illustrazione grafica di Paolo Mainini
Nella vittoria della prima Coppa Italia della Reyer dopo sette eliminazioni al primo turno, c’è una storia che ne ricalca perfettamente genesi e sviluppo: la carriera di Stefano Tonut.
Come la sua squadra, pur dopo due scudetti e una FIBA Europe Cup in bacheca, ha dovuto riconquistarsi la credibilità parzialmente smarrita dopo un girone d’andata complicato ed una qualificazione presa al volo all’ultimo tuffo, così anche il percorso del numero 7 orogranata sembra ripercorrere la stessa traiettoria. Quella di una carriera vissuta sempre di rincorsa, continuamente in discussione nell’aspettare l’occasione giusta, sempre prontamente presa e sfruttata nel modo migliore. Così, a 27 anni, il figlio di Alberto, aspetto non sempre esattamente favorevole nella crescita del prospetto triestino, aggiunge anche la Coppa Italia – quindi almeno un trofeo anche in questa stagione – alla sua bacheca personale, che conta, al pari della squadra in cui milita, i due titoli italiani e la FIBA Europe Cup, senza dimenticare, a titolo personale, un Europeo Under 20 conquistato nel 2013 ed il premio di miglior difensore della rassegna pesarese. Nella perenne sensazione di essersi confermato ad alti livelli, pur dopo un infortunio non semplice da smaltire, ma di non aver ancora espresso del tutto un valore che sembra destinato a crescere ulteriormente. Eppure, un po’ come la qualificazione da ottava della Reyer, non tutto è stato facile nella carriera di Stefano. Porte in faccia, delusioni, scelte vissute sempre nel massimo rispetto e nella consapevolezza di quanto l’amore per il basket fosse più forte di ogni altra cosa e lo mettesse nelle condizioni di vivere serenamente la sua carriera, senza la pressione di dover diventare a tutti i costi un giocatore di alto livello, come poi invece accaduto.
“E’ capitato che non giocassi, anche nelle giovanili, e di tornare a casa ed essere triste, perché portavo un cognome importante nella mia città ed in alcune situazioni è stato un fattore che mi ha giocato contro –inizia il racconto dell’esterno della Reyer – ma i miei genitori, quando non ero in grado di sostenere da solo il peso di certe situazioni delicate, mi hanno sempre invitato a resistere e non mollare. Ho avuto anche un paio di infortuni che hanno messo a serio rischio lo sviluppo della mia carriera, ma ho trovato sempre una forza interiore che mi ha fatto affrontare tutto con serenità, invitandomi a rialzarmi e a pensare che non dovessi mai smettere di lavorare, pur costringendomi a ripartire da capo. E’ successo anche quando sono arrivato a Venezia, al mio primo anno di Serie A, che giocassi pochissimo dopo una bellissima Serie A2 a Trieste, prima di questi quattro anni ricchi di soddisfazioni”.
Una storia piena di sliding doors, vissute nel silenzio di un carattere apparentemente timido e taciturno, con l’idea che il lavoro fosse l’unica ricetta per crescere e migliorare, cogliendo col sorriso ogni traguardo che fosse capitato sulla sua strada, senza grosse aspettative, ma non senza sacrifici.
“Ho sempre cercato di godermi questi successi, ma soprattutto di andare in campo per divertirmi e migliorare, non dimenticando di essere partito dal basso e dello sforzo fatto, in ogni tappa della mia crescita. Ai tempi del settore giovanile, dopo aver fatto allenamento con la prima squadra, facevo 45 minuti di macchina per andare a giocare in C2 a Ronchi, sono passato per un anno e mezzo di Serie B a Monfalcone, non potendo più tornare, per quell’anno, a giocare a Trieste per problemi di tesseramento. Ho continuato ad allenarmi e giocare solo nei campionati giovanili, rispetto a tanti miei coetanei che già giocavano minuti importanti anche tra i senior. Così quando arrivò il momento del raduno della nazionale Under 20, io fui convocato in un terzo gruppo da 16 e ne fui orgoglioso e contento, perché, come detto, molti miei coetanei erano, a differenza mia, già protagonisti in alcune delle leghe più importanti”.
E’ l’Estate che porta all’Europeo Under 20 del 2013, una delle tante volte in cui l’ascesa di Stefano parte da lontano e per una serie di concause miste a meriti, nonostante l’impossibilità di giocare per la prima squadra, lo porta a “resistere” ai vari raduni ed essere convocato nei 12 che partono per l’Estonia a competere per il titolo agli ordini di coach Pino Sacripanti. Tonut è apparentemente in fondo alle rotazioni dell’attuale coach di Napoli, ma le scala progressivamente segnando 14 punti (migliore dei suoi) già nella seconda partita del girone, fino ad andare in doppia cifra anche nella decisiva finale contro i lettoni padroni di casa, di fronte a 6.000 spettatori, prima tenendo a galla la sua squadra con cinque punti nel momento di maggiore difficoltà, poi facendo parte del quintetto della rimonta decisiva, ispirata dallo show conclusivo di Della Valle che vale un meraviglioso titolo Europeo: “E’ stata un’ascesa stranissima, ogni mese sistematicamente succedeva qualcosa: da non poter giocare per il club a segnare 10 punti nella finale per il titolo europeo, una sensazione strana, ma bellissima”.
E’ la base per una prima definitiva esplosione nel campionato di A2, che tutti da anni definiscono come quello degli italiani. Infatti nella stagione 2014/15 Tonut sarà il quarto marcatore assoluto del torneo, primo tra gli azzurri, con 19.2 punti di media in oltre 33 minuti sul parquet, di fronte al pubblico di casa. E pensare che solo due anni prima era stato messo sotto contratto principalmente per far fronte al numero obbligatorio di giocatori italiani previsto dal regolamento di un campionato, all’epoca dei fatti, ancora sotto il regime del professionismo.
Le sue performances non sono più casuali da poter passare inosservate, tanto da sortire la chiamata della Nazionale Sperimentale per una tourneè in Cina e, soprattutto, l’ingaggio di Venezia per lo sbarco in Serie A. Altra storia di una stagione vissuta di rincorsa, partita da lontano e giocando pochi minuti – nel girone d’andata saranno appena tre le occasioni da almeno 20 minuti in campo – ma che trova nuova linfa col subingresso in panchina di Walter De Raffaele, che porterà Venezia a giocarsi una semifinale fino a gara 6 contro la Milano poi campione d’Italia, dopo essere andata anche sul 2-1. Stefano gioca un turno di playoff solidissimo, con un impiego che oscilla tra i 20 ed i 31 minuti, andando in doppia cifra in ben quattro delle sei sfide, oltre a doversi prendere cura, nell’altra metà campo, del dominante Alessandro Gentile di quella stagione: “Ho sempre cercato di fare il mio, raggiungere degli obiettivi parziali senza bruciare le tappe ed alimentare troppe aspettative, nella consapevolezza di essere partito dal basso e non dimenticando mai di giocare sempre per divertirmi e con la voglia di allenarmi”, il commento di un ragazzo che sembra non snaturarsi mai, nonostante l’evoluzione di una carriera diventata ormai significativa. Nell’estate del Preolimpico che qualifica per le Olimpiadi del 2016, come spesso accade nella sua carriera, Stefano è inizialmente fuori dalla lista anche dei 24 di Ettore Messina, che però, non senza destare sorpresa, lo convoca per i 12 che vedranno svanire l’occasione a cinque cerchi nel supplementare perso contro la Croazia di fronte ai 15.000 del PalaAlpitour di Torino.
La sua crescita personale, però, non si ferma e subisce una notevole progressione durante il ciclo, non ancora concluso, in maglia Reyer, fino alla storia dei giorni nostri, quella di una Coppa Italia vinta da miglior difensore, giocata partendo sempre in quintetto nonostante un infortunio a 20 giorni dal lungo weekend della Vitrifigo Arena: “E’ stato per me il momento più bello, anche perché mi ero fatto male proprio alla vigilia della sfida di campionato con Bologna, ovvero la partita più stimolante da giocare in quel momento, quindi mi ero posto come obiettivo quello di essere pronto per il quarto di finale e pur avendo svolto un solo allenamento e mezzo con la squadra, sono subito partito in quintetto, segno che si era percepita la mia forte carica fisica e mentale e che soprattutto l’infortunio evidentemente non aveva fatto svanire la fiducia che c’era in me, nonostante giocassi in una squadra ricca di talento ed alternative”.
Talento, alternative e soprattutto tanta personalità, distribuita tra giocatori esperti e di spessore, apparentemente da far spavento, eppure la Reyer ha vinto la Coppa Italia presentando costantemente tre giocatori italiani nel quintetto titolare, dimostrando come questo aspetto, spesso discusso a proposito della necessità di garantire spazio ai nostri atleti, possa coesistere anche con obiettivi di alto livello: ”E’ una delle cose più belle che si sono viste, pur avendo tanti giocatori stranieri forti e tanta qualità dalla panchina. Ognuno, anche chi ha giocato meno o non lo ha fatto proprio, è stato determinante nel portare un mattoncino a questa vittoria, del resto questa è stata la nostra forza in tutti questi anni: abbiamo avuto sempre gruppi molto uniti, a questo livello non è detto che si vada per forza tutti d’accordo, ma io non mi sono mai trovato male con alcun compagno e i risultati premiano il modo in cui la squadra è stata costruita in questi anni”.
Un blocco granitico, che ha faticato nel corso del girone d’andata, ma ha confermato la sua forza in una coppa nuova come l’Eurocup e trovato un nuovo forte stimolo di fronte ad un obiettivo che finora era sempre sfuggito, senza mai riuscire a passare nemmeno il primo turno: “Forse, appena vinto il secondo scudetto in tre anni, un po’ di inconscio appagamento può essere anche fisiologico, ma soprattutto ti espone al fatto che tutti gli avversari giochino contro di te portando dentro delle motivazioni extra. Probabilmente il motivo per cui abbiamo avuto qualche alto e basso è stato questo, differentemente dall’Eurocup, una manifestazione nuova nella quale abbiamo fatto bene sin dall’inizio. Poi, acciuffata la qualificazione alla Coppa Italia in extremis la situazione paradossalmente si è ribaltata, perché la motivazione di fare bene, da sfavorita contro la squadra che aveva mostrato tutto il suo valore in questi mesi, era la nostra, unita alla voglia di riscattare soprattutto la beffarda eliminazione dello scorso anno e cancellare il tabù del non aver mai passato il primo turno. Se eravamo ottavi alla fine del girone d’andata vuol dire che meritavamo quella posizione, ma eravamo consapevoli del valore del nostro valore anche al cospetto di due autentiche corazzate come Bologna e Milano, capaci nel frattempo di portare in Italia giocatori che hanno fatto la storia dell’Eurolega. In più ci siamo trovati in finale di fronte a Brindisi, squadra che aveva già giocato l’atto conclusivo lo scorso anno, che anche in questa stagione sta giocando molto bene e si è presentata probabilmente come quella più in forma sotto l’aspetto fisico e mentale. Insomma, tante motivazioni nell’affrontare probabilmente le tre partite più difficili, peraltro contro squadre che ci avevano battuto durante la stagione regolare”.
Così, partita dopo partita, la Reyer è riuscita a compattarsi e superare le difficoltà via via proposte dal tabellone pesarese, sfruttando il canestro allo scadere di Daye nei quarti (in cui Tonut ha segnato 16 punti), e prendendo consapevolezza in una semifinale con Milano nella quale ha assunto, con una prestazione solida e di grande durezza mentale, gradualmente il comando delle operazioni nella seconda metà di gara, fino a controllare per tutto l’arco della sfida la finale contro Brindisi. Un percorso che ha confermato nuovamente la consistenza tecnica e psicologica di un Tonut apparentemente sempre freddo e lucido, in controllo delle emozioni e che sembra non scomporsi più di tanto nemmeno di fronte ad un altro trofeo vinto da protagonista, impreziosito dal premio di miglior difensore di fronte ai migliori giocatori di questo campionato: “La ragione credo stia nel fatto di non aver mai perso la consapevolezza di essere partito dal basso, conscio degli sforzi fatti e del sostegno ricevuto da chi mi è stato a fianco quando non ero in grado di reggere da solo lo sforzo, pensando piuttosto a voler smettere di giocare. E poi anche io ogni tanto impazzisco e perdo il controllo (ride), ma è normale approcciarmi con la stessa naturalezza dei primi tempi, né mi sento in dovere verso me stesso e gli altri di cambiare l’atteggiamento, ora che i risultati sono arrivati, rispetto a quando le cose andavano male, cercando di restare il più semplice possibile. Molto dipende da come cresci ed il merito è di chi mi è stato vicino, oltre, come detto, di un aspetto che va oltre il fattore tecnico e tattico ed è la chiave principale di questi risultati: in tutti gli anni qui, non mi sono mai trovato male con nessuno, italiano o straniero che fosse, a testimonianza di quanto bene fosse stata costruita questa squadra”.
Uomo simbolo di un progetto Reyer che continua a mietere successi anche nel settore giovanile (vittoria e doppietta con la Next Generation Cup, riservata agli Under 18), senza dimenticare il settore femminile, rispetto al quale Stefano dimostra un senso di appartenenza e responsabilità che cresce proporzionalmente ai risultati: “A prescindere dalle vittore, sappiamo di dover dare l’esempio, nel nostro modo di giocare e stare in campo, per dare ancor più forza ad un progetto che continua a crescere e presenta sempre tante iniziative, una tra tutte la Reyer School Cup (torneo riservato alle scuole superiori della zona, cui partecipano 48 istituti con finalissima disputata in un Taliercio spesso tutto esaurito), destinate ai più giovani: a noi sta indicare la via da seguire, anche per questo è bello condividere questo percorso con i De Nicolao e i Mazzola protagonisti sul parquet”.
Carattere introverso, ma capace di aprirsi quando serve e di fronte a persone che gli ispirano fiducia, Stefano ha mostrato grande sensibilità anche fuori dal parquet, come quando, a sorpresa, è passato a salutare, fuori dalla finestra, un tifoso della Reyer che non poteva ricevere visite nel suo letto di ospedale. Sul futuro, invece, le idee sono abbastanza chiare: “Guardando all’estero si dice un gran bene della Liga spagnola e chissà che un domani non capiti di provarla, ma anche il nostro campionato sta sensibilmente risalendo di valore, soprattutto con l’arrivo di tanti giocatori forti dall’estero e l’opportunità di poter vedere in tv tutte le partite di Coppa e Campionato. Sotto questo aspetto, direi che la Final Eight che abbiamo appena giocato ne è la conferma: location spettacolare, palazzetto ancor di più, otto squadre tutte potenzialmente in grado di arrivare in finale (infatti l’hanno giocata 7^ contro 8^) e la bellissima risposta di tutte le persone amanti della pallacanestro e non confermano che il movimento stia migliorando”.
Senza perdere di vista gli obiettivi a medio termini personali e del club: “La Reyer ha l’ambizione di competere ai massimi livelli sia in Italia che in Europa. Sarebbe bello giocare l’Eurolega e proveremo a qualificarci già attraverso l’Eurocup di quest’anno, con la speranza, prima o poi, di poterla giocare in casa e davanti ai nostri tifosi. Credo sia l’ambizione di qualsiasi giocatore, ma come sempre mi approccerò al futuro con l’obiettivo di fare del mio meglio e di arrivare il più in alto possibile. E poi in estate c’è il Preolimpico, l’anno prossimo l’Europeo col girone di qualificazione in Italia: è il sogno di ogni sportivo far parte di una Nazionale che giochi un’importante competizione internazionale”.
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