buoni non aveva capito più niente.
– …Ha capito, signor Davis?
Baron si riscosse.
– Uhm? Ah, mi scusi dottore, ero sovrappensiero. Potrebbe ripetere?
Il dottore si schiarì la gola.
– Le dicevo che abbiamo eseguito tutti i test possibili, ma l’esito purtroppo è univoco. Confermiamo la diagnosi precedente di rottura di crociato anteriore e mediale. E purtroppo anche il tendine rotuleo è completamente lacerato. – il dottore gli allungò i documenti che aveva in mano. Erano risultati di risonanze magnetiche, ecografie, radiografie; Baron li sfogliò, senza leggerli davvero.
– Purtroppo il tempo di recupero è di almeno un anno, ma sarebbe un tempo record. È molto più probabile due anni, due anni e mezzo. – le parole del dottore sembravano aver fatto piombare dal cielo un macigno sulle spalle di Baron, che non sapeva come rispondere. Il medico gli mise una mano sulla spalla e Davis alzò lo sguardo dai fogli, incrociando il suo.
– Se mi perdona la franchezza, signor Davis – disse con tono cauto l’uomo – credo che non giocherà più a pallacanestro.
Da qualche parte, dentro di sé, Baron riuscì a trovare la forza di sorridere.
– È qui che si sbaglia Doc – gli rispose, – You gotta always believe. –